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MAN OF THE MATCH (homme du match)

Il migliore in campo, eletto da giornalisti o esperti.

«Ero così in astinenza che il “Man of the Match”, per me, e non sto parlando di meriti sportivi, ma di questioni puramente estetiche (a dirlo quasi mi viene da ridere), è stato Kees Meeuws: con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così da pilone al 100 per cento, ma 100 per cento perché di meno non si può e di più non esiste, con quegli occhi che bastano solo loro a placcarti duro, e con quella u che non sai mai se va prima o dopo la w» (Maddy Emboli).

 

 

MAORI

Etnia e cultura indigena dell’Oceania. In Nuova Zelanda esiste una Nazionale formata esclusivamente da giocatori di origine maori.

Taumatawhakatangihangakoauauotamateaturipukakapikimaungahoronukupokaiwhenuakitanatahu: è un luogo, in lingua maori, di una collinetta di 305 metri, vicino a Mangaorapa e a Porangahau, a sud di Waipukurau, nella parte meridionale di Hawkes Bay, in Nuova Zelanda. Con 85 lettere detiene il record mondiale di lunghezza per un luogo geografico. È accettata anche la forma abbreviata Taumata. Significa: la cima della collina dove Tamatea, l’uomo dalle grosse ginocchia, conosciuto come il Mangiatore della terra, che vi sedeva sopra, salì e scese dalle montagne, e suonò il flauto alla sua amata. Ma esistono anche altre interpretazioni. I gallesi – proprio vero che i gallesi sono i neozelandesi dell’emisfero Nord – sostengono che il nome maori di questa località sia stato volutamente allungato per superare Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogoch, un villaggio nell’isola di Anglesey, che letteralmente significa la Chiesa di Santa Maria nel fosso del nocciolo bianco vicino al vorticoso gorgo e alla Chiesa di San Tisilio vicino alla grotta rossa.

 

 

MARK (arrêt de volée)

In inglese: marca nel senso di «segna». Cioè segna il punto dove il difensore chiama un pallone alto e lo prende al volo, dentro l’area dei 22 metri. In questo caso il gioco si ferma e ricomincia con un calcio a favore del difensore. Se invece il pallone sfugge, il gioco prosegue.

 

 

MASSAGGIATORE (masseur, masseur)

Gli hanno detto: dai, vieni al campo, che ci dai una mano. Lui non ha potuto dire di no, anche perché quell’invito-ordine gli era stato rivolto-impartito dal suo capo, professione primario di ortopedia, passione rugby, ruolo presidente. Così Giorgio Morvidoni di Città di Castello, emigrato a Milano, professione massofisioterapista, passione calcio, ruolo quel-che-c’è-c’è, si è rimboccato le maniche e ha dato una mano. Anzi, due. E da allora non ha più mollato.

«Non ne sapevo niente, di rugby. Non sapevo neanche che la palla fosse ovale, che si potesse passare solo con le mani, ma all’indietro, che si potesse calciare, ma anche avanti, che si potesse placcare, ma non al collo. Pensavo solo che mi ero fregato le domeniche.» Invece no. «Perché all’inizio mi sembravano tutti dei matti: la palla, mai un rimbalzo come si deve; i giocatori, gente suonata come campane; e anche il primario-presidente, che sul lavoro era inappuntabile e inflessibile, e sul campo imprevedibile e inarrestabile.» Risultato: «Oltre alla partita della domenica, ho cominciato a seguire anche gli allenamenti, due o tre la settimana, e i dopo allenamenti, in birreria». Finché, da cosa nasce cosa, «il Morvi» si è ritrovato dritto in Nazionale: Galles, Irlanda, Francia… «Il corpo è come una macchina, e quello degli atleti è come una Formula 1. Il massaggio è come una messa a punto, un tagliando, allo stesso tempo un controllo, una sistematina, una spinta in più. Certo, c’è massaggio e massaggio: da quello rilassante a quello defaticante, da quello diagnostico fino a quello riabilitativo. Il massaggio lo si può, anzi, lo si deve imparare, ma qualcosa è forse già dentro di noi, nelle mani, nella sensibilità, nel calore del corpo, vorrei dire nel sangue.» Non è facile. «Dipende anche da come ci si mette, dal rapporto che si crea fra massoterapista e atleta. Fiducia, tranquillità, confidenza. Con le mani si trasmette anche quella sensazione di benessere dell’anima.»

Lui l’ha imparato proprio attraverso i rugbisti, «gente semplice, spontanea, casereccia. Abituata a non tirarsi mai indietro, a non chiamarsi mai fuori, a spingere e lottare finché c’è speranza. Insomma, gente che si sacrifica. Perché dopo tante partite, vissute in panchina, negli spogliatoi, a volte anche nei pronto soccorso, ho capito che il segreto è tutto lì: generosità, altruismo, solidarietà. Se una squadra non è unita, potrà avere anche i migliori giocatori dell’emisfero, ma rischia di beccarne anche da gente alta, forte e veloce la metà, ma tutti per uno, uno per tutti».

E una mano gliela dà anche «il Morvi». Scherzando quando si può («Cioè fino a un minuto prima di entrare negli spogliatoi: dopo bisogna assecondare il carattere di ciascuno e rispettare la concentrazione»), facendo un po’ da mamma («In tournée, anche con la Nazionale, mi porto sempre la macchinetta del caffè. Perché anche una tazza di caffè fa la squadra») e un po’ da papà («C’è sempre il momento in cui si deve richiamare qualcuno ai propri doveri»), e molto da psicologo («Il lettino è, più o meno, identico, ma con me il contatto è molto più stretto e diretto»). Una mano al grande e grosso, ma debole di cuore. Una mano al piccolo e svelto, ma debole di stomaco. Una mano al duro e cattivo, al bello e innamorato di sé, al brutto e timido, al ragazzo-padre, all’eterno ragazzo. «Tutti bravi ragazzi, anche quelli che sembrano dei cavalli pazzi.»

