FACTOTUM
È lui che compra i paradenti e i calzettoni, che fa e sistema il sito Internet della società, che tiene i rapporti con la Federazione italiana rugby per i tesseramenti. È lui che la domenica arriva al campo un’ora prima degli altri, dà un occhio agli spogliatoi per vedere che non ci siano gli avanzi dell’allenamento del venerdì sera, poi va nel ripostiglio, prende quella carriolina speciale, la carica di gesso, certe volte di calce, poi traccia le righe sul campo. È lui che apre il baule della macchina, quella è la vera sede del club, altro che storie, lì dentro c’è tutto, dalla maglia di riserva al pallone da partita. È lui che una volta, quando è arrivato un giornalista della «Gazzetta dello Sport», l’ha accompagnato nell’albergo. È lui che ha pensato di fare un calendario con le foto della squadra, poi ha pensato di venderlo per tirare su un po’ di soldi, o almeno per non perderci, e poi ha pensato di spedirlo ai giornalisti, ma non tutti hanno recensito o risposto, anzi pochi, anzi pochissimi. È lui che va in posta. È lui che, se la cassa è vuota, anticipa. È lui che, nel caso, semplifica. È lui che poi, in partita, gioca seconda linea. È lui che si firma prima con il cognome, e poi con il nome, e poi dice: «In fondo ogni persona deve trovare la sua figura nel rugby, ecco io non so ancora bene che cosa sono». Ma se non ci fosse uno come lui, il rugby non esisterebbe. Non in Italia. Sulla Terra.
FAMIGLIA (family, famille)
«Devo un sacco ai miei genitori, specialmente a mia madre e a mio padre» (Daniel Carter).
Storie di fratelli: Wellington Athletic contro Poneke, rissa, Arthur «Ranji» Wilson beccato ed espulso, suo fratello Wally si prese la colpa e fu espulso al posto di «Ranji». Risultato: «Ranji» titolare negli All Blacks dal 1908 al 1914, Wally costretto a emigrare al rugby a XIII.
«Il rugby l’ho sempre respirato in casa. Papà rugbista, fratello maggiore rugbista, rugbisti gli amici e i conoscenti. All’inizio non potevo che essere il figlio di Arturo e il fratellino di Mauro, ma questa eredità non mi è mai pesata. A volte i confronti sono inevitabili, ma – è semplice – basta fare finta di niente. Io ho sempre ascoltato mio padre, e ho sempre imitato Mauro. Ma forse lo spirito rugbistico l’ho preso da mia madre Lorenza. Era lei che lavava, stirava, preparava, poi ci aiutava a renderci autonomi. Si comincia dalla borsa: svuotarla, riempirla, senza dimenticare. Sembrano stupidaggini. Invece sono le cose che ti aiutano a crescere» (Mirco Bergamasco).
«Quando arrivai in prima squadra, mio fratello Enrique andò dall’allenatore e gli disse: “Agustin è più bravo di me, è giusto far giocare lui al posto mio”. Non era vero: lui aveva tre anni di esperienza e di battaglie più di me, e questo ha il suo valore. Ma Enrique era così deciso, che l’allenatore obbedì. La prima amichevole la giocammo insieme: io mediano di mischia, lui all’apertura. Poi in campionato fui abbinato a Fusselli, l’apertura con cui avevo giocato nelle giovanili e con cui mi trovavo a occhi chiusi, invece Enrique tornò mediano di mischia ma in seconda squadra» (Agustin Pichot).
«Ho cominciato a respirare rugby dalla culla. La mia è una famiglia ovale, con due zii che hanno giocato in Nazionale e il terzo quasi: Claudio, Sergio e Giovanni Appiani. Io ho debuttato in serie A a 16 anni, sono rimasto a Calvisano 18 campionati, adesso gioco a Parma, ho 34 anni e mezzo e mi diverto come un matto. Vivo ogni partita come se fosse l’ultima, di anno in anno rimando il momento di dire basta, e intanto spero che l’età legale della pensione rugbistica, 40 anni, sia spostata avanti. Se nel rugby ci fosse uno come Prodi, sarebbe fatta. Pur di rimanere attaccato a questo mondo, con un socio ho aperto un negozio di articoli sportivi. Sapete in che cosa è specializzato il negozio? Indovinato: rugby» (Massimo Ravazzolo).
