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SALITA (hill, montée)

L’unico torneo di rugby in salita al mondo è organizzato da Stefano Cortesi sull’erto pendio che costeggia il paesino matildico di Macigno, a metà strada tra Salvarano di Montecavolo e il Castello di Canossa, in provincia di Reggio Emilia. Partite a ripetizione, carne alla griglia e molti amici: insomma, una festa.

 

 

SAMOA

Mi chiamo Shaka Sola, ho ventotto anni, e vengo da Samoa. A dire la verità, abito a Wellington, in Nuova Zelanda, ma a Samoa sono nato. È il destino dei samoani: nascere nel posto più bello della Terra, e poi andarsene in giro per il mondo, lontano da casa, un’ora di nave o un giorno di aereo. A Samoa ci sono centomila samoani, nel mondo un milione. Come se sulle nostre isole non ci stessimo, come se tutti insieme le facessimo affondare. È vero che siamo grandi e grossi, ma un’isola non va mica giù come se fosse un canotto. Anch’io sono grande e grosso. Lo ero fin da piccolo. È che lì, al momento, non te ne accorgi di essere grande e grosso, perché anche gli altri ragazzi hanno quelle dimensioni, ti specchi nelle loro facce piene come la luna, nelle loro schiene ampie come scogli, nelle loro ginocchia gonfie come palloni. A Samoa, quando devi decidere quale sport fare, c’è solo l’imbarazzo della scelta: o il rugby o il rugby. Io ho scelto il rugby. Potevo anche scegliere di non fare niente, cioè tutto: nuotare, remare, correre, saltare, ascoltare la musica o suonarla. Invece no: rugby. Vedendomi adesso, pensereste che, appena entrato in campo, l’allenatore mi abbia piazzato in prima linea, pilone. Macché. Ala. All’inizio ti mettono ala perché lì fai meno danni, poi guardi gli altri che giocano e qualcosa impari anche senza che nessuno te lo debba dire. Poi, di solito, si scala: da ala a centro, da centro a terza linea. Io, da ala sono diventato centro, da centro sono emigrato in panchina. Passare, placcare, sostenere, poi sedere, incitare, a volte entrare. Bello il rugby. Un compagno fa una prodezza, e il merito è anche tuo. Tu fai una fesseria, e la colpa è di tutti. Anche di quelli in panchina. Un giorno mi sono stufato di giocare con gli altri solo i terzi tempi, quelli che si disputano a tavola dopo la partita, perché i primi e i secondi tempi li guardavo e basta, e sono passato all’atletica. Niente corse e salti, a forza di terzi tempi non avevo più il fisico, ma lanci. La mia specialità è il peso. Una palla di ferro da gettare il più lontano possibile. Campione di Samoa, primatista nazionale, medaglia d’oro ai South Pacific Mini Games. Non so se mi spiego. Dunque qualificato per i Mondiali di Helsinki, in Finlandia. Parto da Palau, staterello della Micronesia, faccio scalo a Manila, nelle Filippine, ma lì è un gran casino, faccio confusione, perdo un po’ di tempo al bar, e mi salta la coincidenza con il volo per Francoforte, in Germania. Pazienza. Prendo il volo successivo. Ma è ventiquattro ore più tardi. A Francoforte sto bene attento, al bar stavolta non mi fermo, così prendo giusto l’aereo per Helsinki. Con un taxi arrivo allo stadio. Mi presento, mi danno un pass, entro, chiedo quand’è la mia gara. «Ieri», mi fa una signorina bionda e magra. Pazienza. «Quand’è il giavellotto?», chiedo alla signorina bionda e magra. «Oggi. Oggi pomeriggio.» Così m’iscrivo, mi cambio, mi faccio prestare un giavellotto e, già che ci sono, mi faccio dire come s’impugna e come si lancia. Niente a che vedere con il peso. Il peso lo tieni stretto, vicino, attaccato, fra collo e mascella: ti pieghi e poi lo getti. Il giavellotto è più scomodo, rimane a sé stante, e presuppone una rincorsa, una velocità, un dinamismo che non conoscevo più dai tempi del rugby, finché lo fai decollare come se fosse un aliante. E la traiettoria, mi sembra di capire, è quella che regala un volo di linea o charter, transoceanico o locale. Il primo lancio non è granché: 38 metri. Il secondo già meglio: sui 41. Il terzo non è niente male, peccato che mi lasci prendere dalla velocità e la rincorsa finisca oltre una linea bianca. A parte il fatto che la storia della linea bianca non me l’ha spiegata nessuno, comunque fa niente. Peccato, però, perché secondo me quel lancio era di almeno 45 metri. Adesso, comunque, sono primatista samoano anche di giavellotto. Stasera poi esco con quella signorina bionda e magra. A Wellington ho una moglie e una figlia di due anni. Ma le finlandesi sono proprio belle.

«Mamma di Falelatai, un villaggio in campagna. Papà di Vailima, nei sobborghi di Apia, la capitale. Io nato a Vailima e cresciuto a Falelatai: mezzo campagnolo e mezzo urbano, un po’ come quelle bici da cross progettate per la città. Il mio primo codice di regole non è stato quello dello Stato, ma del clan. C’è una regola che è un bell’esempio: ogni villaggio ha una campana, e quando suona la campana, che tu sia in mezzo all’oceano o in mezzo a una partita, non devi fare altro che salutare acqua e compagni e tornare al villaggio. Altrimenti, 20 dollari di multa» (Jerry Collins).

 

 

SCOMMESSE (bets, pari)

Essecì ha giocato a rugby: serie B, se fosse dipeso da lui avrebbe giocato anche in A, ma seguiva le sorti della sua squadra, infatti poi ha assaporato tutto il gusto di ritrovarsi in pochi e poveri dopo una retrocessione in C, insomma andava dove lo portava il Chicken e incontrava gente alla sua bassezza, anche se lui era un tipo alto e veniva incastrato in seconda linea. Acì non ha mai giocato a rugby, però essendo catanese, l’ha sempre conosciuto e apprezzato.

Essecì, per modestia, dice che, più che giocare a rugby, occupava una maglia e, nel secondo tempo, una zolla del campo. Acì, in compenso, snocciola nomi e cognomi di campioni come se fosse il selezionatore dei Barbarians: e quando i Barbarians non giocano, selezionatore dei British Lions.

Essecì e Acì lavorano in un importante quotidiano sportivo rosa del Nord Italia: Essecì, che è l’uomo che di baseball sa più di tutti in Italia, è il responsabile dell’ippica, invece Acì sta più su, molto più su. Distanza fra le due sedie: otto metri e mezzo in linea d’aria, in mezzo però ci sono due porte e quattro stipendi.

Coppa del Mondo di rugby 1995. Giocano Scozia e Costa d’Avorio. Giocano anche Essecì e Acì. Ma è inutile giocarsi contro, l’uno contro l’altro, convengono, affidiamoci alla linea del «Racing Post», che è lì apposta. E la linea del «Racing Post», che è lì apposta, dice: 40, 40 punti di vantaggio per la Scozia. Un deca a punto sopra o sotto la linea. Acì prende la Costa d’Avorio, perché 40 punti di vantaggio sono 40, oh! A Essecì si apre il cuore: sa che la Costa d’Avorio è una buona squadra ma indisciplinata, e così finirà con l’offrirsi al piede di Gavin Hastings, estremo scozzese nonché calciatore potente e preciso, una macchina da punti. Dice proprio così, Essecì: una macchina da punti.

Pronti via, gli scozzesi cominciano a spron battuto, gli avoriani si oppongono ma cadono in frequenti errori, puniti dall’implacabile Hastings. Alla fine del primo tempo il punteggio è 41-0. E alla fine del secondo è 81-0, che tradotto in deca fa 41, e tradotto in lire fa 410.000. Siccome Essecì e soprattutto Acì sono dei signori, non si paga subito, ma si va avanti. Essecì la rebonza la vorrebbe subito, ma conosce la regola: mai far arrabbiare il giocatore che sta perdendo. E si va avanti. Con alterna fortuna. Cioè a Essecì capita di vincere tanto o poco: alterna fortuna, appunto. Francia-Tonga, per esempio. La linea del «Racing Post», che è lì apposta, dice: 30, 30 punti di vantaggio per la Francia. Un deca a punto sopra o sotto la linea. Stavolta Acì prende la Francia, basta sfidanti, andiamo sul sicuro, con tanto di plurale maiestatis. A Essecì si apre il cuore: sa che Tonga getta, spreca, dilapida, ma ha gambe e cuore, e ignoranza quel che basta per non mollare mai. Finisce con i francesi che vincono, 29 punti di scarto, e i tongani che s’immolano pur di non farli passare e soprattutto pur di far guadagnare un solo, sudatissimo e meritatissimo deca a Essecì.

