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GALLES (Wales, Pays de Galles)

«Gli inglesi giocano a rugby perché l’hanno inventato. Gli irlandesi perché detestano gli inglesi e amano le risse. Gli scozzesi per la loro rivalità storica con gli inglesi. Ma i gallesi hanno un vantaggio: tutti i loro giocatori sono nati su un campo da rugby o vi sono stati concepiti» (Peter Robbins).

Il gallese era la lingua di casa, chiesa e cortile di scuola, l’inglese era la lingua delle lezioni di scuola.

«Cinque delle sei nazioni abitano nel Duemila, nel Terzo Millennio, nel futuro. Una no: come rimasta ancorata al suo passato. Il Galles. È come se, in qualche modo, inconsciamente, il Galles continui a ispirarsi a quella squadra che, negli anni Settanta, si era seduta in cima al mondo. Barry John: Barry di nome, John di cognome, mediano di apertura, un genio, che un giorno disse: “Basta così, e grazie a tutti”, e fu davvero basta così. La prima volta che giocarono insieme, Gareth Edwards, mediano di mischia, gli chiese dove volesse ricevere il pallone. E Barry John gli rispose: “Tu allontanalo dalla mischia, poi ci penso io a prenderlo”. La differenza fra il rugby e il rugby gallese è che il rugby viene dalla terra – mischie, trincee, placcaggi, tuffi – il rugby gallese viene dalle viscere della terra. Come poi i gallesi abbiano imparato a giocare così, rimane un mistero. Forse bastava stare sotto terra per capire i segreti dell’ovale. O forse sotto terra c’erano dei gran campi di allenamento, dove si prediligeva il gioco chiuso, le penetrazioni, il dentro-e-fuori» (Chicco Pessina).

«Non è più il Galles dei minatori, ma anche i figli o i nipoti dei minatori, quando entrano in campo, non scherzano mica» (Giambattista Croci).

«In Galles bisogna andarci preparati. La lingua: codificare tutte quelle consonanti, orientarsi fra gutturali e dentali, affezionarsi alle y, valorizzare le h. Penso a quelli che vogliono spedire una cartolina a un loro amico che abita a anfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch. Impossibile. Quel nome non ci sta neanche su una lettera. In quel paese lì, secondo me, la posta parte puntuale, ma non arriva mai» (Chicco Pessina).

Gallese come Harry Jarman, avanti anche nei British Lions: morì da eroe, a 45 anni, quando si piantò davanti a un camion di carbone a Talywain per proteggere un gruppo di bambini che stavano giocando sulla strada.

Gallese come l’antiHaka guidata da Dai Hiddlestone nel 1924, in un Galles-Nuova Zelanda, e mai più ripetuta.

«I neozelandesi rispettano il Galles. Qualcuno ha detto che il Galles non lo batti mai, al massimo segni più punti. Però una volta il Galles è venuto in Nuova Zelanda e nel primo test-match ha beccato 52-3. Allora un giornalista ha chiesto a Graham Mourie che cosa avrebbe dovuto fare il Galles in vista del secondo test-match, e il capitano degli All Blacks ha risposto: “Informarsi sul primo volo per tornare a casa”» (Paul Griffen).

 

 

GIOCATORI (players, joueurs)

Gioco a rugby perché un giorno mio fratello mi fa, «dai, vieni?», e siccome ho controllato sull’agenda, ed effettivamente ero libero non solo quella sera, ma anche nei successivi 90 giorni, sono andato. Poi ho continuato a giocare a rugby perché, sulla medesima agenda, anche dopo quei fatidici 90 giorni, non c’era uno straccio di appuntamento.

Gioco a rugby perché ne avevo le palle piene del pallone rotondo.

Gioco a rugby perché ero troppo basso per il basket, troppo ricco per il golf, troppo a terra per la pallavolo.

Gioco a rugby perché è uno sport di contatto, e non di contratto.