Adesso Giorgio Morvidoni, tornato a Città di Castello, rimpiange quelle notti passate fra la nebbia del campo e i vapori dello spogliatoio, quelle domeniche trascorse fra il fango dei campi e il fumo dei pullman, quei lunedì dedicati a pazienti «normali» e pazienti «particolari», con le orecchie a tortelli di zucca, cicatrici che sembrano cerniere-lampo, ginocchi gonfi e occhi neri. «Mi rimane la Nazionale», sospira. E ricomincia: «Tutti bravi ragazzi, anche quelli che sembrano dei cavalli pazzi».

 

 

MAUL

Raggruppamento in gioco aperto, creato attorno a un giocatore che rimane in possesso del pallone senza cadere per terra.

 

 

MEDIANO DI APERTURA (fly half, demi d’ouverture)

Debutta con gli All Blacks in Galles, a Newport, contro il Newport. È il 30 ottobre 1963. La notte della vigilia Earle Kirton non chiude occhio. Sarà la responsabilità, sarà la maglia, sarà l’emozione, sarà la responsabilità per una maglia così emozionante, o l’emozione per una maglia così responsabile: numero 10, mediano di apertura, il regista, allo stesso tempo la mente e il piede della squadra. Quando entra in campo, Kirton ha due occhiaia che arrivano in bocca, la bocca aperta in cerca di ossigeno, non vede palla e non becca palla dal primo all’ultimo minuto. Proprio all’ultimo minuto il Newport conquista la partita grazie al calcio più furbetto che il rugby abbia escogitato. Il drop. Ed è 3-0. Per quattro giorni nessuno – nessun giocatore, nessun tecnico, nessun accompagnatore – gli parla. Per quattro giorni Kirton è ignorato, inascoltato, invisibile. Oggi ci sono psicologi dello sport pronti a recuperare, sostenere e riabilitare il giocatore incappato in una giornata-no. Ieri, invece, c’erano quattro giorni di silenzio totale. Poi, per pura pietà o compassione, Kirton rientra in squadra. In quella tournée europea, lunga più di quattro mesi, gioca altre 12 su 35 partite, ma solo contro club o selezioni, e nessun test-match, cioè contro squadre nazionali. Ne approfitta per contemplare chiese, frequentare monasteri, visitare pinacoteche.

Quando torna a casa, suo padre gli spiega tutto: «Earle, non sei stato tu a sbagliare, sono stati loro a farti fuori. La verità è che sei troppo giovane». Partito a 22 anni, tornato a 23, distrutto. Ma Earle è un All Black, dentro, per sempre, e non molla. Con il suo club, Otago, dà il meglio di sé: due anni alla grande, due anni in cui accanto al «running game» affina il «kicking game», correre e calciare, calciare per correre. Poi, a furor di popolo, gli All Blacks lo richiamano in vita. È l’ottobre 1967. Le prime partite, e le prime vittorie, sono contro selezioni: British Columbia, North of England, South of England. Poi tocca alle Nazionali: Inghilterra, Galles, Francia B, Francia, Scozia. La nona partita della tournée si gioca a Newport.

Adesso Earle Kirton ha quasi 27 anni, e non gode più dell’immunità dovuta alla giovane età. Neanche suo padre se la sentirebbe ancora di difenderlo. In compenso è forte: ha sbaragliato il campo nelle selezioni conquistandosi il posto da titolare, ha illuminato il gioco dei trequarti, contro l’Inghilterra ha segnato anche due mete. Però Newport resuscita antichi fantasmi. Al resto ci pensa il protocollo, con un invito ufficiale alla cena di gala, la sera della vigilia. «C’è qualcuno che vuole partecipare?» fa l’allenatore. Nessuno che alzi la mano, che si faccia avanti, che dica di sì. «Allora vanno quelli che, tre anni fa, hanno perso il match.» Brian Lochore, Colin Meads, Syd Going e… Earle Kirton. Indossano il blazer ufficiale, vanno nel club del Newport, entrano e nel grande salone imbandito a festa si ritrovano circondati da un affresco che immortala il drop vincente del 1963.

Il giorno dopo, in campo, gli antichi fantasmi non si sono ancora dileguati. Pronti via, gli All Blacks sono sotto 12-0. Qui ci vuole tutta la forza d’animo, e di piede, di Kirton. Prima scaccia i fantasmi e le paure, poi ricaccia i gallesi nella loro metà campo, infine li punisce: 23-12, ed è fatta.

Giocherà ancora, Kirton, fino a una seconda sconfitta, contro il Sud Africa, in Sud Africa, a Port Elizabeth. Un 14-3 che, insomma, ci può anche stare. L’addio ufficiale alla maglia tutta nera è per nove giorni dopo, vittoria contro la selezione delle Gazelles, ma per lui a cambiare è ormai solo una statistica (49 partite, 47 vittorie, 13 mete, un drop), non la vita. Poi nella vita farà l’allenatore, il selezionatore anche degli All Blacks, e il dentista. Gli è venuta una bella pancia a forza di raccontare, gambe sotto il tavolo, quanto fosse completo Colin Meads, quanto fosse forte Jonah Lomu, quanto fosse triste contemplare chiese, frequentare monasteri, visitare pinacoteche, e poi berci su.

«Giocavo al tempo in cui le madri lavavano la roba del rugby. Mia madre mi diceva: “Tu ieri non hai giocato, i tuoi pantaloncini sono tutti bianchi”. Le rispondevo: “Non hai che da leggere i giornali”. Noi mediani di apertura eravamo una specie protetta. Vietato toccarci. Quando ci arrivava addosso una seconda linea, avevamo il permesso di farci da parte. C’erano uomini come François Moncla e Michel Crauste che m’impedivano di placcare il mio avversario diretto. Io lanciavo la difesa collettiva, poi quando avrei dovuto placcare, venivo sostituito da un compagno. Una volta, Galles-Francia, a Cardiff, nel 1960, il mio avversario Richards mi preoccupava. “Non hai che da lasciarlo a me”, mi disse Crauste. Per cinque anni tutti i mediani di apertura li ho lasciati a Crauste. A lungo ho creduto che lui, a Lourdes, avesse un negozio di cravatte: quando placcava i miei avversari, sembrava che gli prendesse le misure del collo» (Pierre Albaladejo).

