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OCCASIONI (chances, chances)

Vanno e vengono. Più che altro: vanno. Per informazioni chiedere a Tom Stone, Harry Edwards e Charles Anderson. Erano stati selezionati per giocare con il Galles contro l’Irlanda il 13 marzo 1937. Poi la partita fu rinviata. E quando finalmente si disputò, il 3 aprile 1937, i tre non vennero più convocati. Non solo: non si guadagnarono mai più una presenza in Nazionale.

E che dire di Frank Clayton: selezionato per rappresentare la Nuova Zelanda in tournée in Australia, nel 1884, non riuscì a entrare in squadra. Non per colpa sua, ma dei colleghi. Clayton chiese il permesso alla banca dove lavorava, ma nessuno gli credette. E lui non fu mai più convocato.

Stessa sorte toccò a G.P. Denholm, altro possibile All Black: a rifiutargli il permesso fu il suo studio legale. E anche per Denholm addio Nazionale.

Andò male anche all’australiano C.E. Murnin: convocato per la tournée in Gran Bretagna, fu costretto a scendere dalla nave a Napoli e tornare a casa. Il mal di mare lo aveva prostrato.

Quello che accadde nel 1893 all’inglese Howard Marshall rimane un mistero. Mediano di apertura nel Blackheath, debuttò in Inghilterra-Galles 12-11 e segnò addirittura tre mete. Eppure non fu mai più convocato.

Più comprensibile la storia del francese Christian Vereilles: convocato per esordire con la Francia, non riuscì ad arrivare in tempo a Parigi. Vereilles scese alla stazione di Lione per comprare un panino, ma il treno non lo aspettò. E fine della sua carriera internazionale.

 

 

OLD

«Forse sono troppo vecchio per giocare a rugby, ma non oggi» (Fin Calder).

«Il rugby è l’unico sport che fa diventare uomini i giovani e giovani i vecchi» (detto).

Quando cominci a fare più fatica ad alzarti che a coricarti, in campo e a letto, è ormai tardi: avresti già dovuto smettere di giocare. Almeno se si tratta di pallone ovale, pali a forma di H, gol che si chiamano mete, grovigli umani battezzati benevolmente mischie: insomma, rugby. Se insisti nel fare finta di nulla, e continui a correre avanti e indietro, e soprattutto a correre pericoli, allora ci penseranno compagni e allenatori, se non direttamente gli avversari, a convincerti di quanto sia più affettuoso intrattenere i bambini, o dedicarti a libri e film, o perfino accompagnare la tua donna nello shopping prefestivo. Ma grazie a Dio, o almeno a William Webb Ellis (il presunto inventore del rugby), c’è sempre una via di fuga, una seconda vita, un nuovo mondo: quello degli old. Nel senso dei vecchi, ex che non vogliono diventare ex, guai a smettere di giocare, giocare è vivere e poi un rugbista – sostengono i rugbisti – non muore mai, al massimo passa la palla.

Gli old: non c’è club che non vanti una formazione di brizzolati e panciuti innamorati dell’ovale. Il giorno in cui si cominciò a parlare, seriamente, di passione infinita per il rugby, i parrucconi della Federazione internazionale, allarmati, stabilirono che esiste un limite oltre il quale è considerato rischioso, o soltanto indecente, giocare a rugby: che adesso è 42 anni. Ma da lì in poi, appunto, comincia la seconda vita. Ed è aperta a tutti. È un rugby più facile, quello degli old, versione «light» nei primi due tempi, quelli sul campo, poco o niente «diet» nel terzo tempo, quello che si disputa a mangiare e bere tutti insieme, giocatori e arbitro e chi-c’è-c’è.

«Un incontro in tribuna, una battuta, un’idea, un giro di telefonate, un appuntamento sul campo, ed è fatta», racconta Giovanni Bordin, presidente degli Old dell’Asr Milano. «Il piacere di ritrovarsi, buttarla sul ridere, riprendere un amore interrotto per studi o lavoro o famiglia, e rivissuto non sempre con maggiore consapevolezza. Anzi, spesso alla base c’è proprio una sana dose di follia. Altrimenti chi te lo farebbe mai fare di prendere freddo e botte per niente?»

I parrucconi della Federazione hanno stabilito anche alcune regole salvaossa, se non salvavita. A seconda dell’età – si va dai 42 anni in su, a fasce di 10 – s’indossano pantaloncini di un certo colore: e il colore sta a valutare l’altezza del placcaggio. «In parole povere», spiega Bordin, che si guadagna da vivere come chirurgo al Policlinico di Milano, «più si ha a che fare con giocatori vecchi, e più si usano certi riguardi.» Viste certe partite tra inossidabili e irriducibili rugbisti, di riguardi non ce n’è. «Il rischio», ammette Bordin, «è quello di cercare di soddisfare antiche voglie, aspirazioni e desideri mai raggiunti quando si aveva ancora l’età per giocare secondo le regole canoniche. Ma alla fine il buon senso prevale. Deve prevalere.»