Gioco a rugby perché è uno sport di contatto, quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare, e tutte quelle storie lì. Però ho fatto due conti, il campo è lungo 100 metri, largo 70, base per altezza sarebbe 70 per 100 uguale 7000, giusto? giusto, allora il campo da rugby ha 7000 metri quadrati di superficie, i giocatori sono 30, l’arbitro uno, diciamo che ogni giocatore occupa un metro quadrato, e anche l’arbitro, quindi 7000 meno 31 uguale 6969 metri quadrati, che significa che andare a contatto non è poi così indispensabile. Basta giocare il pallone al largo, passarselo, finché trovi un buco e vai dentro. O no?

Gioco a rugby perché la buonanima di mio padre, padovano da sette generazioni, e pure mia madre, anche se con non lontane origini veneziane, quando ero molto giovane, mi esortavano spesso con l’identico: «Prima de parlare, tasi». Con le varianti: «Boca sarà no ciapa mosche» («Tenendo la bocca chiusa non si prendono mosche» ovvero «Tenendo la bocca chiusa si evita di dire stupidaggini») e anche «Un bel tacer non fu mai scritto», per finire, soprattutto quando eravamo a tavola, il «Magna e tasi». Insomma, non era nel dna della mia famiglia cercare di tarpare le ali, così ci ho provato io sul campo a tarpare le ali delle ali.

Gioco a rugby perché il mio mito è il mediano di apertura del Rovigo, ha una trattoria, un giorno sono capitato lì per caso, anche se il caso non esiste, e quasi sono svenuto. Mi ha raccontato di quando ha giocato a Twickenham: aveva fatto vari calci di allenamento a stadio vuoto, poi, in partita, quando alzò lo sguardo per preparare il calcio, vide il muro di gente dietro i pali e rimase scosso. Allora riabbassò lo sguardo, pensò alle prove fatte il giorno prima, e quando lo rialzò la gente era sparita, c’erano solo i due pali, e li centrò. E pensare che non avrebbe potuto neanche giocare, perché all’aeroporto si accorse di aver dimenticato il passaporto a casa, o forse nella trattoria, ma riuscì a farla franca. Si chiama Scanavacca e secondo me è per colpa di questo cognome che non gioca in Nazionale. Se si chiamasse Williams o Taylor, sarebbe titolare fisso.

Gioco a rugby perché la mia ragazza ha un debole per «Properzi il Mitico, Properzi il Centurione, Properzi Mi Inginocchio Davanti a Te», come recita sempre per farmi ingelosire, riuscendoci benissimo: quella volta fuori dal Flaminio non ha resistito e gli ha stretto la mano e lì però mi ha capito quando le avevo detto che stringere la mano di Giovanelli è come tuffarsi in un divano, nel senso che tu sei tu, e la sua mano è il divano, e poi che tenerezza, mi diceva sempre per farmi ingelosire, riuscendoci benissimo, sembrava veramente sorpreso «Properzi il Mitico, Properzi il Centurione, Properzi Mi Inginocchio Davanti a Te» quando gli ho chiesto di autografare il mini-Gilbert-antistress: «Chi, io?» mi fa, «No, io», gli ho risposto. E già che c’era, sempre per farmi ingelosire, riuscendoci benissimo, la mia ragazza ha stretto anche la mano di Aaaaaaron Persico, che dal vivo sembra più alto, più magro e più giovane.

Gioco a rugby perché il nostro allenatore non ha paura di nessuno, considerando gli avversari dice sempre: «Questa sembra una buona squadra sulla carta, adesso però guardiamo cos’è capace di fare sull’erba».

Gioco a rugby perché sull’erba me la cavo così così, ma con l’erba sono un grande.

Gioco a rugby perché qui guai a lamentarsi. Uno ha detto: «Ho un ginocchio ballerino, una spalla che si lussa con uno starnuto, la cervicale cronica, e ho anche perso due denti perché in quel momento il paradenti non ha parato. Al primo colpo di sfiga, però, mollo tutto».

 

 

GIOCO (game, jeu)

«Rugby: gli inglesi hanno inventato lo sport, noi francesi ne abbiamo fatto un gioco» (in un bar di Parigi).

