Quando Oscare Del Grullo, impiegato alla ricevitoria del dazio, fu fatto maresciallo e addetto negli uffici del Distretto, poco mancò che non perdesse la testa dall’esaltazione. E siccome aveva letto che qualche volta la gioia può anche uccidere, egli cercò tutti i mezzi per calmarsi, sentendo in vece con gran paura che il cuore gli batteva come se si fosse allentato qualche congegno. Ma, per fortuna, non successe niente; e si capisce perché: in fine, gli uomini forti, gli uomini veri, debbono resistere a tutte le emozioni! Camminando, però, gli tremavano le gambe; e, anche in casa, al cospetto della moglie, che lo guardava con incitante orgoglio nel viso imbottendogli di ovatta il panciotto per le sue spalle di vero riformato, inciampava e urtava da per tutto.
I primi giorni fu un delirio. Entrava nella stanza sua, e la testa gli girava; si metteva a sedere e gli pareva che la sedia si facesse sempre più bassa, sempre più bassa; mentre i registri aperti, dove doveva scrivere, gli chiudevano il respiro; le teste dei colleghi lo confondevano, lo ingarbugliavano. Non capiva bene quel che gli ordinavano; nell’alzarsi, quando entrava un superiore, faceva sempre cadere qualche cosa; la penna gli sgocciolava su la carta. E sudava, sudava, ridotto al punto che diceva una parola per un’altra e dimenticava quel che aveva fatto un minuto prima. Mentre il pavimento andava su e giù, e le pareti si allargavano e si stringevano; dandogli una preoccupazione che assomigliava alla follia. Ma, alla fine, ci si abituò, perché ci si abitua anche alle cose grandi; e, benché vivesse in continue agitazioni, che nascevano dalla responsabilità e dalla ebbrezza dei galloni, quasi smagrito, decise anzi tutto di essere severissimo, per farsi ammirare, credeva lui; perché, a dire la verità, i superiori non si accorgevano che il maresciallo Del Grullo fosse differente a tutti gli altri marescialli. Ed egli ne incolpava la sfortuna. Perché non lo facevano, per meriti speciali, tenente dopo qualche mese di servizio, e poi capitano, maggiore, colonnello? Generale, anzi? Questi pensieri gli facevano lo stesso effetto di un’ubriacatura, che non riesciva a nascondere più: che egli stesso, in vece, avrebbe voluto non avere.
I baffi biondi, di un bel colore delicato, soffici e morbidi; un poco calvo sopra la fronte; le mani pallide, quasi di donna; gli occhi ceruli dietro le lenti, ma occhi di sartina; gracile: tutte queste qualità non denotavano un’indole destinata a una sorte meno modesta? Egli ci teneva ad essere fatto a quel modo; e tra i marescialli si reputava il più distinto, quello che più degli altri aveva l’aria di ufficiale.
Non era troppo intelligente ma in compenso aveva una bella calligrafia, sempre quella della scuola tecnica; e faceva rapidamente le quattro operazioni aritmetiche mettendo i numeri su la carta con una rapidità elegante ed esatta; con una disinvoltura, che denotava abilità ed abitudine. Ed era sicuro di destare invidia; benché, al solito, non glielo facessero capire. Scriveva, in fatti, con una calligrafia sottilissima, quasi invisibile, ma netta ed accurata; e le maiuscole avevano movimenti di una civetteria allucinante.
Egli lo sapeva, ma faceva finta di niente; ed era una grande modestia. Anzi, si metteva lì su i registri ad ore intere, sicuro dell’effetto che produceva; senza stancarsi mai. Peccato che il colonnello entrasse tanto di rado nella stanza e non ci facesse caso! Prima o dopo, tuttavia, si aspettava di vederlo lì fermo ad ammirare.
Ma tra gli altri colleghi, nell’ufficio, c’era un sergente, Asdrubale Mattei, che era tutto il suo opposto. Oscare lo guardava sempre con un compatimento ostile. C’era da vero troppa tolleranza al Distretto! Grosso, sanguigno, con certe mani che parevano quintali: gli occhi porcini, il naso ciccioso, e i baffi fatti con quattro setole. Tutte le volte che doveva rivolgersi a lui, cercava di non dire mai una parola di più e di avere una voce che escludeva qualsiasi avvicinamento: gli dava noia anche quando si soffiava il naso. Quando, poi, parlava, qualunque cosa dicesse, si sentiva offendere. E gli altri che gli rispondevano!