Un solo allenamento la settimana, ma una trentina di email al giorno per stabilire l’appuntamento, organizzare un’amichevole, progettare un viaggio, ordinare una muta di maglie, fissare la data della cena prenatalizia o prepasquale, indire un’asta benefica (non si sa bene per chi, ma l’old è, per sua natura, generoso, soprattutto dopo aver bevuto), organizzare un viaggio per andare ad assistere a una partita del Sei Nazioni o almeno per vederla alla tv tutti insieme, rintracciare il numero di telefono di un’indimenticata spasimante. Poi le circolari sul telefonino, eventualmente anche la convocazione via lettera. È il trionfo della comunicazione, con qualsiasi mezzo. Risultato: tornati in squadra, non se ne esce più.

«Fisicamente, se una volta rimbalzavi perché eri fatto di gomma, adesso uno scontro ti frantuma, ti riduce a pezzi, perché sei fatto di coccio», dice Bordin, che i compagni chiamano «Bum Bum» non certo per le sue doti di latinista (non si direbbe, però ha fatto il classico). «Ma pazienza. Vai ai box, ti restauri, tanto di fretta non ce n’è, al massimo rimani in panchina o porti il secchio dell’acqua. In fondo c’è anche chi si accontenta di partecipare alla foto-ricordo o di entrare in campo un attimo prima che l’arbitro fischi la fine, almeno per poter dichiarare di aver giocato.» A 15 o a 7, in tornei lampo o in seriose andata e ritorno. Bei nomi di fantasia, ogni squadra ha il suo: «Il nostro», tiene a precisare Bordin, «è Bislunghi. Per via del pallone, ovviamente.»

Il fenomeno degli old è la fortuna di specialisti in ortopedia e di reparti di pronto soccorso. «Tante ferite, tanto onore»: vecchio adagio. Vecchio adagio proprio come l’andatura di tanti old.

 

Non sarebbe tornato a giocare per tutto l’oro del mondo, anche se nella sua, diciamo così, carriera, non aveva mai visto una lira e, dopo, non aveva mai mai visto neanche un euro: professionista per l’impegno, dilettante per il portafoglio. Non sarebbe tornato a giocare perché poi al supermarket sarebbe andato comunque lui, ma con una mano ingessata le sei bottiglie di acqua minerale, ciascuna di due litri, totale dodici litri cioè dodici chili, non possono essere considerate né lisce né gassate ma pesanti. Non sarebbe tornato a giocare perché aveva già dato, e soprattutto aveva già preso tante di quelle botte che la metà sarebbe bastata e magari avanzata, quattordici punti qua, dodici là, quella volta in cui si era svegliato nello spogliatoio dopo che si era come addormentato in campo, e poi con quel minimo di lucidità ritrovata aveva firmato la liberatoria, grazie di tutto ma preferisco tornarmene a casa. Non sarebbe tornato a giocare perché qualche volta giocava ancora, di notte, nei sogni, in certe partite volava, in altre non riusciva a staccarsi da terra, ma era abbastanza per sentirsi ancora vivo. Non sarebbe tornato a giocare perché adesso, in tv, fra un Sei Nazioni e l’altro, c’è anche il Tri-Nations e i test-match e il Super 14. Ma sarebbe tornato a giocare solo per quelle giornate, non importa la stagione, quando smette di piovere e il campo profuma di terra, erba, tacchetti. Correrci sopra e pedalarci intorno non sarebbe la stessa emozione che giocarci dentro. Ah, il rugby.

 

 

 

OLIMPIADI (Olympics, Olympiques)

Il rugby saltò Atene 1896, perché i greci non avevano la minima idea di che cosa fosse questo sport, ed esordì nel 1900 ai Giochi di Parigi grazie al barone Pierre de Coubertin, uno che si occupava di stupidaggini e dunque appassionato di ovale. Tre soli partecipanti: la Francia sconfisse la Gran Bretagna (rappresentata dai Moseley Wanderers) 27-7 e la Germania (cioè FSV Francoforte) 27-17 e conquistò l’oro. Il match fra Germania e Gran Bretagna non si disputò: l’argento fu assegnato alla Germania per la migliore differenza di punteggio, il bronzo alla Gran Bretagna. In quell’edizione si fece di tutto per aiutare il pubblico a distinguere le squadre: per esempio, i francesi giocavano con un berretto.

Niente Giochi di St. Louis, nel 1904: troppo avventuroso il viaggio oceanico. Il rugby tornò nel 1908, a Londra. In programma una sola partita, al White City: l’Australia batté Cornwall, la contea campione d’Inghilterra chiamata a rappresentare il suo Paese, 32-3. Gli australiani erano in tournée in Europa e quella era stata la loro nona partita, la loro ottava vittoria contro una sola sconfitta, rimediata a Llanelli. E i gallesi, consapevoli dell’impresa, inserirono il verso «who beat the Wallabies» (chi ha battuto i Wallabies) nella loro canzone Sospan Fach.