Gioco chiuso (con la mischia), gioco aperto (con i trequarti), gioco al largo (con i trequarti), gioco alla mano (senza usare i piedi), gioco al piede (senza passaggi), gioco pericoloso (nessun giocatore può dare pugni, gomitate o testate; pestare o calciare un avversario; saltare su un avversario; placcare in anticipo o in ritardo; placcare al collo; placcare a braccio rigido; placcare un giocatore che non ha i piedi a terra; calciare, trattenere o colpire un avversario senza pallone, a eccezione di mischia, ruck e maul), gioco sleale (nessun giocatore deve infrangere volontariamente una regola. Se lo fa più volte, viene ammonito: cartellino giallo, espulsione temporanea, 10 minuti. Se commette un’altra infrazione, uguale o simile, viene espulso: cartellino rosso, espulsione definitiva senza sostituzione. Nessun giocatore deve perdere tempo volontariamente, né lanciare il pallone con le braccia o le mani fuori dall’area di gioco. Se uno di questi falli impedisce una probabile meta, l’arbitro può assegnare una meta di punizione o meta tecnica).

«Il rugby è un gioco che proibisce l’io» (Pierre Albaladejo).

«Il rugby è un gioco per facchini praticato da signori» (Damiano Iovino).

«Da sempre gli uomini hanno giocato a battersi. Il rugby consente loro di farlo nel rispetto delle regole. È un gioco duro ed è questa la sua principale virtù» (Lord Wavel Wakefield).

«Il rugby, dicono, è scacchi alla velocità del suono. Il rugby è il gioco di squadra per eccellenza: c’è posto per tutti, c’è bisogno di tutti. Grandi e grossi, piccoli e veloci. Il testa contro testa e gli autoscontri li lascio volentieri ai grandi e grossi, a me continua ad affascinare la velocità. Mi piace correre, cercare spazi, inventare soluzioni, far giocare i compagni in attacco, difendere la nostra linea di meta. Se si potesse riassumere tutto in una sensazione, il rugby è vento» (Mirco Bergamasco).

«Sport di combattimento. Confronto fisico e mentale. L’obiettivo è gestire il pallone: la conquista del territorio è una conseguenza» (Alessandro Troncon).

«Il contatto fisico che crea legami forti, solidi, duraturi. Non solo con il tuo compagno, ma anche con il tuo avversario. Con il tuo compagno perché ti devi sacrificare, fisicamente, per salvarlo. E con il tuo avversario perché fa quello che fai tu, magari meglio» (Alessandro Troncon).

«Nessun altro sport ha una così spiccata libertà di contatto. Non è solamente un contatto fisico, ma anche un confronto morale» (Marco Bollesan).

«Rugby, gioco da psiche cubista» (Alessandro Baricco).

«Il rugby è un gioco molto virile e poco cristiano. Non ci si può permettere di offrire l’altra guancia» (Marco Bollesan).

«Il rugby ha lo spirito della lotta, la gestualità del basket, la precisione del calcio, i principi del judo. Anche qualcosa degli scacchi» (Alessandro Troncon).

«Il fatto stesso che il rugby, al contrario del calcio, non sia uno sport universale, lo qualifica come un gioco di società. O meglio: il gioco di una società, l’emanazione di un certo tipo di civiltà, i suoi principi e il suo passaparola» (Antoine Blondin).

Antigioco: azione contraria allo spirito del gioco: ostruzionismo, gioco sleale, falli ripetuti, gioco pericoloso, scorrettezze. Viene punito con un calcio, spesso anche con un cartellino giallo (espulsione temporanea: 10 minuti) se non rosso (espulsione definitiva).