Per la finale, Springboks-All Blacks, cioè Sud Africa-Nuova Zelanda, Essecì e Acì sono d’accordo: basta affidarsi alla linea del «Racing Post», in culo il «Racing Post» fa Acì, ma sì in culo gli fa eco Essecì, io prendo gli All Blacks fa Acì, e a Essecì gli si apre il cuore: perché sa che gli Springboks giocano in casa, perché sa che fra Springboks e All Blacks non c’è mai un favorito, perché sa che per tutti i neozelandesi la partita contro i sudafricani è quella della vita, «do or die» dicono, ma anche per tutti i sudafricani la partita contro i neozelandesi è quella della vita, e anche loro dicono «do or die», perché anche loro parlano inglese. E poi Essecì sa anche che il pallone è ovale e rimbalza dove cazzo vuole lui. Il pallone, sia chiaro. Finisce 15-12 dopo i tempi supplementari, solo calci e drop: tre calci il sudafricano Stransky e tre il neozelandese Mehrtens, due drop Stransky e uno solo Mehrtens. Insomma Sud Africa campione del mondo, Nelson Mandela con la maglia verde che consegna la William Webb Ellis Cup, in una sola parola Bill, al capitano François Pienaar. In quel momento Acì non ammira Mandela e neanche Pienaar, ma ha appena scucito un assegno e lo sta compilando. Già detto: è un signore, e catanese perdipiù, quindi il rugby l’ha sempre conosciuto e apprezzato: in alto, a destra, scrive con le cifre 1.490.000, al centro verga in lettere unmilionequattrocentonovantamila, tutto attaccato. E sotto schizza la sua firma: Acì.

La mattina dopo, alle sette e mezzo, ben prima dell’ora di apertura, Essecì assedia la propria banca. Alle otto in punto, ancora ben prima dell’ora di apertura della suddetta banca, bussa per depositare l’assegno cui aggiunge un deca di tasca sua pur di fare cifra tonda. Alle otto e mezzo, accompagnato da qualche sacramento delle opposte fazioni (lui, da solo, da una parte, Casiraghi e company dall’altra), copre finalmente qualche debituccio. In fondo il suo conto corrente era lì, appena appena oscillante fra il rosso e il nero.

Essecì lavora ancora nell’importante quotidiano sportivo rosa del Nord Italia. Continua a occuparsi di ippica, a ritenere che «il baseball è un gioco senza l’angoscia dell’orologio», a pensare che «il rugby è un disordine dissoluto nell’ordine assoluto». Acì invece fa lo scrittore. Ma la storia delle sue scommesse perdute con o senza la linea del «Racing Post», che pure è lì apposta, non l’ha mai scritta.

 

 

SCOZIA (Scotland, Ecosse)

«Gli scozzesi sono molto duri, ed è raro che una partita Irlanda-Scozia non finisca con due o tre irlandesi portati fuori dal campo» (J.J. McCarthy, The Rugby Game, 1892).

Caccia al pavone: così gli scozzesi amano chiamare le battaglie contro i bianchi d’Inghilterra, considerati i padroni boriosi e vanitosi. Una caccia che si ripete dal 1871, l’anno della prima sfida tra i bianchi della rosa e i blu del cardo.

«A me gli scozzesi sono simpatici. Se non ci fosse l’Italia, sarebbe ancora il Cinque Nazioni, e al Cinque Nazioni farei il tifo per loro. Sono gli unici britannici che non ti squadrano dall’alto in basso, anche se loro sono i più a nord di tutti, ma ti guardano ad altezza occhi. Umili, ospitali, sanguigni. Gente che lotta su tutti i palloni come se fossero tutti decisivi. Un po’ come noi livornesi. Dev’esserci stato qualche antico gemellaggio» (Andrea De Rossi).

«Gente che gioca sempre, che non molla mai, finché non è distrutta, e quando è distrutta gioca ancora finché non è morta. Ma gli scozzesi, se sono veri scozzesi, non muoiono mai» (Massimo Ravazzolo).

Flowers of Scotland è diventato l’inno della Nazionale scozzese di rugby nel 1989. Gavin Hastings, estremo e capitano della Scozia, ha detto: «Ma perché dobbiamo cantare lo stesso inno degli inglesi? Noi non siamo come loro». E God Save The Queen è stato abbandonato.

«I neozelandesi sono scozzesi che hanno imparato a vincere» (Ian McGeechan).

«Non avrete fatto il vostro dovere se il vostro naso sarà distante più di mezzo metro dal pallone» (Charles Usher).

Sei Nazioni, il match per la Calcutta Cup, Scozia-Inghilterra: un fulmine cade sul campo e colpisce Clive Woodward, c.t. inglese, e Ian McGeechan, c.t. scozzese. Tutti e due salgono in Cielo e s’incontrano ai cancelli con Dio. «Benvenuti, entrate, vi mostrerò i vostri alloggi.» Dio prende Clive per la mano, lo guida su un sentiero attraverso magnifici campi di fiori finché arrivano a una villetta, con un prato ben curato, aiuole e alberi che sussurrano per una leggera brezza, gli uccelli cantano Swing Low, Sweet Chariot e nel giardino i nani hanno i volti di grandi giocatori inglesi come David Duckham, Bill Beaumont, Jason Leonard e Lawrence Dallaglio. «Dio», fa Clive, «non so cosa dire.» Dio sorride, prende McGeechan per la mano e comincia a camminare per un sentiero. Intanto Clive si volta e vede che, sopra la sua villa, c’è un gigantesco palazzo, il cancello è sormontato da leoni scozzesi, il giardino è enorme e sul prato ci sono mastodontiche statue di Andy Irvine, Roy Laidlaw, Finlay Calder e dei fratelli Hastings. Cori di uccelli intonano Flowers of Scotland. Un po’ seccato, Clive corre da Dio e McGeechan: «Scusa, Dio, non vorrei sembrare ingrato, ma mi chiedo come mai la casa di Ian sia così più grande e più bella della mia». Dio scoppia a ridere, mette un braccio sulla spalla di Clive e gli dice, dolcemente: «Clive, non preoccuparti. Non è la casa di Ian. È la mia».

 