«Mio padre Nerio giocava a basket, poi all’Università di Ferrara lo invitarono a provare con il rugby. Il rugby non si prova: si fa. Da quel momento, infatti, solo rugby. Apertura o estremo. Nel Villorba, in serie B. Così io non sapevo neanche che esistesse il pallone rotondo. Avevo tre o quattro anni, e mentre mio padre giocava, io stavo a bordocampo. Tiravo calci, mi buttavo a terra, rotolavo» (Alessandro Troncon).
«Mio padre, Sergio senior, giocava terza ala. Vinse anche uno scudetto, a L’Aquila, 1966-1967. Il rugby, mi racconta, era completamente diverso, un altro sport, fisico e morale: palla alta e tutti sotto. Il giorno in cui gli feci capire che, fra calcio e tennis, preferivo il rugby, mio padre stabilì: “Allora devi essere pazzo”» (Sergio Parisse).
«Quando avevo 14 anni, andai con mio padre a vedere la mia prima partita dei Wallabies. Mi aveva detto di tenermi pronto se durante il match ci fossero stati troppo infortunati e avessero lanciato un appello a qualcuno in tribuna. Così mi portai le scarpe da rugby» (Stephen Larkham).
Due ragazzini, a Perth, in Australia. «Mio padre gioca a rugby meglio di tuo padre.» L’altro: «Forse sì. Ma mia madre è meglio di tua madre». Il primo: «Hai ragione. Lo dice anche mio padre».
Dopo il match Australia-Namibia, 142-0, Coppa del Mondo 2003, girava questa storiella. Padre e madre divorziano, il figlio viene convocato dal giudice. «Vuoi vivere con tuo padre?» «No, mio padre mi pesta.» «Allora vuoi vivere con tua madre?» «No, mia madre mi pesta.» «Be’, con chi vorresti vivere?» «Con la Nazionale di rugby della Namibia: non pesta nessuno.»
Camberabero. Famiglia ovale. Guy Camberabero è il più vecchio (classe 1936), mediano di apertura, nazionale francese fra il 1961 e il 1968. Lillian Camberabero (classe 1937), fratello di Guy, mediano di mischia, nazionale francese fra il 1964 e il 1968, spesso in coppia con il fratello. Didier Camberabero, figlio maggiore di Guy, mediano di apertura ma anche estremo e ala, ha partecipato alla Coppa del Mondo 1987 con la Francia. E Gilles Camberabero, fratello minore di Didier, mediano di mischia, anche lui nel giro delle Nazionali. Tutti i Camberabero hanno giocato a La Voulte, vicino a Valence, poi Didier e Gilles si sono trasferiti a Béziers.
«Gioco da quando ho quattro anni. “Rugby, rugby, rugby”, tuonava mio padre. E mia madre sospirava. Lei diceva che la mamma ideale di rugby deve avere due requisiti: una grande pazienza e una buona lavatrice. Con una differenza: la lavatrice, alla lunga, ha perso qualche colpo, lei invece mai. Mio padre sosteneva che fossero più importanti gli allenamenti durante la settimana e la partita il sabato che non la messa la domenica: e questa era l’unica cosa che faceva arrabbiare mia madre» (Agustin Pichot).