 

 

GIORNALISTI (journalists, journalistes)

Felipe potrebbe avere 55 anni portati da dio o 45 da cani, è spagnolo ma non abita né a Madrid né a Barcellona. Giornalista. Né di un quotidiano né di un settimanale, ci mancherebbe di un mensile. Giornalista in un’agenzia. Il massimo del lavoro e la minima delle gratificazioni: ai suoi pezzi, sarebbero dispacci, non può mettere neanche la firma. Meglio, dice lui, almeno così risparmio una riga e vado a casa prima. La sua casa non è una casa con stanze da letto, bagno e cucina, che pure ha e dove pure va a dormire, ogni tanto, ma è una casa con bancone, tavolini e un frigorifero nascosto da qualche parte ma così capiente che, se vuoi qualcosa da bere, servito, vuoi qualcos’altro, servito, basta pagare. Felipe segue il ciclismo. Ormai si corre tutto l’anno. E quando la stagione della strada ha quel paio di settimane di stop, anche in Giappone o in Messico, comunque va alla grande il calendario delle seigiorni e del ciclocross, volendo le fiere. Ma in generale Felipe segue i tre grandi giri (Giro, Tour e Vuelta), il calendario della Coppa del Mondo che adesso si chiama ProTour, più tutte le classiche spagnole e qualcuna italiana, francese e belga. Fine. Ecco perché di giorni a casa, intesa come quella con stanze da letto, bagno e cucina, ne passa pochini. Mentre di giorni nell’altra casa, quella del bancone, saltando da un posto all’altro perché la fedeltà, dice lui, è solo un’idea, ne passa quasi tutti. Felipe, quando lavora, si piega in due, fra sedia e computer, come un gregario in fuga aggrappato al manubrio mentre guarda per terra, il timore di allungare la vista oltre i 10 metri, sospeso fra gloria e fallimento. Felipe pigia, pesta, pedala, solletica e mitraglia i tasti. Accarezzarli no, quella è roba per poeti e ricamatori. Lui, invece: bassa manovalanza. Ma perfetta. Non c’è un’indecisione, un’imprecisione, un’imperfezione. Oro colato. Risultati, classifiche, dichiarazioni, albo d’oro, statistiche, perfino le previsioni del tempo per la tappa successiva. Puoi copiare e incollare in pagina, così com’è. Felipe è uno di cui ti puoi fidare, un fratello, un «hermano». Se hai bisogno di un aiuto qualsiasi, dal pensiero di Flecha alla carriera di Beloki, dalla bio di Contador al virgolettato di Valverde, sei pronto?, chiede lui, l’importante è avere carta e penna e lui detta, in fretta, per tornare alla consueta e rassicurante bassa manovalanza. Poi, per ringraziarlo adeguatamente, basta offrirgli una birra o due nella casa, quella del bancone: alla tua, «hermano» Felipe. Felipe ha la barba sempre di un giorno e mezzo-due, i capelli un po’ unti perché non è certo il tipo da gel, T-shirt anche d’inverno, non c’è bisogno di stirarla, pantaloni color beige da giornalista. Ha anche una moglie e un cane. Tua moglie è una santa, dicono i suoi amici. Quel cane è un fenomeno, dice lui. Il cane si chiama Felipao, e il nome l’ha trovato Felipe, quel giorno in forma e ispiratissimo. Quando è a casa, quella delle stanze eccetera, Felipe passa molto tempo con Felipao. Insieme guardano le partite di calcio in tv. Real Madrid, la squadra del cuore, la tradizione della famiglia, una questione di onore e di amore. A forza di vedere le partite, Felipao ha cominciato a riconoscere i bianchi di Hierro e Raul, di Zidane e Roberto Carlos. Non solo. Ha cominciato anche – e questo, francamente, era insospettabile – a prevederne i risultati. L’ha notato proprio Felipe, e chi altro, se no. All’inizio della partita, pallone a centrocampo e squadre schierate, se Felipao abbaia una sola volta, finisce che il Real vince 1-0. Se abbaia due volte, è un certo 2-0. Se si scalda, si eccita e quasi ulula: goleada. Un giorno Felipe è in redazione e sta per scommettere con un collega. Per sicurezza telefona a casa e chiede alla moglie di accendere la tv, mostrare a Felipao le immagini del fischio d’inizio e passarglielo al telefono. Felipao abbaia una volta e infatti sarà 1-0. Il giorno dopo la moglie dice: o me o lui. Lui nel senso di Felipao. È lì che Felipe e Felipao scoprono il rugby.