Otto anni prima che William Webb Ellis prendesse il pallone fra le mani alla Rugby School, gli scozzesi avevano già inventato il rugby. Era successo, nel 1815, durante una partita fra gli uomini di Selkirk e quelli di Forest: Walter Laidlaw raccolse il pallone con le mani e lo fiondò a William Riddell, giocatore troppo veloce per gli avversari, tant’è vero che non riuscì ad andare in meta solo perché venne placcato da uno spettatore. A quel tempo le regole erano piuttosto vaghe, elastiche. Altri spettatori, meno fisici ma più conosciuti, erano il Duca di Buccleuch (si pronuncia «Baklu»), lo scrittore Sir Walter Scott (Ivanhoe) e il poeta e scrittore romantico James Hogg: se fossero vivi, potrebbero testimoniare. Partita e prodezza non entrarono nella storia perché il tutto si svolse a Carterhaugh. Niente di storico o geografico contro Carterhaugh. Ma certo è più facile dire «andiamo a giocare a rugby» o «andiamo a giocare a Carterhaugh», che neanche gli scozzesi sanno con precisione come muoversi fra gutturali e aspirate? Comunque gli scozzesi, quanto a rugby, o come forse avrebbero voluto dire loro, a Carterhaugh, la sanno lunga, tradizionale e parsimoniosa. Lunga per via di quel 1815. Tradizionale perché sono sempre stati gli ultimi ad adattarsi alle novità, anche quella di numerare le maglie. George V, presidente della Federazione nonché re, nel 1924 a Twickenham tentava ancora di spiegare la sua ostilità ai numeri sulla schiena: «Siamo a una partita di rugby, non al mercato del bestiame». Quanto al parsimoniosa, ecco la storia di Andrew Wemyss, per gli amici Jock. Pilone. Aveva giocato per la Scozia prima della Prima guerra mondiale, e fu uno dei pochissimi a giocarci anche dopo. Il conflitto aveva annientato i giocatori: dei 200 atleti dei London Scottish, 69 erano stati uccisi, più di 50 feriti gravemente e quattro fatti prigionieri. La Scozia tornò in campo dopo aver firmato l’armistizio, il Capodanno del 1920, al Parco dei principi di Parigi contro la Francia, stesso stadio e stesso avversario di sette anni prima, quando una partita si era trasformata in rissa e l’arbitro aveva rischiato il linciaggio. Il vecchio Jock era seduto nello spogliatoio, come tutti si era portato pantaloncini e calzettoni, e come tutti aspettava la maglia. Ma il selezionatore aveva portato 14 maglie e quando giunse davanti a Wemyss, lo saltò. Jock, sorpreso: «E la mia?» Il selezionatore, seccato: «Non essere ridicolo, Wemyss, tu ne avevi una in buone condizioni nel 1914». Wemyss, stupito: «Ma l’ho scambiata con un mio avversario». Il selezionatore, offeso: «La Federazione non è una fabbrica di soldi». Wemyss si mise in fila per uscire dallo spogliatoio ed entrare in campo, a petto nudo. Fu lì che un dirigente scozzese gli allungò una maglia di riserva. La Scozia vinse per una meta trasformata a zero. Al fischio finale gli spettatori invasero il campo e corsero verso l’arbitro inglese Frank Potter-Irwin. Per un attimo si temette un assassinio. Invece Potter-Irwin fu sollevato da terra e celebrato fra applausi e hip-hip-hurrah. Della prestazione di Wemyss poco si sa. Durante la guerra, Wemyss aveva perso un occhio, ma non la solidità nelle mischie. Anche due giocatori francesi erano rimasti ciechi da un occhio durante i bombardamenti, e uno dei due era il pilone Marcel Lubin-Lebrère, avversario diretto di Wemyss. Nel terzo tempo i due ciclopi diventarono amici. Si ritrovarono due anni dopo, sempre a Parigi, sempre per Francia-Scozia. Finché si giocava alla mano o in mischia chiusa, le cose funzionavano. Ma nelle touche, i due non riuscivano a focalizzare contemporaneamente pallone, linea e avversario, e sgomitavano, penetravano, invadevano. L’arbitro, l’inglese Dreadnought Harrison, chiamò il capitano scozzese Charles Usher. «Li lasci stare», spiegò Usher, «è una faccenda privata: sono tutti e due mezzi ciechi.» La partita finì 3-3. Smesso di giocare, Wemyss diventò commentatore per la Bbc. E a chi gli chiedeva quanti errori avesse commesso da giocatore, lui rispondeva: «Ne ho visti solo la metà di quelli che mi sono stati attribuiti».

 

Eric Liddell, quello del film Momenti di gloria (Chariots of Fire, premio Oscar). Nato in Cina nel 1902, giunto in Scozia nel 1907, la prima passione di Liddell fu il rugby: sette «caps» e quattro mete per la Scozia tra il 1922 e il 1924. Poi venne l’atletica: oro nei 400 metri e bronzo nei 200 ai Giochi olimpici di Parigi nel 1924. Liddell morì nel 1945 in un campo di concentramento in Giappone.

 

 

SCUOLA (school, école)

«È stato il rugby a insegnarmi storia, geografia e scienze» (Andrea Lo Cicero).

«Il rugby ti insegna a non fingere, a non abusare di te e soprattutto degli avversari, a dare aiuto e anche a chiedere aiuto, a riconoscere un amico e anche un avversario. Per esempio, uno che ti viene addosso a tutta velocità e a tutta forza, non si può sbagliare: è uno che la pensa e la vive come te» (Carlo Checchinato).

«Giocavo a rugby, a scuola, e una volta caddi su un pallone vagante. Un po’ per ignoranza, un po’ per paura, lo tenni stretto anche se mi riempivano di pugni. Ci ho messo mesi per convincere i miei compagni che non ero un duro, ma che anzi me la facevo sotto» (Peter Cook).

«Se fossi ministro dello Sport, metterei il rugby alle elementari: se non obbligatorio, almeno facoltativo. Non è solo educazione fisica, ma anche civica» (Alessandro Troncon).

«Se impongo mischie, maul e combinazioni da ricordare a memoria, agli allenamenti non verrebbe più nessuno» (un educatore scolastico delle Figi).

 

 

SECONDA LINEA (lock, deuxième ligne)

Braccio destro allacciato intorno alla schiena del mio compagno, il numero 5. Mano destra attaccata alla sua maglia, chiusa a pugno. Stretti. Uniti. Un tutt’uno. Poi giù. Braccio sinistro fra le gambe del mio pilone, il numero 1. Mano sinistra attaccata alla sua maglia, chiusa a pugno. E testa incastrata fra il pilone e il tallonatore, il numero 2. Stretti. Uniti. Un tutt’uno. Cinquecento chili in cinque. A questo punto si legano anche le terze. Dietro. I chili diventano ottocento. Quando un mediano – nostro o loro – introduce il pallone, siamo già in apnea, in spinta, in trincea. Stretti. Uniti. Un tutt’uno.

Numero 4, seconda linea. In inglese si dice «lock», che vuole dire serratura. È perché siamo chiusi a chiave, bloccati, blindati, e se fossimo anche corazzati, sarebbe anche meglio. Invece non siamo corazzati. La schiena ti terrà compagnia tutta la settimana. I polpacci s’induriscono. Le orecchie, a forza di sfregarsi, si trasformano in cavolfiori, in tortelli ripieni, di zucca, di ricotta, di carne, dipende. I capelli preferiscono abbandonare il campo. Il casco aiuta sì e no. Ci vuole anche il paradenti. Perché li stringi, i denti, fino alla fine. Se no fuori, in panca, in tribuna, anzi, a casa.

Ogni ingaggio è una questione di centimetri, ma quando ti rialzi, e il pallone è già lontano, hai il fiatone e le gambe inacidite come se avessi corso i 400 metri. È il dio della mischia, dicono. È in suo onore, dicono, che noi dobbiamo inchinarci.

 

Touche. Intorno a lui, dall’altra parte di una linea soltanto immaginaria, cinque All Blacks: Wilson Whineray, pilone, base per altezza; Brian Lochore, seconda, guardiano del cielo; Kel Tremain, terza ala, pensiero e azione, pensiero rapido e azione istintiva, l’unico caso in cui l’azione precede il pensiero, ed è sempre una buona azione, anche quando fatta con le cattive; Waka Nathan, terza ala, 51 partite con la Nazionale e 23 mete, scusate se è poco; e Colin Meads, seconda, ribattezzato «Pinetree», il pino, nel senso dell’albero, sovrastante, dominante. Touche, dunque. Delme Thomas, gallese, Lion per l’occasione, aspetta che il tallonatore carichi la spalla, estenda braccio, avambraccio, mano e dita, poi salta. Conquistare un pallone significa rubarlo agli avversari, concedere una possibilità ai compagni per attaccare, penetrare, tagliare, ferire, affondare, lucrare terreno, avvicinarsi alla meta. Conquistare un pallone significa rugby. È un attimo: lancio, pallone, salto, conquista e l’equivalente di un tram che si materializza e sfonda la bocca di Thomas. Thomas atterra, crolla, ci rimette un dente, il gioco prosegue, Thomas si rialza, sputa il dente, pensa che «è colpa mia, l’ho voluto io, non si fanno prigionieri nei test-match, la precedente touche mi sono arrampicato sulla schiena di Meads, avrei dovuto saperlo, e aspettarmelo». Meads non dice una parola, Thomas neppure: infatti non c’è niente da dire. Otto settimane prima, Thomas parte con i Lions, la rappresentativa dei quattro Paesi britannici, maglia rossa, braghe bianche, testa e cuore. È la quarta seconda linea del gruppo: la prima è anche il capitano dei Lions, Mike Campbell-Lamerton, scozzese; la seconda è Brian Price, gallese, un’autorità; la terza è Willie John McBride, irlandese, una leggenda; e come quarta, tutti pensavano a Thomas, ma un altro Thomas, perché metà dei giocatori gallesi si chiama Thomas, e questo qui di nome fa Brian. Quel sabato si gioca Richmond-Llanelli, a Londra, e la domenica, tornando in treno, Delme Thomas annusa un’aria strana, diversa, come di vuoto. Quando arriva al suo villaggio, Carmarthenshire, capisce che quel vuoto è solo un’attesa, un’apnea, una festa a sorpresa per celebrare la sua prima convocazione nei Lions: tournée nell’emisfero Sud, rugby dell’altro mondo, un viaggio di iniziazione lungo quattro mesi e mezzo.