C’era un tenente con il viso piccolo piccolo, con la barba rossa e gli occhi di agnellino; un altro maresciallo stento e malato al cuore; un caporale con il naso a spegnimoccolo e le gambe storte.
Naturalmente, dopo poche settimane, tutti s’accorsero che Oscare pativa molto; e, capite anche le ragioni, ci si divertirono dalla mattina alla sera. Facevano in modo che dovesse parlare quasi soltanto con Asdrubale; e mettevano le cose dell’ufficio con tale accordo che Oscare Del Grullo cadeva in certi imbarazzi da cui lo salvava soltanto il prestigio inarrivabile della sua calligrafia.
Era troppo! E quella canaglia nata del sergente ci rideva quanto voleva, sicuro dei suoi complici. Il maresciallo doveva stare zitto. Allora, il sergente, dopo aver studiato tutta la fisonomia del maresciallo, ne inventava sempre una nuova. E, una volta, disse:
— Signor maresciallo!
Oscare, con l’aria di dargli a pena ascolto, rispose:
— Che... vuoi?
— L’ha riempito lei quel modulo, che dianzi ha portato il capitano?
Il modulo glielo avevano nascosto, e Oscare non aveva avuto il coraggio di dire che non lo ritrovava. Perciò, rispose:
— Sì, sì, ci ho pensato io.
— Glielo domando, perché mi pare che sia restato sempre in bianco.
Il maresciallo allibì; e tutti fecero grandi sforzi per non ridere troppo. Il sergente continuò:
— Lo devo riempire io?
Oscare, come se dovesse accondiscendere a fare un atto di bontà, rispose:
— Riempilo tu; bada di non sbagliare.
— Non dubiti: dopo lo farò rivedere da lei.
Ma state a sentire quel che avvenne il giorno dopo. Prima d’entrare in ufficio, Oscare s’era fermato a bere il caffè a un bar. Ecco che anche ad Asdrubale capita di fare altrettanto; e, per sua disgrazia, non saluta. Già Oscare non poteva ammettere che il sergente fosse entrato a fare la stessa cosa dove c’era anche lui. Diventa pallido, e gli dice:
— Sergente!
— Comandi!
— Perché non saluti i tuoi superiori?
— È stata una distrazione: non l’avevo visto!
— Tutte scuse!
— Mi farà rapporto?
— Lo saprai. Puoi andare!
Asdrubale s’era pentito sinceramente; ma sperava che il maresciallo, al meno per una volta, ci passasse sopra. In vece, no. A pena in ufficio, scrisse il rapporto. Poi, per darsi una delle sue arie, escì con un pretesto e lasciò il foglio sopra il tavolino.
Naturalmente, tutti lo lessero. Ohimè, per quanto fosse scritto con una calligrafia magnifica, era pieno d’errori!
Allora il sergente ebbe una tentazione, che lo sedusse: corresse il rapporto e lo rimise dove l’aveva lasciato il maresciallo.
Quando questi rientrò, dette in giro un’occhiata più indifferente e più modesta che gli fosse possibile; perché era stordito, inebriato, e gli girava la testa. Poi, viste le correzioni, impallidì ma non disse niente.
— Signor maresciallo!
— Che... vuoi?
— L’ho corretto io il suo rapporto.
A quest’uscita, tutti si aspettarono un vero dramma; e fecero finta di non avere udito. Ma Oscare Del Grullo capì che non doveva abbassarsi fino al sergente; e, alzandosi anche da sedere, rispose con sprezzo:
— Ho visto da me! E queste correzioni le hai sapute far bene al meno?
— Mi pare. Le guardi lei, e poi mi dica se le piacciono così.
E si mise in attesa dei suoi ordini, pronto ad obbedire. Ma il maresciallo continuò ad essere sublime. Dopo aver guardato le correzioni ad una ad una con quel suo cipiglio elegante, di persona offesa, riscrisse da capo il rapporto; sicuro e contento ormai di avere raggiunto la perfezione.
Asdrubale Mattei fece la sala di disciplina; ma il colonnello del Distretto, la sera stessa, mi raccontò tutto sbellicandosi dalle risa.