Saltata l’edizione 1912 a Stoccolma, per mancanza di cultura rugbistica in Svezia, e dopo la pausa dovuta alla Prima guerra mondiale, nel 1920 i Giochi si tennero ad Anversa, in Belgio. Ma non è chiaro chi vinse l’oro nel rugby. C’è chi sostiene gli Stati Uniti (per David Wallechinsky si giocò il 20 maggio, punteggio 8-0), chi la Francia (per Henri Garcia si giocò il 10 ottobre, punteggio 14-5, e gli americani erano rappresentati dagli studenti della Stanford University, che però si aspettavano di giocare non a rugby, ma a football americano).

L’ultimo rugby olimpico è quello del 1924 a Parigi. Gli studenti della Stanford University, chiamati a «difendere» il titolo conquistato ad Anversa, selezionarono i giocatori in macchina, si recarono in Gran Bretagna in nave, giocarono tre partite in Inghilterra, quindi giunsero in Francia. Sia la Francia (59-3) sia gli Stati Uniti (37-0) sconfissero la Romania. La finale si disputò allo stadio di Colombes, a Parigi, il 18 maggio 1924, davanti a quarantamila spettatori. Gli Stati Uniti schiantarono la Francia 17-3.

Daniel Carroll (1889-1957) vinse la medaglia d’oro nel 1908 per l’Australia e nel 1920 per gli Stati Uniti. Nel 1920 l’americano Morris Kirksey vinse l’oro (o l’argento: la questione è aperta) nel rugby, l’argento nei 100 metri in 108, con lo stesso tempo del vincitore Charlie Paddock, e l’oro nella staffetta 4x100 in 422 battendo anche il record del mondo detenuto dalla Germania.

Il barone Pierre de Coubertin, fondatore delle Olimpiadi moderne, aveva la passione del rugby: giocava, arbitrava (fu lui a dirigere la finale del primo campionato francese di rugby, nel 1892) e promuoveva l’ovale.

 

 

OMOSESSUALI (gays, homo)

«Eravamo alla ricerca di un noto pregiudicato, spacciatore di droga e omosessuale scatenato. Entriamo nella sua casa. Ci dividiamo: io perlustro il pianterreno, il sergente fa le scale e va su nella camera e in bagno. Dopo un po’ lo sento ridere da stare male, come assalito da un attacco isterico. Salgo. È piegato in due, non riesce neanche ad alzare la testa, così mi fa un cenno con la mano. Guardo. Sulla parete, sopra il letto, c’è un mio manifesto di quando giocavo a rugby» (Martin Bayfield).

«Il rugby è un ambiente basato su valori arcaici, e sulla rimozione di ogni traccia di femminilità. I rugbisti sono obbligati a mostrare costantemente di essere i più virili» (Serge Simon).

«Tournée in Sud Africa con i British Lions nel 1997. A Pretoria ho la sfortuna di essere assegnato in camera con Keith Wood. Per via del suo ruolo, tallonatore, Wood ha le spalle massacrate. Così, quando va a dormire, verso le 21.30, riesce a riposare solo in una posizione, ficcando due cuscini sotto ciascuna spalla. E appena chiude gli occhi, comincia a russare. Trascorse sette notti senza chiudere occhio, vado dal medico della squadra a chiedere un consiglio. L’ottava notte, appena Keith si addormenta, io mi alzo dal letto, vado da lui e lo bacio sulla guancia. Da quel momento lui passa le altre tre notti, seduto sul letto, ad aspettare di vedere cos’altro avrei fatto. Insomma: c’era un solo uomo sveglio, e non ero io» (John Bentley).

«Nel rugby ci dev’essere posto per tutti. Il rugby è rispetto» (Pierre Berbizier).

Quella squadra composta di soli gay e bisessuali, per la prima volta nella storia ammessa dalla bacchettona Federazione inglese di rugby. I Kings Cross Steelers, club fondato nel novembre 1995 e fino a quel momento impegnato soltanto in incontri amichevoli, è poi stato finalmente iscritto al campionato di quarta divisione. Decisivo per il successo della loro domanda di iscrizione alla Rugby Football Union è stato il sostegno di due club, ben più noti: l’East London Rfc e l’Old Bevonians Rfc. Gli Steelers, che nei tre anni precedenti avevano sostenuto 47 partite, hanno accolto la notizia dell’iscrizione come la loro «più grande vittoria». E il segretario del club, Chris Galley, ha detto che «quella decisione storica ha dimostrato quanta strada abbia fatto il mondo, ingiustamente definito maschilista, del rugby».