Delme è un ragazzo di campagna, sa solo che da questo momento la sua vita cambia, e per sempre. Così, quando entra per la prima volta nell’albergo, scopre che è stato abbinato a McBride, e McBride lo tranquillizza. Così, quando entra per la prima volta in squadra, è lo stesso capitano Campbell-Lamerton a battezzarlo: «Ragazzo, ti auguro tutto il bene possibile». Perché è proprio il capitano a lasciargli il posto. Così, quando entra per la prima volta in campo, contro gli All Blacks, è proprio il «Pino» a firmargli il benvenuto con quel cazzotto in bocca e a introdurlo ai misteri del rugby neozelandese. «Perché», commenterà poi Thomas, «la gente parla sempre di partite dure, ma finché non sei stato in Nuova Zelanda, non sai che cosa sia il rugby fisico. Quelle sono partite che ti aprono gli occhi.» Li aprono, a volte, anche chiudendoteli. E così, quando si ritrova in touche, in quella touche, prima sull’altare e poi nella polvere, Thomas impara che deve stare zitto e ricominciare a vivere, a giocare, a correre e saltare, a darle e prenderle. I Lions perdono la serie 4-0, ma Carmartenshire sa che il risultato non è tutto, dimentica il punteggio e riserva a suo figlio Delme una seconda festa a sorpresa. Una festa di ringraziamento: per non essersi piegato al «Pino». E Thomas non si piega più. Neanche quando viene spostato pilone, per emergenza, e gioca contro gli Springboks. La prima mischia ha davanti a sé un gigante, Johannes Marias, che lo alza con il collo e lo scaraventa fuori dal pacchetto. Ma Thomas sa, rientra in mischia e in partita. I gallesi dei villaggi sono più duri del carbone.

 

 

SEGRETARIO (secretary, secrétaire)

Anni Ottanta. Un giorno a Santino Granata rubarono la Fiat 500. Il problema non era la 500, amen, ma la segreteria dell’Amatori Catania che abitava lì dentro, dai tesserini ai palloni, dai certificati medici alle maglie di scorta. Con un rapido giro di telefonate, tutti i ladri di macchine del Catanese furono avvertiti che quella 500 andava restituita immediatamente. Infatti: restituita. Nello stesso giro di telefonate ai ladri di macchine del Catanese, fu ordinato che quella 500 non doveva più essere toccata. Anzi, non toccata: sfiorata.

 

Il più rugbista di tutti, a Rho, è uno che a rugby non ha mai giocato. In campo, s’intende. Ma fuori dal campo ha fatto tutto e di tutto. Solido come un pilone, potente come un seconda, generoso come un terza, intelligente come un mediano, svelto come un trequarti, sicuro come l’estremo. Luigi Bassetti è uno di quelli che, nella vita, si è dovuto adeguare più al cognome che al nome. In effetti, sul campo non avrebbe mai potuto conquistare pallone in touche e forse neanche correre e placcare, correre e placcare, nonché correre e placcare per ottanta minuti come un flanker moderno. Ma, tutto sommato, è stato molto meglio così. Perché è più facile ficcare la testa in una mischia aperta che in un cassetto chiuso, e tirare fuori non il pallone, quello lo vedono tutti, ma la soluzione a un problema, dove di solito c’è una nebbia da tagliare a fette o un buio oltre qualsiasi siepe.

La qualifica di segretario che gli viene tradizionalmente attribuita è riduttiva, quasi ridicola. Anche senza averne il «phisique du role», per anni Bassetti ha avuto il dono dell’onnipresenza e dell’onniscienza, recuperando risorse a tutti gli altri umani sconosciute o invisibili. Dai tesserini ai palloni, dai pullman alle cravatte, Bassetti è capace di sciorinare prezzi, quantità, luoghi, taglie. Come se fosse Internet. E sia chiaro: Internet, a quei tempi, anni Settanta e Ottanta, non esisteva. Cioè, per esistere, esisteva. Solo che ce l’aveva lui. Incorporata. Come Bill Gates se ne sia potuto accorgere, e appropriare, questo è destinato a rimanere un mistero.

A forza di frequentare autorità dell’International Board e fenomeni dell’hinterland, Bassetti è entrato nella Hall of Fame dell’ovale. Non quella ufficiale: ammesso che esista, chissenefrega. Qui si parla della Hall of Fame dei nostri sentimenti. E lì Bassetti è, a dispetto dell’ingiusto cognome, nel posto più alto.

 

 

SEI NAZIONI (Six Nations, Six Nations)

«Il Sei Nazioni è una di quelle cose che mi tengono in vita. Le altre, da quando le danno in tv, sono il Tri-Nations e il Super 14» (Gabriele Cabrio).

«Il Sei Nazioni accorcia l’inverno» (motto popolare).

«Il Sei Nazioni è 80 minuti di guerra e un anno di amicizia» (Rick Greenwood).

«Sei Nazioni 2001, Italia-Galles. Qualcuno entrò nello spogliatoio annunciando che al Galles mancava il mediano di mischia Howley. Ci fu chi disse: “Meno male”. Brad Johnstone, c.t. dell’Italia, ribatté: “Peccato, abbiamo perso la possibilità di vedere giocare un grande mediano”» (Antonio Zibana).

«Un match del Sei Nazioni non dura 80 minuti, ma sei giorni. Comincia con gli allenamenti del lunedì e martedì: tranquilli. Prosegue con quello del mercoledì: concentrato. E giovedì: intenso. Poi c’è il venerdì: attento. Il sabato mattina mi sveglio come se fossi già nello spogliatoio: teso. L’atmosfera la senti già a colazione: elettrica. Da quel momento ti chiudi in te stesso per cercare risposte a domande, timori, dubbi, curiosità, voglie. Poi entri in campo. Lì te la giochi. Non la partita. La vita» (Sergio Parisse).

Scozia contro Inghilterra. Niente lance, picche e moschetti, ma una palla ovale. Niente brughiere insanguinate, ma un prato verde, quello dell’Accademia di Edimburgo. Era il 27 marzo 1871, e finì 4-1: una meta per ogni squadra (valeva un punto), più un calcio per gli scozzesi. Gli inglesi, che avevano viaggiato di notte, in treno, in terza classe, a proprie spese, contestarono la meta scozzese. L’arbitro decise di assegnarla solo dopo aver valutato chi facesse più casino: «La squadra che fa più casino», spiegò ai cronisti, «di solito è dalla parte del torto.» Quella Scozia-Inghilterra è la Betlemme del Sei Nazioni, poi allargatosi a quattro squadre con Galles e Irlanda nel 1883, poi a cinque con la Francia nel 1910, infine a sei con l’Italia nel 2000. Oggi il Sei Nazioni è il meglio dell’ovale boreale e del suo popolo: il gioco inteso come spirito e religione, gli stadi come templi e santuari, le tradizioni e le storie che si rinnovano. Il torneo racconta l’avventura di uomini e squadre, con cronache, testimonianze, curiosità, statistiche, segreti e confidenze. Come quella dell’inglese Dudley Wood: «I rapporti tra gallesi e inglesi si basano sulla fiducia e sulla comprensione. I gallesi non hanno fiducia in noi e noi non comprendiamo i gallesi». O come quella del mediano di mischia francese Pierre Berbizier: «Se non sai incassare un pugno, meglio che giochi a ping pong». O come quella di Sir Tasker Watkins: «Nel 1823 William Webb Ellis, con grande dispregio delle regole a quel tempo in vigore, per primo prese il pallone fra le braccia e corse. E da allora tutti i giocatori di mischia stanno ancora cercando di capire perché». Forse perché, come sostiene Lawrence Dallaglio, terza centro dell’Inghilterra campione del mondo, «chi è stanco del Sei Nazioni, è stanco della vita».

 

 

SENTIMENTI (emotions, sentiments)

«I tre stadi dell’amicizia: 1) ma mi e ti ghemo mai magna el cafeate insieme? 2) ma mi e ti ghemo mai fata na docia insieme? 3) ma mi e ti ghemo mai zogà a rugby insieme?» (Flaviano Brizzante. Traduzione: 1) ma io e te abbiamo mai preso il caffellatte insieme? 2) ma io e te abbiamo mai fatto la doccia insieme? 3) ma io e te abbiamo mai giocato a rugby insieme? Esiste anche una leggera variante del terzo stadio dell’amicizia: ma io e te abbiamo mai spinto in mischia insieme?)

«Rugby e amore si assomigliano: sono passione, sentimento, legame, sono voce del verbo dare. Si dà per il solo piacere di dare. Il ricevere viene dopo: non è l’obiettivo, semmai una conseguenza» (Alessandro Troncon).