 

 

GRANDE SLAM (Grand Slam, Grand Chelem)

In una manifestazione, dal Sei Nazioni al Tri-Nations, è vincerle tutte.

«Un grande slam è come farsi una famiglia» (Jacques Fouroux).

 

 

GUERRA (war, guerre)

«Il rugby è la guerra del fuoco» (Pierre Albaladejo).

«Il rugby è uno scontro generale di giovani ubriachi di libertà e battaglia» (Pierre Sansot).

Nell’agosto 1914 la Rugby Football Union, la Federazione inglese di rugby, mandò una circolare a tutti i club invitando i giocatori ad arruolarsi. Per questo il rugby è stato lo sport che ha pagato il prezzo più alto almeno nella Prima guerra mondiale. Nel 1914 il London Scottish mandò 60 uomini in guerra: quattro anni dopo 45 di loro erano stati uccisi.

«Succede che gli allenatori, per caricare la squadra, prima della partita dicano “oggi è una guerra” o “niente prigionieri”. Ma io, la guerra, so che cos’è. Ed è tutto, tranne che una partita di rugby. Avevo sei anni, quando il 9 aprile 1989 in Georgia è scoppiata la guerra civile, la guerra d’indipendenza contro l’Armata Rossa. E il blocco dell’elettricità, la mancanza di riscaldamento, la lotta per la sopravvivenza. L’occupazione della piazza della Libertà, a Tbilisi. Scontri, morti, feriti. Molto più di un incubo. In quei giorni sono cominciati a crescermi i capelli bianchi. Adesso so di dimostrare più anni di quelli che ho. Ma a noi nessuno ha mai regalato niente. Invitato a fare un provino in Francia, senza sapere una parola di francese, sono stato abbandonato all’aeroporto, e quando finalmente dopo due giorni sono arrivato all’allenamento, sono stato lasciato da solo sul campo. Ma lo shock più forte è stato alla seconda partita di campionato. Una scazzottata generale. Ne avevo viste sulla strada, ma mai su un campo. Che senso ha colpire un altro rugbista? Chi fa il tuo stesso sport è come se fosse quasi tuo fratello. Mentre pensavo così, mi è arrivato un colpo alle spalle. Ho restituito il colpo con gli interessi, e poi sono stato squalificato per 40 giorni. Adesso che gioco nella Nazionale della Georgia, pilone destro, non ho cambiato idea. Neppure quando si gioca contro la Russia. Ci diciamo che, se c’era gente che ha donato la propria vita per il nostro Paese, noi possiamo farlo per almeno 80 minuti» (Davit Zirakachvili).

Bombe. L’ultima partita della tournée degli Springboks in Nuova Zelanda si giocò a Auckland il 12 settembre 1981. Vinsero gli All Blacks 25-22 e si aggiudicarono la serie. Quel match non è passato alla storia per l’intensità del gioco e l’equilibrio nel punteggio, ma per le manifestazioni antiapartheid. Prima dell’inizio un finto arbitro rubò il pallone e lo calciò in tribuna. E durante la partita un aeroplanino fece sessanta passaggi a bassa quota sopra lo stadio, lanciando manifestini contro il razzismo e poi quattro bombe di farina. Una di queste colpì Gary Knight, pilone degli All Blacks.

«Il rugby è quello che si può fare di meglio senza coltelli e senza pistole» (Allan Muhr).

«In campo si parla con le mani. E io mi sono fatto spesso intervistare» (Alain Garouste).

Daniel Herrero, a quel tempo allenatore del Tolone: «Finché non dico “carta bianca”, non ci si muove». La partita va avanti burrascosa, ma a botta non segue risposta, a provocazione non segue reazione, a battaglia non segue rappresaglia. A un certo punto Manu Diaz, tallonatore del Tolone, ne ha abbastanza e chiama i compagni per uno schema. Tutti gli avanti, convinti che Diaz riporti un ordine dell’allenatore, gli domandano: «Cos’ha detto?» E Manu: «Carta bianca».