In Sud Africa si racconta una storia che spiega tutto. Un giorno Naas Botha, leggendario mediano di apertura, gioca una partita importante, poi sale sull’aereo e torna a casa. Tutto bene, se non che il suo vicino continua a fissarlo. Botha si spazientisce: «Lei forse sa chi sono io. Mi chiamo Naas Botha e sono il celebre rugbista». Quello ribatte: «Lei forse sa chi sono io. Mi chiamo Tal dei Tali e anch’io sono un rugbista». Botha sorride: «E per quale squadra gioca?» E quello: «La sua squadra. Sono quel povero diavolo che gioca centro».

«Parto con l’idea di uno schema e lo adatto agli uomini e ai sentimenti. Ma se vedo un buco, mi c’infilo. Lì viene il bello. Perché è tutto uno scoprire, un inventare, un esplorare» (Luciano Orquera).

 

 

MEDIANO DI MISCHIA (scrum half, demi de mêlée)

«Da mediano di mischia si beccavano un sacco di botte, molte di più che adesso. Perché allora le terze si potevano staccare dalla mischia. Come tu prendevi il pallone, avevi due terze linee avversarie alla non ragguardevole distanza di circa 20 centimetri da te. Di solito, le due terze erano grandi il doppio. E non sembravano perdere di vista, mai, il loro obiettivo: schiacciarti. Così, per sopravvivere e, eventualmente, giocare anche a rugby, era indispensabile passare il pallone in tuffo. Un gesto di abilità e rapidità che serviva ad accelerare l’azione, evitare il fatale impatto e prolungare l’esistenza in vita» (Umberto Conforto).

«Dicono che un buon mediano di mischia debba essere un po’ carogna, un po’ “fjo de ’na mignotta”. Io dico, e scusate la volgarità, un po’ “rompicazzi”. Perché deve farsi ascoltare dagli avanti, e non è sempre facile: è gente testona e testarda, che comunque ci mette la faccia. Per conquistare la loro stima, il loro rispetto, ci devi mettere la faccia anche tu. E questo spiega forse la mia assidua frequentazione dei pronto soccorso e dei reparti ortopedia. Ma a quel punto è fatta, e gli avanti diventano il “giocattolo” del mediano di mischia. E viceversa. Insomma, cerchiamo di divertirci tutti insieme. E finché ti diverti, il resto pesa poco» (Alessandro Troncon).

Gareth Edwards nasce il 12 luglio 1947, nella bicocca di un minatore, nel villaggio di Gwaun-cae-Gurven. Ha la musica dentro di sé: non è un caso che suoni la cornetta nella banda del paese, non è un caso che giochi nell’atletica, a calcio, poi a rugby. E non è un caso che per «suonare» e «giocare», in inglese, si usi lo stesso verbo: «to play». È una fortuna che il suo primo allenatore, Bill Samuel, insegnante di educazione fisica, gli tramandi tre comandamenti. Il primo: «Impara a giocare a rugby con il tuo cervello, non con i tuoi muscoli». Il secondo: «Vinci con modestia e perdi con leggerezza». Il terzo: «Aspetta l’occasione, in ogni partita hai diritto a due possibilità. E assicurati che i tuoi sforzi fruttino una meta».

Gareth ha la musica dentro di sé, e la esprime come può: correndo (record britannico juniores nelle 200 yards a ostacoli), saltando (76 centimetri da fermo), arrampicandosi (pertiche e pali della cuccagna), facendo acrobazie (salto con l’asta). Ma con i comandamenti di Samuel, la vita di Gareth viene impostata sui principi religiosi del rugby. «Il rugby era il cuore e l’anima del Galles. E sembrava reclamizzare l’unica qualità di cui uno sport ha bisogno per avere successo: la passione.» Il suo eroe si chiamava Dai Morris. «Lavorava in miniera. Il sabato, all’ora di pranzo, quando risaliva in superficie, si puliva, andava al pub, beveva alcune pinte di birra, poi s’incamminava verso il campo per la partita del pomeriggio. Morris era tallonatore. Per un’ora e mezzo ringhiava e aggrediva. Era un uomo del villaggio al 100 per cento.»

Prima partita internazionale a Colombes il 2 aprile 1967, all’età di 19 anni, sconfitta 20-14, lui ruba il pallone al fischio finale, primo di un’invidiabile collezione, e 14 piatti del terzo tempo, il banchetto che segue la partita. Ultima partita internazionale il 18 marzo 1978 all’Arms Park di Cardiff contro la Francia, vittoria 16-7 e drop. In tutto mai un’assenza, uscito solo due volte per un totale di circa 20 minuti per ferite.

«Mi sono sempre considerato un guerriero. Quando ero piccolo, troppo spesso mi ripetevano che ero troppo piccolo per giocare a rugby. Avevo nove anni» (Peter Stringer).