«Il rugby dei ricordi è il migliore di tutti. Il rugby senza soldi è il migliore di tutti. Il rugby della convocazione al pub (“alla Bube”) è il migliore di tutti. Il rugby nel fango è il migliore di tutti. Il rugby giocato sulla piazza fuori dal pub, doping alla birra, è il migliore di tutti. Il rugby che senti nell’aria quel sabato mattina che ti svegli e ti accorgi che il tempo del Sei Nazioni è arrivato, è il migliore di tutti. Il rugby per il rugby, niente di più. Che, in fondo, è tutto. Probabilmente non giocherò mai a rugby, non in questa vita, ma guardarlo, oh sì, non ci rinuncerò mai, magari solo in tv, ma lo guarderò sempre, perché così posso vedere i volti e le smorfie, le espressioni e i movimenti, perché il rugby è danza tribale, spettacolo teatrale (spesso dell’assurdo, a volte tragicomico), è musica per le mie orecchie. Perché le parole, le storie, l’anima del rugby hanno una voce» (Maddy Emboli).

 

 

SESSO (sex, sexe)

«A metà degli anni Novanta c’era molta speculazione giornalistica su una presunta storia tra la principessa Diana e il capitano dell’Inghilterra Will Carling. Carling negava decisamente le voci. Dopo che nuovi particolari della storia erano stati lasciati trapelare alla stampa, il principe Carlo doveva consegnare il trofeo delle Cinque Nazioni a Carling in una partita in cui il capitano non era riuscito ad andare in meta. Il principe gli disse: “Mi dispiace che tu non ce l’abbia fatta”. Carling rispose: “Finalmente, qualcuno che mi crede”» (John Scally).

«Barzelletta. Un gruppo di amici, le solite discussioni, il sesso, uno chiede “tu quanto ce l’hai grosso?”, l’altro gli risponde “come un bimbo”, in coro gli domandano “così piccolo come un bimbo?”, lui ribatte “no, alto come un bimbo”. E siccome anch’io sono fatto così, ecco da dove nasce il mio soprannome» (Orazio «Bimbo» Arancio).

«A Christchurch, in Nuova Zelanda, una donna credeva nel sesso responsabile. Faceva l’amore solo nel periodo sicuro: quando suo marito giocava in trasferta» (John Scally).

George Gregan, mediano di mischia australiano, recordman di presenze: un leader. Eppure i suoi compagni si divertono a costruire storie su di lui. Come questa. Una sera, in discoteca, Gregan viene avvicinato da una donna: «Vuoi dormire con me per 20 dollari?» Gregan ci pensa su, poi risponde: «No, sono molto stanco, ma i 20 dollari mi farebbero comodo».

Coppa del Mondo 1991, finale, Australia-Inghilterra. Una donna di Adelaide spedisce un fax all’albergo che ospita gli australiani: «A chiunque segni la prima meta della finale, offro fantastico sesso gratis». Segue il numero di telefono. La prima palla buona capita a Tim Horan, ma Will Carling difende bene, e il pallone va in touche. Proprio da quella rimessa nasce un’altra azione australiana, e Tony Daly – un pilone grande e grosso, vecchia maniera – schiaccia il pallone in meta. Sarà l’unica meta della partita. Tutta l’Australia è davanti alla tv e la compagnia telefonica si gode due ore di calma assoluta. Tranne una utente di Adelaide, che vuole cambiare immediatamente il proprio numero.

Secondo Jock Phillips, autore di uno studio pionieristico sulla cultura maschilista della Nuova Zelanda, prima del 1900 – quando gli uomini erano più numerosi delle donne – si credeva che il rugby aiutasse a sublimare la sessualità e fornisse una sana alternativa alle cattive abitudini, in particolare alla masturbazione. «Non è inconcepibile che giocare a rugby aiutasse a sublimare un’acuta frustrazione sessuale… Potrebbe aver regalato agli uomini una forma di contatto fisico che non avrebbero potuto avere legittimamente altrove» (Jock Phillips).

Ci penso io, ha detto il Bistolfi. Il Bistolfi, ex giocatore, di quelli che non passano alla storia, ma che almeno passavano la palla. Adesso il Bistolfi si è sistemato, e lavora in una compagnia aerea: così, ogni tot, ha la possibilità di guadagnarsi dei biglietti non si sa come e non si sa perché, sono biglietti strani, costano poco o niente, in compenso non hanno garanzia: se c’è posto, sali, e se non c’è posto, aspetti il prossimo aereo. Ci penso io, ha detto il Bistolfi, e in effetti ci ha pensato: due biglietti, Milano-Santo Domingo andata e ritorno, aperti, se c’è posto, sali, e se non c’è posto… Chon e Miche non gli hanno fatto neanche finire la solita raccomandazione, gli hanno mollato cinque bigliettoni in mano, hanno scaraventato in valigia ciabattine, magliette, un paio di braghe, corte, tanto là è sempre estate, e via. Due settimane da favola, loro che si trattavano come principi, e parecchie principesse ai loro servigi. Perché là, ad aspettarli, c’era il Ghislandi, antico pilone rhodense, rosso di pelo finché ne aveva, poi rosso di codino, rosso di barba e adesso rosso di Equatore perché la sua specialità è scottarsi, ustionarsi, ardere, ma senza mai l’effetto abbronzatura. Il Ghislandi gli ha dunque preparato un’accoglienza reale, o principesca, che va bene lo stesso: due tucul, nel senso del bungalow, uno ciascuno, perché se Chon russa, Miche è una locomotiva a vapore. In riva al mare. E un viavai di ragazze capaci di ricamare bugie senza farsene accorgere. E una macchina battezzata Tetanomobile, per via della carrozzeria a ruggine doc. Dopo un quarto d’ora, Chon ha giudicato inutile tutto tranne il paio di ciabattine e un asciugamano avvolto intorno alla vita: alle bugie ha risposto con altre bugie, la prima delle quali era la sua professione, lottatore di sumo, il che, dati l’uno e novanta in altezza, gli occhi a mandorla e la pancia ad air bag, ci poteva anche stare. Invece Miche si è tuffato in una full immersion di contatti ravvicinati del primo tipo, riemergendo da un antico oblio e riassaporando sensazioni avvolte da misteri e ricordi e ritrovando anche vigorosa prestanza. Si dice che in farmacie e bancarelle non si trovasse più neanche un flaconcino di quelli lì, ma Miche e Chon negano con fierezza. Una volta al dì appariva anche il premuroso Ghislandi, per assicurarsi che tutto filasse giusto. Fondatore di un’impresa edile mai decollata, il Ghislandi ha messo su una squadretta di rugby che, essendo l’unica nel raggio di cinquanta chilometri, si vanta del titolo di campione dominicano. Dopo tante preghiere, solo una volta Chon e Miche si sono concessi di andare a un allenamento: mentre i ragazzi si scaldavano, cosa stupida a quella latitudine, Chon e Miche si idratavano con cocktail, finché sono entrati in campo per la partitella finale, loro due contro tutti. E il bello è che è finita pari, tre mete a tre mete, con Chon e Miche implacabili, sempre in piedi, palla che non muore, gioco fino a dieci fasi. Niente terzo tempo, ma immediato rientro nei tucul, nel senso dei bungalow. Due settimane così. Poi il ritorno. Solo che, a quel punto, la bassa stagione era diventata alta, e gli aerei decollavano pieni, e i biglietti con la formula se c’è posto, sali, e se non c’è posto, aspetti il prossimo, si sono rivelati impotenti. Chon non se l’è presa: è pensionato. Ma Miche sì, un lavoro ce l’ha, e non ha mai tinteggiato come in questi ultimi tempi, Santo Domingo escluso. Perdipiù lo scambiavano per il protagonista di una soap opera locale, nel ruolo di un cattivo, così cattivo che tagliava la testa ai suoi rivali. E tutta quella gente che lo fermava per chiedergli un autografo o una foto-ricordo, e che prima accontentava sganasciandosi dalle risate e lisciandosi la barba profetica, adesso cominciava a rompergli un po’ i coglioni. La vacanza è così raddoppiata. Finché Miche, con un giro di telefonate oltreoceano, ha rimediato i soldi per acquistare altri due biglietti, prezzo stratosferico, ma di quelli che il posto è mio e me lo gestisco io.

«Murrayfield a parte, Edimburgo è una città bella e interessante: perfetta, se non ci fosse quel clima. Quando sei in centro, in qualsiasi parte ti trovi, se alzi gli occhi vedi il castello e, dietro, il cielo. Castello e cielo sempre sopra di te. E poi quell’aria che sa di terra e di mare. Si andrà a bere e si conoscerà della gente. Chi non ama i preliminari, dice: “Get your coat, love, you’re pulled”, che significa “prendi il cappotto, amore, ti ho beccato”, o qualcosa del genere. A volte funziona» (Caroline Devall).