Omosessuale e rugbista era Mark Bingham. Un eroe, il mediano di mischia dei Fogs, la squadra gay di San Francisco, che morì l’11 settembre 2001 tentando di ribellarsi ai dirottatori di uno degli aerei della strage, e a cui è intitolata la Bingham Cup, il Mondiale di rugby per squadre gay.

«C’è un rugbista che ha fatto outing: l’arbitro gallese Nigel Owens. Accadde nello scorso maggio, “ed è stato difficile, ho anche pensato al suicidio”, dichiarò nell’occasione Owens, 35 anni, di Pontyberem, l’unico “referee” gallese alla Coppa del Mondo 2007. “L’omosessualità è un tabù in questo ambiente. Non volevo mettere a repentaglio la mia carriera, ma sentivo di non potermi più nascondere.” Certo, gli arbitri non sono popolari in nessuno sport. Il rugby però è disciplina per gentiluomini. “Ogni tanto qualcuno in campo mi dà del “bent ref” (arbitro con la schiena non diritta, ndr), ma poi subito si scusa: “Oh, perdona Nigel, non intendevo in quel senso”» (Stefano Semeraro).

Les Gaillards, a Parigi, il primo club gay di rugby in Francia; Les Cops sportifs de Paris riunisce gay ed etero, giovani e vecchi; Les Tou’Win, nati nel 2006 a Toulouse per promuovere «un’immagine positiva e costruttiva dell’omesessualità».

 

 

ORIGINI (roots, origines)

A introdurre il rugby in Cecoslovacchia (oggi Repubblica ceca) fu Andrej Sekora, uno scrittore di libri per bambini: andò a Parigi, comprò un libro con le regole del gioco, lo tradusse e formò un club. L’Olanda deve molto a Pim Mulder, che nel 1879 tornò da Londra con un pallone ovale: dovunque si fermasse, nasceva una partita. La Jugoslavia fondò la Federazione nel 1957, ma nel 1961, quando la Francia mandò una sua squadra, si scoprì che gli jugoslavi giocavano secondo le regole della League (a XIII) e non della Union (a XV). Capita la differenza, nel 1964 gli jugoslavi si convertirono alla Union. In Georgia il merito spetta a Jacques Hepekian, un francese di origini armene, che si trasferì a Tbilisi nel 1956: il rugby assomigliava molto a una sorta di football aggressivo e popolare, chiamato «Lelo».

«Il migliore rugby nasce nel fango» (Carlo Checchinato).

«Milano 1975. Volevo giocare a baseball. Ho sbagliato campo. Quando me ne sono reso conto era troppo tardi. La domenica successiva ho giocato la mia prima partita. Allora si usava così!» (Gino Vinella).

«Mio padre giocava a rugby e mi portava sui campi, là io correvo, calciavo, cadevo, mi tuffavo, mostravo le mie prodezze a chi guardava una partita o assisteva a un allenamento. Insomma, ho cominciato a giocare a rugby prima ancora di avere una vaga idea di che gioco si trattasse» (Alessandro Troncon).

«Ogni volta che calpestiamo un campo da rugby, con la sua erba, le sue linee bianche, che entriamo nello spogliatoio, nella doccia calda, nel bar – cioè tutto quello che costituisce un club – ci ricordiamo della nostra infanzia rugbistica» (Ernesto «Che» Guevara).

«Se non sai dove vai, ricordati almeno da dove vieni» (Grégoire Yachvili).

«Il primo allenamento menai randellate, e la cosa mi divertì, ma se mi avessero detto che c’era anche un pallone, forse avrei combinato qualcosa di più. Era stato un certo Ilio Hill, origini inglesi, a portarmi al campo. Lo avevo visto combattere, perché quella non era una rissa, ma una guerra, un’Iliade, appunto, una gigantesca sfida fra ricchi e poveri. “Perché non vieni a giocare con noi?” mi chiese. Ci andai. Che poi si trattasse di rugby, lo seppi solo dopo aver giocato un po’ di volte. Randellate, appunto» (Marco Bollesan).

«Avrò avuto otto anni e volevo giocare a rugby. Mi presentai al campo. Invece di giocare, ci fecero piantare l’erba. Per fortuna eravamo in Sud Africa: per far crescere l’erba basta poco. Due settimane dopo l’erba c’era e finalmente ci dettero un pallone» (Marcello Cuttitta).

 

 

OSTRUZIONISMI (obstruction, obstruction)

Due giocatori avversari che corrono verso il pallone si possono spingere solo di spalla.

Nessun giocatore, che si trovi davanti a un compagno con il pallone, deve impedire in alcun modo agli avversari d’intervenire sul portatore del pallone o sul possibile portatore del pallone.

Un terza ala non deve impedire al mediano di mischia avversario di muoversi intorno alla mischia chiusa.