Secco, rapido, teso. Il passaggio del mediano di mischia, che estrae il pallone dal labirinto della mischia e lo affida alle traiettorie dei trequarti, dev’essere come una schioppettata. I centesimi di secondo che il mediano risparmia, che guadagna, che sottrae, li regala all’attacco dei suoi compagni. Vuole dire: mezzo metro di spazio in più. Vuole dire: poter ordinare il gioco contando non solo sull’abilità degli attaccanti, ma anche sulla disposizione degli avversari. Con un bel passaggio del mediano di mischia, puoi già respirare aria di meta. Roy Laidlaw aveva tutto, tranne un buon passaggio. Spirito, placcaggio, autorità nel comandare gli avanti, visione di gioco per aprire ai trequarti, ma niente passaggio. Per anni ingannò tutti, compagni e tecnici, avversari e giornalisti, correndo con il pallone in mano, tornando sulla mischia, incrociando con qualche compagno. Ma per quei passaggi lunghi, che aprono il gioco, che spalancano spazi, che trasformano un corridoio in una prateria, niente da fare. Finché un giorno, Cinque Nazioni 1982, Irlanda-Scozia, a Dublino. Touche: pallone conquistato dalla Scozia, Laidlaw non fa a tempo a riceverlo che l’ovale è già fra le mani dell’apertura, John Rutherford, e Rutherford vola in mezzo ai pali. Un’azione così repentina da bruciare il tempo, ingoiarlo, costringerlo quasi a tornare indietro. Neanche una mano irlandese, in quell’azione, a proteggere la linea di meta. Roy Laidlaw aveva ereditato il rugby dalla nonna Peggy, che nella vita sarebbe stata ripagata assistendo a tutti e tre i Grandi Slam della Scozia: 1925, 1984 e 1990. Peggy aveva due punti fermi: rugby e famiglia. Spesso rugby e famiglia erano la stessa cosa. Il giorno in cui Roy giocava per la selezione West of Scotland, e a dieci minuti dalla fine beccò un cazzotto in faccia, Peggy si precipitò nello spogliatoio: voleva controllare i lineamenti di Roy e soprattutto voleva assicurarsi che la botta non gli avesse fatto dimenticare la festa dei parenti organizzata a casa sua. Con o senza Peggy, Roy dimostrò di avere talento, e passò dalla squadra locale a quella regionale, Borders, fino alla Nazionale. Con una particolare simpatia per l’Irlanda: prima partita internazionale contro l’Irlanda, prima meta contro l’Irlanda (totale: sei delle sette mete rifilate all’Irlanda), prima partita come capitano della Scozia contro l’Irlanda. E quante storie. Come quella volta, era il 1979, quando all’irlandese Willie Duggan, che sedeva in panchina, chiese: «Che fate stasera?» E quello, serissimo: «Ci facciamo te, se non c’è di meglio». E come quell’altra, era il 1983, in cui lo stesso Duggan, stavolta compagno di squadra nei Lions, a cinque minuti dal fischio d’inizio se ne stava seduto su una panca, con i piedi all’insù e una sigaretta in bocca. Come quell’altra ancora in cui erano in tournée in Romania, negli anni di Ceausescu, con guardie armate all’aeroporto, donne operaie sulle strade, muffa che cresceva sui palazzi, insomma un mondo grigio, e il compagno Jim Aitken, colpito da diarrea, confessò: «Ragazzi, sto così male che credo di amare mia moglie». Come quella volta in cui erano a un banchetto dopo partita a Edimburgo, birra a fiumi, la matricola Gavin Hastings si esibì in un lancio di ortaggi, e il presidente della Federazione rugby scozzese disse: «Bene, ragazzi, voglio dirvi solo una parola. Non so chi sia stato, ma uno di voi, bastardi, ha lanciato un pomodoro ripieno e colpito il presidente della Royal Bank of Scotland proprio nel momento in cui stavamo negoziando un contratto di sponsorizzazione da centomila sterline». Come quella volta in cui, vinta la Calcutta Cup, Hastings se la portò a dormire a letto. E come quella volta in cui gli irlandesi dichiararono che si trattava di una cena senza posate e mangiarono solo con le mani, e gli scozzesi, per non essere da meno, si adeguarono. «Sarà per questo», amava dire Laidlaw, «che, invece di farmi un busto ed esporlo a Murrayfield, mi impaglieranno e mi appenderanno in una taverna.»

 

 

MEDICO (doc/doctor, docteur/médecin)

«Da piccolo volevo fare il medico, come i miei genitori: papà anestesista rianimatore, mamma pediatra. Giocavo anche al dottore, mai nella parte del dottore, preferivo quella del malato, però sempre circondato da una schiera di affettuose infermiere» (Andrea Lo Cicero).