 

 

SEVEN

Rugby giocato sette contro sette: nato come una sorta di intrattenimento, in Scozia, a Melrose, nel 1883. Melrose: per gli storici è la collina dove è sepolto Re Artù, per i letterati è la cittadina dove è nato Walter Scott, l’autore di Ivanhoe, per i rugbisti è la Betlemme del rugby a 7. L’inventore, si racconta, fu un certo Ned Haig, professione macellaio.

«Il rugby a sette si gioca su un campo e con un pallone di normali dimensioni con due squadre composte da tre avanti e quattro trequarti. Alle mischie prendono parte i tre avanti, tutti in prima linea. Nelle rimesse laterali i saltatori di solito sono due e il lancio viene effettuato dal tallonatore o dal mediano di mischia. Le partite durano 7 minuti per tempo con cambio di campo al termine della prima frazione di gioco (invece 10 minuti per tempo le finali dei tornei). Tutto si svolge nell’arco di una o due giornate. Il punteggio è identico a quello del rugby a XV. E identico è il regolamento di gioco» (Corrado Trame).

«Primi anni Settanta. Giovane allenatore, mi affidarono la guida di una specie di Nazionale giovanile al primo torneo di rugby a 7. Sette contro sette. Disciplina, a quei tempi, pressoché sconosciuta in Italia. Tant’è che, a parte le cose più ovvie, non ne sapevo nulla neppure io. Nel rugby a 7 si privilegia il possesso del pallone, e si va avanti solo quando si è certi dell’azione, quindi è indispensabile l’abilità nel trattare la palla, il passaggio, le finte, gli incroci… Ma fra cultura e pratica, il passo è gigantesco. Così chiamai David Williams, gallese, giocatore e allenatore del Parma, che del Seven ne sapeva più di noi. E insieme si fece un allenamento a Milano per organizzare la squadra. C’erano, fra gli altri, i miei due Bronzi di Riace: Pierluigi Camiscioni, detto il Principe per la delicatezza dei modi, e Giancarlo Micheloni, più barbaro di Conan. Destinazione: Inghilterra. Sede: ostello della gioventù di St. Paul Church. Preludio: Camiscioni che pretendeva il baciamano dagli altri giocatori, come si fa a un principe. Programma: due partite, una a XV contro il blasonato Rosslyn Park di Londra, terminata con un salomonico pareggio, e il torneo a 7. Invece di puntare sui trequarti, mi affidai alle mie due bestie. Che cancellarono in fretta le prediche sul gioco ragionato e ricamato, e puntarono sui consueti comportamenti animaleschi. “Il Miche”, per esempio: invece di attendere pazientemente la superiorità numerica, si lanciava furiosamente in un disperato uno contro quattro. Eppure quello che era esattamente il contrario della tattica studiata, cominciò a richiamare gente da tutto il club, rappresentò una nota di colore e suscitò la simpatia internazionale. Il giorno dopo, sui giornali, c’era scritto: “Quei folli italiani”. Inutile specificare che fummo sconfitti» (Lino Maffi).

 

 

SOGNO (dream, rêve)

Millennium. Non so mai se si scrive con una o con due n. Facciamo due. Usciamo dall’albergo a piedi, e a piedi arriviamo al Millennium. Se non ci sei mai stato, non te lo aspetti: troneggia in mezzo alla città, fra pub e palazzi, invisibile, poi giri l’angolo e ci sbatti contro. Immenso. Entro: corridoi, porte, gente, spogliatoio. Nello spogliatoio ci si potrebbe vivere, c’è tutto, anche una mezza piscina. Mi cambio, piego la mia roba, sono un tipo ordinato prima di andare a lavorare, figurarsi prima di giocare la partita della vita, indosso slip e pantaloncini, poi calze e scarpe, slacciate, infine la maglia. Per rispetto.

La numero 10, quella del mediano di apertura, regista e calciatore, va a «Pepe». La numero 9, quella del mediano di mischia, anima e testa, va a «Tronky». La numero 8, quella del terza centro, anima e cuore, va a Parisse. A me tocca la numero 14, ala. Mi tolgo le cuffie dell’iPod: le avevo su solo per darmi un tono, per isolarmi, le usavo come se fossero tappi, a me basta quello che sento dentro, dei sordi rintocchi di campane. Poi il riscaldamento, la concentrazione, la pipì, l’acqua. Ci chiamano. Mi metto fra «Bergamauro» e «Bergamirco», per sentirmi anch’io, in qualche modo, di quella famiglia lì: «Bergamarco».

Quando sei dentro al Millennium, due n, ormai credo che sia giusto così, sembra che ti possa crollare addosso da un momento all’altro. Ci eravamo già stati per l’allenamento di rifinitura, ma senza gente è un’altra cosa. Invece adesso la gente ti sta addosso: ti respira, ti chiama, ti tossisce, ti beve, ti appiccica gli occhi, ti appende i suoi dieci, venti, ottant’anni di rugby. Allora scatto, cambio passo e direzione, cerco di scrollarmi dalle gambe il peso di quei settantaduemilacinquecento spettatori. E prima che DeMarigny calci nei loro ventidue, mi dico, come a ogni partita: «Anche loro hanno due gambe e due braccia. Anche loro cagano e pisciano». La partita la facciamo noi: conquista dei palloni, conquista del terreno, metri, tenerli lì, non concedere spazi, lavorarli ai fianchi, prima o poi si aprirà una fessura. Succede alla mezz’ora. «Tronky» trasmette a «Pepe», «Pepe» finge di aprire a «Bergamirco», invece la dà a me, all’interno. I gallesi non se l’aspettavano. Evito una terza, mi si spalanca un’autostrada, e dietro c’è già Zaffiri, in sostegno. So che è Zaffiri, anche senza guardarlo, lo riconosco dal fiato: il giorno della partita non si lava mai i denti. Dice che aiuta a stordire gli avversari. Il fatto è che stordisce anche i compagni. Ho già volato per una ventina di metri, in apnea, come se fossi sott’acqua, o giù da un trampolino, con o senza sci, dai, non è questo il momento di sottilizzare. Fra me e i pali rimane solo Gareth Thomas, quello alto, capelli rossi finché ne aveva, adesso gli è rimasta solo la crapa pelata, rossiccia, e due tentacoli che vogliono stroncarmi la carriera o, come minimo, placcarmi. In una frazione carico sul piede sinistro e svolto a destra. Gareth si allunga, si tuffa, mi sfiora e… E qui, come al solito, mi sveglio. Sono le 6.45. Fra un quarto d’ora devo svegliare anche Viola. Fa la terza media e il suo primo quadrimestre è stato da Cucchiaio di legno.

«Da piccolo il mio sogno era giocare con gli All Blacks. Da grande ce l’ho quasi fatta: ci ho giocato contro» (Aaron Persico).

 

 

SOPRANNOMI (nicknames, surnommes)

Abbot: Hugh McLeod. L’abate. Pilone scozzese, 40 «caps» fra il 1954 e il 1962.

Anestesista: Sébastien Chabal, seconda e terza linea francese. Titolo onorario guadagnato quando, con un placcaggio, ha fatto svenire un All Black. Altri soprannomi: Attila, Rasputin, l’uomo delle caverne, l’uomo di Neanderthal, Orco.

Bayonne Express: Patrice Lagisquet, ala dei Bleus anni Ottanta. Veloce come un treno.

Banana: Angelo Visentin. Rovigo, anni Settanta, mediano di mischia.

Bear: Iain Milne. Pilone scozzese anni Ottanta, «orso» per la lunga carriera e la grande forza.

Bernie la Dingue: Bernard Laporte, da mediano di mischia a c.t. della Francia, fino a segretario di Stato per lo Sport. «Il pazzo» per una scenata fatta (e ripresa in tv) nell’intervallo di una partita contro l’Italia. Affettuosamente soprannominato anche «Kaiser» e «Eagle 4» (che in francese si legge «y gueule fort», più o meno «l’urlatore», quando allenava lo Stade Français).

Bestia di Béziers: Alain Esteve. Gigantesco, barbuto, crudele. Tallonatore francese. Bobby Windsor, collega gallese, racconta dei loro scontri: «Alla prima mischia sentivo che canticchiava “Bob-by, Bob-by”, poi mi rifilava un cazzotto in bocca. Allora io gli assestavo un calcio più forte che potessi. E lui mi ricambiava con un occhiolino».