Nati lo stesso giorno, nella stessa città, nello stesso ospedale, dallo stesso pancione. Gemelli. I punti in comune di Jim e Fin Calder, a parte il certificato anagrafico e il rugby, ma il rugby è comune a tutti gli scozzesi, finiscono qui. Jim terza ala ma dalla parte chiusa, Fin terza ala ma dalla parte aperta. Jim dal gioco oscuro, operaio, invisibile, Fin dal gioco invadente, prepotente, appariscente. Jim che se si mette in testa una cosa lo vedi già quasi in vista del traguardo, Fin che se si mette in testa una cosa è solo per regalarle compagnia accanto ad altre novantanove in lista d’attesa. Jim che lotta con tutte le sue forze per raggiungere il suo obiettivo, e se proprio non ce la fa, cerca e trova una scorciatoia, Fin che è disposto a percorrere delle tangenziali con il rischio di dimenticarsi la meta. Jim che lavora sodo, che si allena duro, che gioca tosto, Fin che forse ha più talento naturale, un dono di natura, un gene in più, però ovale.
Le prime partite su un pratone fuori dalla porta di casa, niente pali all’orizzonte. Il padre, Robin, destinato a rimanere il più grande e grosso della famiglia, che dice a Jim: «Visto Fin, non è fantastico?» e che dice a Fin: «Visto Jim, non è un fenomeno?» Robin non ha seguito alcun master in psicologia dello sport: è un contadino. Ma il metodo funziona. Sul pratone, quando giocano l’uno contro l’altro, Jim è sempre Jim Telfer, il capitano della Scozia che segna contro i francesi a Parigi, e Fin è sempre uno dei francesi. Non c’è modo di invertire i ruoli. Le altre partite di Jim e Fin si disputano su campi geometrici, in lungo, in largo e in alto, a scuola e nei club. Melville College, la loro squadra, contro Leith Academy, 18-3, sei mete a una (allora la meta valeva tre punti), quattro segnate da Fin e due da Jim. Ma Jim è il capitano della squadra. E al momento di segnare sul foglio gli autori delle mete, e poi attaccare il foglio in bacheca, ecco il miracolo: Jim convince Fin di aver segnato lui le quattro mete. E il bello – visto dalla parte di Jim, un po’ meno dalla parte di Fin – è che, siccome papà Robin premia ogni meta con uno scellino, Jim intasca il doppio di Fin. Ma anche Jim, dietro quella corteccia di muscoli, ha un’anima: e confessa la sua colpa, non subito, ma un bel po’ di anni dopo, il giorno in cui Fin si sposa.
Tutto questo significa una cosa: che nella squadra guidata proprio da quel Telfer il Calder che gioca è Jim, finché Jim si fa male e in squadra entra Fin. Non è una squadra di villaggio, questa è una squadra con la esse maiuscola: Scozia. Telfer lo dice sempre: «Tutti possono giocare per la Scozia, ma non basta: devi vincere per la Scozia». Fin la pensa così: «Giocare per la Scozia ti fa diventare una persona più modesta e migliore». E aggiunge: «Giocare a rugby a qualsiasi livello ti permette di conoscerti più a fondo. Sei custode di qualsiasi maglia indossi, e quando arriva il momento di restituirla, la devi lasciare meglio di come l’hai trovata». Non è questione di lavaggio, chiaro.
Per uno scozzese – e non è obbligatorio essere rugbisti – esiste un solo incontro-scontro cui dedicare la vita: quello contro il Vecchio Nemico, che poi è l’Inghilterra. Sono secoli che scozzesi e inglesi se le danno di santa ragione, dentro e fuori da campi rettangolari. Nel marzo 1990 su Fin piove addosso l’occasione giusta: i Tuttibianchi hanno un punto debole, alla terza centro, Telfer lo sa, e i ragazzi ci danno dentro, come sicari. Ma neppure una vittoria contro il Vecchio Nemico dà alla testa. Il giorno dopo uno degli inglesi, Brian Moore, accetta di andare a un pranzo organizzato dagli scozzesi, sapendo di dover subire le più efferate angherie. E le subisce. Ma da quel pranzo, e da quelle angherie, Moore e Fin diventano amici. Fin ricambia qualche anno più tardi: accetta di andare al matrimonio di Moore, con il kilt, sapendo di dover subire le più efferate battute. E le subisce. Ma da amico, e da rugbista.