Fumava. Estraeva una sigaretta dal pacchetto, poi l’accarezzava, con tutte e due le mani, fra pollici e indici, come per renderle meno dolorosa l’accensione, l’incendio e l’esaurimento, insomma la sua morte da carbonizzata. A volte passava da una sigaretta all’altra, come se fossero le interpreti di una staffetta, una quattro per quattrocento: aspetti che arrivi il compagno, ti metti in azione, ricevi il testimone e scatti all’inseguimento di una formazione più in gamba, oppure voli nella speranza di non farti raggiungere. Nessuno lo raggiungeva come numero di sigarette: una sessantina, tre pacchetti, la più amata la prima della giornata, le più automatiche quelle durante e dopo il caffè, la più malinconica l’ultima, divorata e abbandonata sul comodino. La voce denunciava tutte le sigarette, come in un 740 compilato secondo coscienza. Come se le corde vocali fossero state rimpiazzate da ragnatele di fili elettrici incatramati, che risuonavano in un anfratto dimenticato dagli itinerari commerciali e turistici. Il Professore era innanzitutto sigaretta e voce, poi giacca e cravatta, d’inverno anche cappello. Primario in ortopedia, l’ideale per una squadra di rugby. Lui ne era il presidente. Si andava nel suo ospedale, entrando a sinistra, in fondo, il suo studio, la sua segretaria, «buongiorno», «come andiamo?» indicavi la spalla, o il ginocchio, o la schiena, «siediti qui, arriva appena ha un minuto libero». Il Professore ti sentiva, si sbrigava, arrivava, «allora?» «Prof, il ginocchio», «cià, andiamo in Radiografia». Ti chiedeva del papà e della mamma, o della moglie, o della fidanzata, o dei figli. A me chiedeva di mio fratello: prima partita in serie A, della nostra squadra, dunque anche sua, e prima meta, perdipiù contro il San Donà di Piave, veneti, con i veneti c’è più gusto. Dopo quella prodezza mio fratello non si fece più vedere. «Digli di non fare il cretino, digli di venire giù.» Raccomandava bicicletta, nuoto, corsa, palestra, e mutandoni di lana. D’inverno, d’estate, di giorno, di notte. «I mutandoni ti salvano i muscoli, i muscoli ti salvano le articolazioni, e a quest’ora non avresti il ginocchio di un pensionato.» Il Prof tendeva a minimizzare, e a farti giocare. Il massimo della prudenza lo spingeva a dimenticare l’allenamento defaticante del lunedì, esonerarti da quello tosto del mercoledì, e pregarti di essere giù almeno a quello del venerdì. «Fa’ qualche giro di campo, se te la senti partitella, se no doccia e ci vediamo domenica.» Questo tipo di riabilitazione tendeva a peggiorare il quadro clinico, ma domani è un altro giorno, anzi, giocando di domenica, domani è un’altra settimana, e in una settimana le cose si mettono sempre a posto. Se l’infortunio capitava durante la partita, non essendo allora ammesse che un paio di sostituzioni, ed essendo i sostituti già i sostituti dei sostituti, il Prof ti rimetteva in piedi garantendoti che si trattava solo di un fattore nervoso. «Prof, non riesco a sollevare il braccio.» Fattore nervoso. «Prof, ho sentito un colpo di fionda dietro la coscia.» Fattore nervoso. «Prof, ho preso una tramvata in faccia.» Fattore nervoso. Un giorno il Prof acconsentì che uno dei nostri venisse sostituito. Mentre passava sotto la tribuna, abbracciato a due compagni, diretto negli spogliatoi, rimanemmo impressionati dalle dimensioni del ginocchio: un cocomero. «Prof, ch’è successo?» E lui, rassegnato: «Ginocchione». In ospedale, saltando liste d’attesa e di pedaggi, andavano anche i più assidui fra gli amici-sostenitori della squadra. Ce n’era uno afflitto da distorsioni croniche proprio a un ginocchio. Il Prof lo fece spogliare e poi camminare su e giù per la stanza, gli chiese se usasse i mutandoni di lana, e già intuendo la risposta scosse il capo, infine sentenziò: «La situazione è complicata». Poi, serissimo: «Mi dispiace, ma non potrai più fare certe cose». «Per esempio?» chiese l’amico-sostenitore, disperato. Il Prof, solennemente: «Lo sci nautico». Non sapendo neanche nuotare, l’amico-sostenitore si sentì già guarito.

 

Non sapeva neppure che il pallone fosse ovale, quando fu convocato per una partita di rugby. Campo della Pro Patria. Non ci aveva mai fatto caso a quel rettangolo: forse perché lì, quando esci da Milano, è come essere in fuga, e quando torni a Milano, è come essere in un tunnel. Cassetta del pronto soccorso, secchio d’acqua, spugna. Getto della spugna, pensò. No, quello era il pugilato. Si sistemò fra le due panchine. Osservò il riscaldamento: 15 dietro i pali da una parte, 15 dietro i pali dall’altra parte. Parlavano, ridevano, corricchiavano, si tiravano, si spingevano, urlavano. Gente di tutte le taglie, dalla small all’extraextraextralarge, compresa – pensò – qualche taglia messa in palio dalla giustizia, viste certe facce da galera. Arbitro e, come guardalinee, uno di una squadra, uno dell’altra. Drop e via. Il pallone, ovale, appunto, volò alto. E quando tornò in terra, scomparve fra braccia e gambe, scarpe e colli, un groviglio fangoso, tentacolare, laocoontico. I 30 se le dettero di santa ragione, dal primo all’ultimo momento, con cupi rintocchi di ossa. Ma ogni volta le matasse umane si scioglievano, gli arti si ricomponevano, e le maglie a strisce orizzontali si rialzavano in piedi, alcune al pascolo, altre al galoppo. Fine della partita: né morti né feriti, gli sembrò un miracolo, il medico salutò tutti e fece per andarsene. «Dove va?», gli chiesero. «A casa», rispose. «È la sua prima partita, vero?» Non aspettarono risposta. E con un cenno della mano lo invitarono a seguire i giocatori negli spogliatoi. Ce ne fosse stato uno a posto. Macché. Il medico rimase lì due ore, a cucire, siringare, fasciare, moltiplicare ghiaccio, innaffiare disinfettanti, distribuire pomate. E pensò: però, il rugby, altro che calcio.

 

Era stato pugile, boxeur avrebbe voluto dire con una punta di snobismo, pugilatore era costretto a tradurre per via del periodo storico, a senso unico e a mano tesa. Ne aveva date, ma ne aveva anche prese, e il pugilato è uno di quegli sport in cui il conto si paga sempre e lo scontrino ce l’hai timbrato sul naso. Poi era stato anche medico dei pugili, dei boxeur, ormai si poteva tranquillamente chiamarli così. A bordo ring, pronto a salire e prontissimo a interrompere il match quando uno dei due sentiva i rintocchi di immaginarie campane. Gente dura, i boxeur. Ma come i rugbisti, diceva, come i rugbisti non ce n’era.

Era stato calciatore, Reggiana, serie B e serie C, e non si arriva così in alto se non si ha una certa delicatezza nei piedi e una certa forza nei polpacci e una certa voglia nel cuore. Il calcio, diceva, è sport di testa più di quanto si possa supporre, ed è sport di gambe e anche braccia, certo dipende dai ruoli, per questo è uno sport di squadra. Poi era stato anche medico dei calciatori, tra l’altro Milan e Nazionale, e un po’ era vera quella leggenda: spesso piombavi in campo ad assistere un ragazzo infortunato, armato solo di secchio d’acqua e spugna, e quello si rialzava. E allora si chiedeva se fosse merito dell’acqua o paura dell’acqua. Gente allegra, i calciatori. Ma come i rugbisti, diceva, come i rugbisti non ce n’era.