Bimbo: Orazio Arancio, terza linea, da Catania alla conquista del mondo.

Boss: Ron O’Gara, mediano di apertura irlandese. Padrone del campo.

Broon frae Troon: Gordon Brown. Seconda linea scozzese anni Settanta, «nato a Troon».

Bull of Dax: Laurent Rodriguez, terza centro francese, quattro Cinque Nazioni e vicecampione del mondo nel 1987, poi allenatore anche in Italia. Taurino.

Calamity James: Butch James, apertura degli Springboks, grande grosso e cattivo. Non a caso detto anche Babyface Hitman, il killer dalla faccia da bambino.

Capitan Macello: Dave Gallaher, estremo e capitano degli Originals, la Nuova Zelanda della prima tournée europea nel 1905.

Casco d’oro: Jean-Pierre Rives, terza ala della Francia dal 1975 al 1984. Metteva la testa dove gli altri non osavano mettere i piedi.

Chiropratico: Brian Lima. Trequarti ala, poi centro, samoano. Placcaggi spaccaossa. Cinque Coppe del Mondo.

Chirurgo: Naas Botha, apertura e calciatore sudafricano anni Ottanta, due scudetti a Rovigo. Di una precisione, appunto, chirurgica.

Clamp: Allan Bateman. Pinza. Trequarti centro gallese, anni Novanta, placcatore.

Claw: Peter Clohessy. Artiglio. Pilone irlandese, anni Novanta. A Limerick è proprietario del pub «Claws» e della discoteca «The Sin Bin».

Compass: Dan Parks, apertura scozzese, detto Bussola per il senso dell’orientamento.

Dash: Bryan Habana. Sudafricano. I genitori forse speravano che diventasse un calciatore: infatti lo hanno battezzato Bryan in omaggio all’inglese Robson. Invece rugby, ala, rapido come una freccia («dash» come l’eroe degli Indistruttibili), ha sfidato sui 100 metri addirittura un giaguaro (ma ha perso).

Docteur Pack: Lucien Mias, seconda linea, 1,89 per 106 che a quei tempi (anni Cinquanta) facevano la differenza. Gli avversari sostenevano che Mias, da solo, valesse un’intera mischia. Il titolo di dottore era autentico: specialista in geriatria.

Ferdie: Willem Ferdinand van Rheede van Oudtshoorn Bergh, sudafricano, detentore del nome più lungo che si ricordi a livello internazionale. Seconda linea e numero 8, anni Trenta.

Fun Bus: Jason Leonard, inglese, pilone. «La prima volta che l’ho visto correre infagottato in una maglia rossa, mi è sembrato uno di quegli autobus di Londra a due piani» (Martin Bayfield).

Ginger Monster: Neil Jenkins, mediano di apertura e calciatore del Galles. Anni Novanta. Recordman di punti: 1049 in 87 «caps».

God: Brian O’Driscoll, trequarti centro irlandese, divino, modestia a parte.

Great white shark: John Jeffrey, terza ala scozzese, il grande squalo bianco, anche per via dei capelli candidi, 40 «caps» dal 1984 al 1991.

Growler: Andy Robinson, inglese, da terza ala (1988-1995) a c.t. (2004-2006) dei Tuttibianchi. «Growler» è l’equivalente del nostro «Ringhio».

Guinness: Jerry Collins, terza linea degli All Blacks. Tutto nero, con i capelli ossigenati: come una Guinness, appunto.

Guv’nor: Gerard Cholley. Il governatore, il più cattivo. Ex peso massimo, poi pilone della Francia, fine anni Settanta. Una volta fece fuori quattro scozzesi nello stesso match. «Oggi», sostiene, «nel rugby non esiste più la paura.»

Jurassic Pack: il soprannome affibbiato al pacchetto di mischia del Grenoble nella stagione 1992-1993, che puntava su centimetri e chili.

King: Barry John. Mediano di apertura gallese a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta: reale, a dire poco.

Lightning: Mark Regan, tallonatore inglese, ironicamente detto «il fulmine» perché non tirava mai il pallone in touche nello stesso modo.

London Bus: Roger Uttley, seconda e terza centro, inglese. Poi nello staff degli allenatori alla prima Coppa del Mondo. Poi insegnante di educazione fisica e ambasciatore ovale. Alto come un bus a due piani.

Lol: Lawrence Dallaglio, numero 8 dei London Wasps e dell’Inghilterra.

Lugger: Jack Manchester, terza ala, neozelandese, dalle grandi orecchie.

Maci: Mario Battaglini. Maci come Maciste. Il rugby a Rovigo.

Maradona del rugby: Juan Martin Hernandez, apertura ed estremo argentino. Piede d’oro, ma anche visione di gioco e coraggio da vendere. Detto anche «il Mago».

Massiccio centrale: Olivier Merle, seconda linea della Francia, 45 «caps» (1993-1997), 1,98 x 130, originario di Clermont Ferrand, che si trova appunto nel Massiccio centrale. Conosciuto anche come «l’uomo e mezzo».

Merve the swerve: Mervyn Davies, numero 8 gallese, 38 «caps» (1969-1976). La sterzata, lo scatto. Si fece crescere i mustacchi per apparire ancora più cattivo.

Mighty Mouse: Ian McLauchlan, scozzese, pilone, internazionale dal 1969 al 1979. Topo sì, ma potente.

Mister British Lions: Willie John McBride, seconda linea irlandese, che fece la sua prima tournée nel 1962 (Sud Africa), la seconda nel 1966 (Nuova Zelanda), la terza nel 1968 (Sud Africa), la quarta nel 1971 (Nuova Zelanda), la quinta come capitano nel 1974 (Sud Africa). Un totale di 17 test. Nel 1983 partecipò a una sesta tournée (Nuova Zelanda), stavolta come manager dei British Lions.

Mister Rugby: Danie Craven, sudafricano, che negli anni Trenta in quattro partite internazionali consecutive giocò in quattro diversi ruoli (centro, mediano di mischia, mediano di apertura e numero 8). Poi c.t., poi presidente federale, poi scuola di rugby, stadio e museo.

Monkey: Arthur Gould, gallese, centro ed estremo, fine Ottocento. Chiamato scimmia, perché durante Galles-Inghilterra, nel 1887, si arrampicò sui pali per cambiare la traversa.

Monsieur Drop: Pierre Albaladejo, francese, mediano di apertura, tre drop contro l’Irlanda nel 1960 (non li aveva fatti nessuno), nove drop in tre match del Challenge Du-Manoir, di cui quattro in finale contro Pau.

Nembo Kid: Salvatore Bonetti, bresciano, seconda e terza linea, anni Settanta.

Nobody: John Eales, seconda linea, capitano e calciatore dell’Australia, campione del mondo 1991 e 1999. Il soprannome è l’abbreviazione dell’espressione «nobody’s perfect», nessuno è perfetto. Sottinteso: ma Eales era quasi perfetto.

Noddy: Michael Lynagh, mediano di apertura e calciatore australiano, internazionale dal 1984 al 1995 (911 punti in 72 «caps») Ha giocato anche a Treviso. Detto «sciocco», ma solo per invidia.

Obé: diminutivo di Obelix, attribuito a Goderzi Chvelidze, pilone georgiano, giunto in Francia nel 1999 e ingaggiato dal Béziers.

Octopus: Herbert Gamlin, inglese, a cavallo fra Ottocento e Novecento. Più che braccia, sembrava avere tentacoli. Per l’Inghilterra giocava anche a cricket.

Oeuf et jambon: Robert Soro e Alban Moga, seconde linee della Francia tra il 1945 e il 1949. Il primo di Lourdes, il secondo di Begles, per tutti e due 21 «caps». Inseparabili come uova e prosciutto, anche se non si sa chi fosse uova e chi prosciutto.

Ollie: Nigel Redman. Seconda linea, nato in Galles, ha sempre giocato per l’Inghilterra ai Mondiali 1987 e 1991.

Paekakariki Express: Christian Cullen, estremo degli All Blacks, 58 «caps» e 46 mete, il treno che proviene da quell’impronunciabile luogo neozelandese.

Pelé del rugby: Serge Blanco, estremo della Francia, bianco di cognome, nero di pelle, fulmineo di gambe.

Peter Pan: Jean Gachassin, apertura, centro e ala dei Bleus negli anni Sessanta: piccolo e velocissimo. Detto anche Capitaine Crochet.

Petit Général: Pierre Berbizier, da mediano di mischia della Francia (1981-1991) a c.t. dell’Italia (2005-2007), taglia «small» ma autorità «extra large».