FILOSOFIA (philosophy, philosophie)
«Le tre maggiori influenze di civilizzazione dall’era cristiana devono essere trovate nell’Esercito della salvezza, poi nell’istituzione dei Boy Scout, infine nella diffusione di giochi all’aperto, soprattutto il rugby. La mia opinione è che l’importanza del rugby nella formazione del carattere individuale e nazionale sia sempre più profonda» (C.C. Hoyer Miller in 50 Years of Rosslyn Park, pubblicato nel 1929).
«Il rugby è uno sport da condividere» (Raphael Ibañez).
«Il rugby insegna ad accettare il rimbalzo della palla della vita» (Spiro Zavos).
«Senza il rugby, la vita sarebbe un errore» (Enzo Dornetti).
«Il rugby sono 14 uomini che lavorano insieme per dare al quindicesimo mezzo metro di vantaggio» (Charlie Saxton).
«Nel rugby, o hai la palla o tiri giù l’avversario. Il resto è filosofia» (Francesco Volpe).
«Il rugby è un linguaggio. Fatto di parole, gesti, riti, tradizioni. È anche un codice di appartenenza a un certo mondo e a un certo modo di stare al mondo. È una fabbrica di emozioni» (Alessandro Troncon).
«Aiutare: l’infinito del verbo rugby» (Sergio Carnovali).
«Il rugby è sport – allo stesso tempo – per iniziati e iniziatico, è formatore e costruttore» (Daniel Herrero).
«Il rugby non è logico… Se in terza linea ci sono tre giocatori e in seconda linea due, la prima linea dovrebbe essere composta da un solo giocatore» (Robbie McCormack).
«Davide che, usando intelligenza e coraggio, riesce incredibilmente a sconfiggere Golia. La magia del rugby è questa» (Pierre Berbizier).
«Il rugby impone un rispetto della verità che mette un freno alla rabbia dell’apparire» (Pierre Sansot).
«La formula della mia felicità: un sì, un no, una linea retta, una meta» (Friedrich Nietzsche).
«Faccio la rivoluzione con gli altri. Voglio che la soluzione ai problemi si trovi insieme. Sono socialista, ma non mi piace la distinzione fra sinistra e destra. La vita è cercare l’equilibrio con gli altri vicino a me per uscirne. E così è anche il rugby» (Agustin Pichot).
«Fino a ventidue anni non sapevo chi fosse Kafka. Dopo i ventidue neanche» (Gabriele Cabrio).
FINTA (feint, feinte)
Lo chiamano «schinca», che significa «finta». Ta-tac, ta-tac: come un passo di danza, o forse come una zoppia congenita. Con la maglia rossoblù ha segnato 102 mete in serie A. Eppure la sua meta più famosa, quella che tutti battezzano come «la meta di Brunello», non l’ha segnata lui. È il 28 maggio 1988. Flaminio di Roma. Finale, secca, per conquistare lo scudetto del rugby: Treviso-Rovigo. Ultimo minuto: è avanti il Treviso. Un pallone calciato lungo dal Treviso, una liberazione per un po’ di libertà dalla pressione del Rovigo. Brunello è l’estremo del Rovigo, sa che manca poco, ma non pochissimo, non niente, e ha già avvisato i compagni: il tutto per tutto. Prende il pallone al volo, all’altezza dei propri 22, e va diritto: meno strada possibile. I trequarti del Treviso montano a difendere il loro territorio, Brunello si allarga, raddrizza, li evita. Quando si vede pressato da Green, verde di cognome, e verde anche di maglia, ma tuttonero – All Black – campione del mondo, pensa: «Se salto anche questo, ce la posso fare». Green si tuffa, Brunello lo salta. A questo punto Brunello cerca il sostegno, qualcuno cui affidare l’ovale, sicuro come in cassaforte. C’è: è Ravanelli. Ma fra Brunello e Ravanelli c’è un altro giocatore del Treviso, Collodo. Collodo sbaglia il placcaggio, forse scivola. Intanto rinviene Bettarello, un ex. Brunello pensa: «Calmo e, appena puoi, passala». Brunello sguscia anche a Bettarello, passa il pallone a Ravanelli, Ravanelli vola in meta, Botha trasforma, il Rovigo è campione d’Italia.