Al basket era arrivato tardi, stavolta solo da medico e mai da playmaker. Simmenthal Milano, scarpette rosse, il Principe in panchina e lui lì nei dintorni. Per assistere quei ragazzi doveva salire su uno sgabello, finché si sentì in imbarazzo e li obbligò a sedersi a terra, in modo da stare perlomeno alla stessa altezza. Del basket lo affascinava la precisione trigonometrica e quell’aspirazione verso l’alto, verso il cielo, verso il paradiso. Begli atleti, commentava, gran begli atleti. Ma come i rugbisti, diceva, come i rugbisti non ce n’era.

Poi si era dedicato al ciclismo, ventitré edizioni del Giro d’Italia, a bordo di una spider, vento pioggia sole a picco fa niente, al momento del bisogno si uncinava con un piede alla carrozzeria e agiva con le mani, e in quel momento sembrava possederne sette o otto, un enorme polipo da ambulatorio, acrobata e trapezista del pronto soccorso. Se poi il corridore era steso a terra, accasciato sull’asfalto, o appoggiato a una pietra miliare, allora lui estraeva la cassetta magica e quei due metri quadrati li arredava come se fosse un ospedale. Gimondi e Zilioli, Motta e Dancelli, ma anche Partesotti e Fornoni, Bailetti e Mazzacurati. Aveva cominciato addirittura ai tempi di Coppi, perché il medico di prima, sul quotidiano bollettino, oltre alle condizioni di feriti e ritirati, si era permesso di segnalare spinte ricevute da rivali del grande Fausto. Ma un medico non è un giudice, un medico è un san Bernardo: recupera, riabilita, resuscita senza distinguere fra buoni e cattivi, giusti e ingiusti, santi e cialtroni. Gente autentica, i corridori. Ma come i rugbisti, diceva, come i rugbisti non ce n’era.

Sosteneva che un atleta ha come un motore, anzi, è come un motore: cilindrata, potenza, consumo. E ha bisogno della benzina. E la benzina è quello che mandi giù. Fu anche tra i primi a occuparsi di doping, non per indurre qualcuno a praticarlo, ma per denunciarne i pericoli. Si drogano tutti, sbottava, nel calcio e nel ciclismo, fuoriclasse e brocchi, i brocchi di più, e certe volte solo per arrivare entro il tempo massimo. Eccitanti. Un giorno un boxeur confuse l’eccitante con qualcosa che faceva starnutire. Di solito lui rifilava dei disintossicanti, e ordinava di bere, acqua, s’intende. Che testoni. Ma come i rugbisti, diceva, come i rugbisti non ce n’era.

L’importante è mangiare come la boxe o il calcio o il ciclismo comanda. I corridori avevano la dieta del serpente. Lui pregava: mangiate mele. Loro dicevano di sì e mangiavano anche le mele, insieme a sardine e uova sode. Che bestie, gli sfuggiva. Ma come i rugbisti, diceva, come i rugbisti non ce n’era.

 

 

META (try, essai)

«La felicità assoluta è l’istante in cui si segna una meta» (Laurent Bénézech).

La meta è il gol del rugby: consiste nel depositare il pallone oltre la linea di meta, quella che passa tra i pali, e all’interno dell’area di meta. La meta è come un orgasmo. L’orgasmo più veloce, quasi un coito precoce, è merito dello scozzese John Leslie, scozzese: 108 per andare in meta contro il Galles al Cinque Nazioni del 1999.

«L’area di meta! Là in basso, dietro… Mi ricordo un po’, per essere stato là qualche volta, di questi grandi flash che abbagliano gli occhi di una luce pazza, delle lacrime di gioia, della felicità che illumina i volti» (Daniel Herrero).

Barbarians-All Blacks, 27 gennaio 1973, all’Arms Park di Cardiff. Dopo 155 Ian Kirkpatrick, terza centro degli All Blacks, passa l’ovale a B.G. Williams, trequarti ala destra. Chiuso, quasi sulla linea di touche, a metà campo, B.G. calcia il pallone in orbita. Ma il pallone si ribella e atterra sulla linea dei 22 dei Barbarians. Gli All Blacks in feroce avanzamento, i Barbarians in affannoso ripiegamento. L’ovale rimbalza una prima volta, sbronzo, inseguito da Phil Bennett, mediano di apertura gallese dei Barbarians. Rimbalza una seconda volta, sbilenco, controllato da Bennett. Rimbalza una terza volta, zoppo, catturato da Bennett. Bennett corre per un attimo verso la propria linea di meta, poi, come plagiato dal dio del rugby, devia verso destra e comincia un balletto quasi sulle punte dei piedi: evita il terza ala Scown, rientra diritto e si sottrae al centro Hurst, piega a sinistra e manda a vuoto il seconda P.J. Whiting, dribbla l’altro terza ala Wyllie, infine passa il pallone, a sinistra, prima di essere placcato dal tallonatore Urlich. Cinque porte di uno slalom senza sci, senza neve, senza tempo.

Ma questo è niente: è solo il primo istantaneo atto. Il secondo comincia con J.P.R. Williams, estremo gallese dei Barbarians, che ha appena ricevuto il pallone da Bennett. Williams contro Williams: J.P.R. viene placcato al collo da B.G., quello che pochi attimi prima ha calciato il pallone in orbita, ma riesce a consegnare l’ovale al tallonatore John Pullin. Intanto i Barbarians sono schierati, e si preparano, tutti insieme, al contrattacco, mentre gli All Blacks rinculano, in difesa. Pullin passa al centro John Dawes, Dawes sfugge a due Tuttineri e passa a Tom David, terza ala. Siamo a metà campo. David s’incunea fra due All Blacks, viene stretto e stritolato, ma riesce ad allungare un tentacolo e a dare il pallone a Derek Quinnell, terza centro. Quinnell ha un passo lento, secolare, ma è lenta e secolare anche la sua forza: artiglia l’ovale e lo trasmette a sinistra. Fine del secondo atto e inizio del terzo. Il pallone sembra destinato al trequarti ala John Bevan, invece se ne impossessa Gareth Edwards. È lui il mediano di mischia, quello che per vocazione sottrae, apre e chiude. Ma qui, per ispirazione, si appropria dell’ovale. Mancano 27 metri alla linea di meta degli All Blacks, quella che da oltre un secolo è protetta da un muro di cinta invisibile ma quasi inviolabile. Gareth è una scheggia. Sfugge all’investimento di un treno fornito di braccia, gambe e numero 15, l’estremo Karam. E poi vola, senza accorgersi di avere addosso i 90 chili lanciati dell’ala Batty. Ed è meta. La più bella meta nella storia del rugby. Novanta metri, sei passaggi, 23 secondi.