FIRA
Federation Internationale de Rugby Amateur: torneo che comprendeva, fra le altre, le squadre di Francia, Italia, Spagna, Romania e Russia. Prima edizione nel 1973-1974. Oggi c’è un gruppo A, con le migliori squadre, più gruppo B e gruppo C.
FORCHETTA (fork, fourchette)
Grave infrazione: consiste nel ficcare due dita negli occhi all’avversario.
FRANCESINA (ankle-tap, cuillère)
Placcaggio disperato eseguito rincorrendo un avversario, tuffandosi e cercando, con uno schiaffetto sulla caviglia, di atterrarlo.
FRANCIA (France, France)
«Che il gioco del rugby, inventato nella foschia del Worcestershire e regolamentato fra le nebbie di Londra, si sia impiantato a sud della Manica è già una sorpresa. Ancora più sorprendente è che non sia avvenuto nel cielo grigio della Piccardia o della Lorena (per non parlare della Germania o dell’Olanda), ma al sole dei Paesi Baschi o della Linguadoca; e che abbia messo in moto non i rozzi celti di Bretagna o gli ardimentosi alsaziani, ma gli indolenti vendemmiatori di Guascogna. La sorpresa aumenta nel constatare che a questo sport quasi folkloristico del nostro Mezzogiorno, reso così popolare dalla televisione e ormai seguito a Rouen come a Perpignan, si dedichino solo giovani giunti dal meridione della Francia, come se il calcio avesse solo campioni originari della Puglia o della Sicilia» (Jean Lacouture).
«Gli All Blacks hanno l’Haka, ma noi la Marsigliese» (Vincent Clerc).
«Un altro paradosso. Sebbene impiantato a sud, dove il popolo della vigna e dell’ulivo vota più a sinistra, soprattutto è più laico dei nordici signori del grano e della barbabietola, il rugby francese votava e cantava piuttosto “a destra”. Sia perché la virilità e i muscoli pendono piuttosto da questa parte sia per l’infatuazione dell’intellighenzia detta “degli ussari”, cioè quegli scrittori che da mezzo secolo ostentavano con talento e con stile aristocratico il loro disprezzo per la democrazia invecchiata della Quarta Repubblica» (Jean Lacouture).
Nel 1976-1977 la Francia conquistò il Cinque Nazioni schierando sempre gli stessi 15 giocatori: Paparemborde, Paco, Cholley; Imbernon, Palmie; Skrela, Rives, Bastiat; Fouroux (capitano), Romeu; Harize, Sangalli, Bertranne, Averous; Aguirre.
«Giocare contro la Francia è come affrontare 15 Eric Cantona: brillanti ma brutali» (Brian Moore).
«I francesi: basta aspettare che s’innervosiscano» (Brian Moore).
«A lungo gli inglesi hanno disprezzato la Francia. Due avvenimenti hanno modificato la loro opinione: il primo fu l’armistizio, il secondo la nostra supremazia nel rugby» (Roger Nimier).
«Il gioco dei francesi ha qualcosa di romantico. È nel dolore che sembrano ispirarsi meglio» (Rob Andrew).
Jean Prat, formidabile giocatore francese del secondo dopoguerra, terza ala, 11 anni di miracoli con i «Bleus», che per il capitano della squadra di Lourdes è roba quasi scontata. Si dice che sia stato lui a mettere la Francia sulla carta geografica del rugby, un po’ come fu Cristoforo Colombo a inserire l’America sul mappamondo. Dunque: nel febbraio 1955, a Twickenham, Londra, Inghilterra, mondo del rugby, si gioca Inghilterra-Francia. Basta sedersi e aspettare. Infatti. La Francia viene da un 1954 quasi perfetto: vittorie contro Scozia, Irlanda, Nuova Zelanda e Inghilterra, e sconfitta di misura contro il Galles. Quell’anno ha già vinto contro Scozia e Irlanda. Jean Prat, che sulle due sponde della Manica viene celebrato con l’etichetta più anonima, e più prestigiosa, di «Monsieur Rugby», interpreta una delle prestazioni più esaltanti che si possano ricordare: guida, lancia, travolge, esorta, domina la partita a tal punto che i suoi compagni provano, per lui, un misto di timore e di venerazione. Finché Amédée Domenech, un pilone francese inesperto, esasperato dai continui incitamenti di Prat, quando finalmente si trova fra le mani la palla, istintivamente la passa al suo capitano. È una palla-pronto soccorso, perché insieme all’ovale Domenech gli regala anche un paio di energumeni lanciati e con licenza di uccidere. Come se, sotto quella palla e quei due uomini-cannone, ci fosse la didascalia: «E adesso vediamo quello che sei capace di fare». Prat è capace: in meno di un attimo cattura il pallone, lo lascia cadere a terra, lo calcia di rimbalzo e lo spedisce alto in mezzo ai pali. Drop. Il secondo del match. Che si chiude 16-9 per la Francia.
«French flair»: espressione con cui gli inglesi definiscono la capacità, tipica dei francesi, di proporre azioni alla mano, con passaggi che anticipano i placcaggi.
Prima della semifinale del Mondiale di rugby tra Inghilterra e Francia, una donna francese va a farsi visitare dal ginecologo, un uomo decisamente affascinante. Non appena fatta sdraiare la donna, il dottore si accorge che sull’interno delle cosce la signora si è fatta tatuare a sinistra Ibañez e a destra Pelous. Il medico pensa che si debba trattare di una tifosa di rugby. Così, da buon tifoso anche lui, fa una richiesta alla donna: «Signora, non è che potrei dare un bacino su ciascuno affinché ci porti fortuna per la semifinale?» La signora accetta ben volentieri e il ginecologo sfiora con le labbra le cosce della donna che, presa da un brivido di eccitazione, fa: «Dottore… e un bacino a Chabal non glielo diamo?»
FRONTINO (hand-off, raffut)
L’attaccante può proteggere il possesso del pallone respingendo il difensore con il braccio teso e la mano aperta per evitare di essere placcato.
FUORIGIOCO (offside, hors-jeu)
Un giocatore è in fuorigioco quando si trova davanti al compagno portatore del pallone o che per ultimo ha giocato il pallone.
Trovarsi in fuorigioco non significa che il giocatore debba essere sanzionato, perché può essere rimesso in gioco da un compagno o da un avversario.
Vengono puniti – salva la regola del vantaggio – i giocatori che interferiscono nel gioco (sul pallone o sull’avversario), che avanzano verso l’avversario dopo che un compagno dietro a loro ha calciato il pallone o che si trovino e rimangano a meno di 10 metri da un avversario nell’attesa di ricevere il pallone, o dal punto di caduta del pallone.
I giocatori in fuorigioco vengono rimessi in gioco da un compagno che proviene da una posizione regolare o da un avversario che passi o calci il pallone o percorra 5 metri portando il pallone o tocchi volontariamente il pallone. I giocatori in fuorigioco possono rimettersi in gioco tornando dietro il punto dove il pallone è stato giocato dal compagno che lo ha messo fuorigioco.
I fuorigioco volontari sono puniti con un calcio piazzato sul punto del fuorigioco oppure con una mischia sul punto dove è stato calciato il pallone.
I fuorigioco involontari sono quelli in cui il pallone o il portatore del pallone toccano casualmente un giocatore in fuorigioco. Se il pallone va alla squadra del giocatore in fuorigioco involontario, si ordina una mischia contro la squadra del giocatore in fuorigioco involontario.
In una ruck o in una maul, un giocatore è in fuorigioco se si trova davanti alla linea di fuorigioco, determinata dall’ultimo piede dell’ultimo compagno legato nel raggruppamento, senza parteciparvi. Per rimettersi in gioco deve portarsi dietro la linea di fuorigioco. Oppure può essere rimesso in gioco da un avversario che calci il pallone o faccia 5 metri con il pallone in mano.