 

Lomu, tutti se lo immaginano come se lo ricordano, e il ricordo numero 1 è questo: Nuova Zelanda-Inghilterra, Coppa del Mondo 1995. Il match, semifinale, è appena cominciato e i Tuttineri si sono avventati contro i Tuttibianchi con la forza di una tempesta boreale. Finché un pallone viene aperto dai neozelandesi dalle parti di Lomu. Il passaggio non è preciso, non passa di mano in mano, ma rimbalza sul terreno. Il rimbalzo, nel rugby, per via del pallone ovale, è una minaccia, una sorpresa, un mistero. Invece Lomu controlla il pallone, lo blinda sotto il braccio sinistro e, a 40 metri dalla linea di meta inglese, comincia a debordare e a rombare. Il primo a tentare di opporsi è Tony Underwood, ma Lomu lo tiene a distanza con un frontino, una manata sua sulla fronte altrui. Il secondo che cerca di ostacolare Lomu è Will Carling, capitano dell’Inghilterra, un pezzo di atleta titolare anche di una storia extra con Lady Diana. Ma non riesce ad arpionare la caviglia del gigante: Lomu incespica, in tre passi ritrova l’assetto più equilibrato per fiondarsi in meta. Mancano ancora 10 metri. E un ultimo avversario, Mike Catt. Lomu sceglie la strada più corta, quella che passa attraverso Catt: gli passa attraverso, come un treno che pialla un coniglietto. Mentre Catt rimane esanime a terra, Lomu si tuffa in meta. Devastante. Lomu sarà ancora più devastante, devastante in maniera memorabile, rugbisticamente eterna, quando segnerà una seconda, poi una terza, infine una quarta meta sempre in quel match.

«La nostra meta è la scoperta di un nuovo farmaco o di un nuovo tipo di intervento chirurgico, e anche noi riusciamo a raggiungere questo obiettivo solo quando avanziamo insieme, veloci ma compatti, passandoci l’informazione l’un l’altro finché quello che si trova nel posto giusto al momento giusto ha l’intuizione finale, trova la chiave di volta e porta tutti alla scoperta che ci fa fare un altro passo avanti» (Umberto Veronesi).

 

 

MINIRUCK

Una ruck formata da due o tre uomini: bastano e avanzano. Gli altri rimangono pronti per giocare una nuova fase.

«Ai miei tempi chi stava fuori dalla ruck è perché faceva l’indiano» (Doro Quaglio).

 

 

MISCHIA (scrum/scrummage, mêlée)

«La mischia è un’ammucchiata» (Marco Bollesan).

«La mischia è un’orgia» (Gabriele Cabrio).

«Le mischie sono come un orgasmo: se si fa finta, non viene» (in un bar di Parigi).

«La mischia è la mia famiglia» (Mauro Bergamasco).

Dal 1° gennaio 2007 l’International Board ha stabilito una nuova regola per l’entrata in mischia. L’arbitro, con il piede, segna il punto in cui va introdotto il pallone. Per limitare gli effetti sulla colonna vertebrale dei giocatori di prima linea, l’arbitro chiede ai giocatori di tenersi a una precisa distanza. I piloni devono abbassarsi flettendo le gambe, si toccano le spalle, quindi ingaggiano il contatto. Bassi… Tocco… Pausa… Ingaggia… Crouch… Touch… Pause… Engage. Flexion… Touchez… Pause… Engagez.

«È come un cuore. Piloni, tallonatore, seconde e terze: tutti uniti come un solo organo, che pulsa, batte, pompa, spinge. Occhi aperti, sempre. Per guardare dentro l’anima degli avversari. Per variare la posizione, anche di un niente. Per non dare punti di riferimento. La prima mischia, si dice, è la più importante. Balle: sono tutte importanti, dalla prima all’ultima. Solo che nella prima dai il buon giorno: salve, sono io, non sono cambiato, anzi, sono più arrabbiato dell’altra volta. Nell’ultima dai tutto, dai il massimo, dai quello che ti resta in corpo, fosse anche solo disperazione oppure orgoglio. Perché se vinci quella mischia, finisci in attacco, finisci con qualcosa di positivo, finisci con una promessa – e una premessa – per la prossima volta» (Andrea Lo Cicero).

«Nel rugby, alla mischia ci si arriva per una ragione precisa: i giocatori usano le mischie perché, al riparo da orecchie e da sguardi indiscreti, possano decidere che cosa fare nel dopo partita. Si tratta del proverbiale terzo tempo» (Gene Gnocchi).

Arms Park, Cardiff, Galles-Irlanda, in tribuna il principe Carlo d’Inghilterra. L’irlandese Noel Murphy, a corto di argomenti con la mischia gallese, non esita ad attaccarsi ai coglioni del seconda linea Brian Price. Price gli rifila un cazzotto e pianta Murphy nell’erba. L’arbitro scozzese McMahon, imperturbabile: «Dai, ragazzi, non ricominciate, non sta bene… Mischia».

«Otto giocatori. La prima linea: pilone destro e pilone sinistro, in mezzo il tallonatore, che ha il compito, introdotto il pallone, di recuperarlo tallonandolo indietro con i piedi. I tre si legano: il tallonatore alza le braccia e i due piloni lo legano con il braccio intorno al corpo e lo prendono per la maglia, mentre il tallonatore afferra le maglie dei piloni all’altezza delle ascelle. Due seconde linee si uniscono tra di loro e infilano la testa fra i glutei dei piloni e del tallonatore. Tre terze linee: due ali, a destra e a sinistra, che si legano alle seconde linee e spingono sui piloni, e una terza in centro, il numero 8, che si unisce alle seconde linee infilando la testa fra i loro glutei e spingendo con le spalle» (Marco Bollesan).

«Gli uomini di mischia devono parlarsi senza parlarsi» (Manuel Ferrari).

«Tutti gli uomini di mischia devono avere un ottimo appoggio, con i piedi, per poter spingere contro la mischia avversaria. Gambe divaricate, con una leggera flessione: al segnale, spinta unica come se fosse un solo corpo, in un solo movimento» (Marco Bollesan).

 

 

 

MOBBS MEMORIAL MATCH

La partita giocata ogni anno fra East Midlands e i Barbarians a Northampton, in ricordo di Edgar Mobbs, ucciso nel 1917 a Passchendaele, durante la Prima guerra mondiale. Mobbs giocava trequarti proprio nel Northampton e in guerra guidava i suoi uomini lanciando un pallone da rugby nella terra di nessuno e poi cercando di riconquistarlo.

 

 

MOGLI (wives, femmes)

«Un uomo ha il biglietto per la finale della Coppa del Mondo di rugby, ma il suo posto è in cima alle tribune, nell’angolo, con la peggiore visuale possibile del campo. Quando la partita comincia, nota che c’è un posto vuoto, libero, in una posizione magnifica, proprio all’altezza della linea di metà campo, più o meno alla decima fila. L’uomo ci prova: lascia il suo posto, attraversa lo stadio, scende fino a dove c’è il posto vuoto. “Mi scusi, signore”, chiede allo spettatore seduto vicino al posto libero, “non c’è nessuno qui?” E indica il seggiolino vuoto. “No”, risponde lo spettatore, “è libero.” “È incredibile”, dice l’uomo mentre si accomoda, “chi, nel pieno delle proprie facoltà mentali, rinuncia a un posto così per la finale della Coppa del Mondo?” Sarebbe una domanda senza risposta. Ma lo spettatore risponde: “Be’, veramente il posto è mio. Pensavo di venire con mia moglie, ma è morta». “Oh, mi dispiace, è terribile”, dice l’uomo, più avvilito dalla propria figuraccia che non addolorato dalla morte della donna: “Ma non è riuscito a trovare nessuno, un amico, un parente, un vicino di casa, che venisse con lei alla partita?” Lo spettatore scuote la testa, rassegnato: “Sono tutti andati al funerale”» (Mike Catt).

«Allora vengo a vederti», gli dice lei, la Milena. E lui, l’Umberto: «Arrivata in stazione, prendi un taxi». La Milena arriva in stazione, sale su un taxi e dice: «Allo stadio». Il tassista non mette in moto: «Ghe ne minga di stadi, qui». La Milena insiste: «Lo stadio, lo stadio del rugby». «Ah», fa il tassista, «il campo di rugby.» Mette in moto e va. La Milena entra in campo da una porticina, con le sue scarpe con i tacchi a spillo, non immaginando che gli spilli sarebbero affogati nel fango. Un attimo dopo il suo ingresso, la tribuna affollata da cinquanta tifosi, che urlavano a squarciagola e anche a squarciapetto, ammutolisce. Ammutolisce finché uno dei cinquanta dice: «Tranquilli, è la fidanzata dell’Umberto». E così i cinquanta, tranquillizzati, riprendono a urlare a squarciagola e a squarciapetto. La Milena non calzerà più le sue scarpe con i tacchi a spillo, almeno non lì, allo stadio, pardon, al campo di rugby. Invece si appassiona al gioco, impara la geografia, Lumezzane e Sondalo, Parabiago e Lainate, a Pasqua a Grenoble, in giugno ad Amsterdam per il torneo a sette, capisce la differenza fra sublussazione e lussazione, della spalla, s’intende, e un giorno sposerà perfino l’Umberto.

«Ieuan Evans, leggenda di Llanelli e del Galles, aveva una vera e propria devozione per il rugby. Perfino dopo essersi ritirato, il suo amore per il gioco non era diminuito. Un giorno, alla povera moglie, sacrificata, Evans disse: “Cara, oggi decidi tu. Dopo tutto, è il tuo compleanno, non il mio. Andiamo a vedere Inghilterra-Galles o Llanelli-Cardiff?”» (John Scally).

 

 

 

MUSICA (music, musique)

«Mi sento attirato dal ritmo selvaggio, brusco, disordinato, disperato del rugby. Sarà falso considerare il mio pezzo come della musica scritta. Cerco semplicemente di esprimere nel mio linguaggio di musicista gli attacchi e le risposte del gioco, il ritmo e i colori di una partita allo stadio di Colombes. Per onestà, credo di essere tenuto a indicare le mie fonti. Questa è la ragione per cui questa composizione s’intitola Rugby» (Arthur Honegger).

«La differenza fra il calcio e il rugby sta nel suono. Se entri in uno stadio di calcio, senti la gente gridare. Se entri in uno stadio di rugby, senti la gente ruggire. Proprio così: il ruggito di un gigantesco leone. Che, per me, è il suono dell’orgoglio e della felicità. Ho sentito quel ruggito a Twickenham, e anche al Flaminio» (Caroline Devall).

Gioco a rugby perché in tutte le lingue tranne l’italiano giocare e suonare si dice nello stesso modo, perché se in italiano giocare e suonare non si dice nello stesso modo un motivo ci sarà, e sul campo si vede eccome, perché il mio allenatore dice che il rugby è come un pianoforte ma anche come un fortepiano e non abbiamo ancora capito cosa mai vorrà dire però nel suo genere suona bene, perché sarà per via dei tasti bianchi e neri o per via dei pedali o per via dello spartito, perché se giocato bene il rugby è fior di musica, perché in Francia dicono che a rugby c’è chi suona il piano e chi lo sposta, perché quei due sono proprio una bella coppia, lei suona il piano e lui? lui la tromba.