Pinetree: Colin Meads, seconda linea degli All Blacks (1957-1971), alto come un pino. E il pino è un’emblema, perché piantato dai coloni al loro arrivo sulle isole sud del Pacifico.

Pitbull: Brian Moore. Tallonatore inglese, 64 «caps» dal 1987 al 1995. Già lo sguardo era in cagnesco. Figurarsi il resto.

Razor: Scott Robertson, terza ala degli All Blacks (1998-2002). Detto «rasoio» per i suoi taglienti interventi difensivi.

Shaggy: Will Greenwood. Arruffato trequarti centro, inglese, 55 «caps» dal 1997 al 2004.

Uncle Fester: Keith Wood, tallonatore irlandese, rotondo e pelato, insomma bello come lo zio Fester della famiglia Addams.

 

 

SOSTITUZIONI (substitutions/replacements, substitution/remplacements)

Sono consentite sette sostituzioni per infortunio o per motivi tecnici.

Rimpiazzo è il giocatore che entra nell’area di gioco al posto di un compagno infortunato; sostituto è il giocatore che entra nell’area di gioco al posto di un compagno per motivi tecnici.

«Anche in panchina, io resto innanzitutto giocatore, un tutt’uno con i ragazzi sul terreno» (Franck Mesnel).

 

 

SPIRITO (spirit, spirite)

Il rugby è uno sport da mascalzoni giocato da gentiluomini.

«Che cosa significa che esci dal campo sorridendo? Hai perso!» (Dirigente dei London Welsh al capitano, 1911).

«Il rugby è una maniera di stare al mondo» (Sébastien Darbon).

«Il rugby è un po’ come le donne: si adorano ma non si capiscono» (Henry Broncan).

«Ogni giorno che arriva, qualunque faccia abbia, va vissuto» (Jonah Lomu).

«Il rugby non finisce all’ottantesimo minuto e nemmeno quando appendi le scarpe al chiodo. Il rugby è per tutta la vita» (Pablo Devoto).

«La crescita non è fatta solo di carezze» (Massimo Mascioletti).

«Il rugby permette ai bambini di diventare adulti più velocemente, e agli adulti di restare bambini più a lungo» (Jean-Pierre Rives).

«C’è un mio amico che, quando guarda il Tri-Nations, mette la tv in direzione emisfero Sud» (Gabriele Cabrio).

«Dopo l’annuncio della mia convocazione in Nazionale, mio padre al telefono mi ha detto: “Divertiti”» (Frédéric Michalak).

Il 16 dicembre 1989, cioè il giorno in cui si ritirò dalla scena internazionale, Mike Roberts, seconda linea del Galles e dei British Lions, si ricordò da dov’era venuto: London Welsh. E si propose di aiutare la squadra giovanile. La risposta fu entusiastica. E i London Welsh convocarono immediatamente Roberts per giocare con la Under 23. Roberts fece notare che era nato il 20 febbraio 1946, quindi aveva 43 anni. Ma gli risposero che quello che conta è lo spirito.

«Vero che nella vita ci sono altre cose oltre al rugby. Per esempio: il rugby» (Gabriele Cabrio).

«Il rugby era tutto, o quasi. Uno sport che ci ha insegnato e, soprattutto, segnato. Noi ci allenavamo e giocavamo al Carlini di Genova, detto anche lo stadio della nafta. Dall’esterno all’interno: velodromo, pista di atletica, campo da rugby. Be’, campo: terra brulla, dove i rari fili d’erba si sono sempre sentiti indesiderati. Quando cadevi, ti procuravi un’abrasione che ti avrebbe accompagnato, fedelmente, fino alla fine della stagione» (Umberto Conforto).

«Per noi gallesi, che si vinca o che si perda, il comandamento è sempre quello: “Va’ e corri”» (Alan Phillips).

«Conosco Martin Castrogiovanni da quando è venuto nel Leicester. Ottimo ragazzo, che si distingue anche come bevitore dopo le partite e per il suo “sense of humour”. Al Sei Nazioni, prima del match fra Italia e Inghilterra, mi ha inviato una messaggio fotografico sul telefonino: lui in maglia azzurra, con una faccia maledettamente seria. Il suo inglese non è granché, ma più o meno c’era scritto: “Guarda questa faccia, guarda questi colori, sabato ti ucciderò”. Ovviamente gli ho risposto. E vi giuro che sono stato molto più pesante di lui» (Martin Corry).

«Se non sai perdere con leggerezza e vincere con umiltà, è meglio che non giochi a rugby» (Jason Leonard).

«Se incontri le grandi, alla fine diventi una grande» (Georges Coste).

«Il “fighting spirit”? Francia-Irlanda 1977. Fui placcato da Slattery e dietro di lui arrivavano gli “indiani”: Keane, Duggan… Mi passarono sopra. E mi rialzai zebrato» (Jean-Claude Skrela).

Coppa del Mondo 2003, finale Australia-Inghilterra. George Gregan, mediano di mischia dell’Australia: «Non preoccuparti per Martin Johnson. Ricordati: più sono grossi, più cadono pesanti». Stephen Larkham, mediano di apertura dell’Australia: «Sì, lo so. Ma se cade su di me?»

«La semplicità è la cosa più complicata del mondo» (Pierre Berbizier).

«Mio padre me lo dice sempre: in campo bisogna avere l’omino dentro di sé, quello che ti dice cosa fare e quando farlo e come farlo. Se non ce l’hai, addio» (Matteo Mazzantini).

«I rugbisti sembrano duri, ma sono sensibili. Si commuovono quando entrano in campo, piangono quando ascoltano l’inno, singhiozzano quando perdono un match che pensavano di poter vincere» (Diego Dominguez).

«Non bisogna mostrarsi più orgogliosi che intelligenti» (Pierre Berbizier).

«Gli dissi: “Ragazzo, cos’hai? Ignoranza o apatia?” E lui: “Non lo so e non me ne frega niente”» (Robbie Deans a proposito di Caleb Ralph).

«Come dicono in Nuova Zelanda, il rugby è un modo – un po’ rude – di fare amicizia» (Arturo Sciavicco).

«In campo bisogna certe volte abbassare la testa, fuori bisogna sempre alzarla» (Sergio Parisse).

«Non so se il rugby sia uno sport di destra o di sinistra. Però so che ha valori universali» (Alessandro Troncon).

«Siamo persone normali che fanno uno sport speciale» (Marco Bortolami).

«Diciamoci la verità: qualche rugbista pirla puoi anche incontrarlo» (Gabriele Cabrio).

«Quando si è stati sportivi di alto livello, non si può più essere mediocri» (Thierry Lacroix).

«Io do per scontato che i rugbisti siano coraggiosi. Il coraggio è la base minima del nostro sport» (Georges Coste).

«Un avversario che ti ferma o che ti sfugge guadagna la tua ammirazione, il tuo rispetto. Sta facendo quello che vorresti fare tu, e quello in cui credi anche tu, meglio. Se non sei povero, povero dentro, lo accetti. E alla fine della partita ci vai a bere una birra insieme» (Sergio Parisse).

«La pressione è meglio averla nello stomaco che sulle spalle» (Philippe Saint-André).

«La paura fa parte degli sport dove esiste un contatto. Da noi è molto più che un contatto: è un impatto. Ma io non la chiamo paura. La chiamo timore. E il timore è una forma di rispetto. Bisogna avere timore: senza, sei vuoto. Però l’importante è trasformare il timore in concentrazione, applicazione, determinazione. Nel rugby è vietato sbagliare. Ogni sbaglio, ai livelli più alti, si paga caro: con una meta, con un calcio, con un infortunio. Il timore serve a non sbagliare e ad aiutare i compagni» (Mirco Bergamasco).

«Paura fisica: mai provata. Paura di non essere all’altezza della situazione, della responsabilità, delle aspettative mie e dei miei compagni: spesso. Per esempio a Twickenham, contro l’Inghilterra: erano due anni che non giocavo a quei livelli, e qualche dubbio l’avevo anch’io» (Alessandro Troncon).

 

 

SPOGLIATOIO (changing room, vestiaire)

«Il rugby è il più grande degli sport di squadra ed è quello che crea più personaggi. La penso così perché, ai tempi del rugby dilettantistico, quando entravi in uno spogliatoio, c’erano un sacco di persone di diversi lavori, origini e vite, ma le differenze sociali erano irrilevanti: eravamo tutti uguali. Oggi, con i giocatori professionisti, i videoanalisti e legioni di tecnici e allenatori, le cose sono cambiate, eppure ci sono ancora momenti di umorismo e passione» (Bill Beaumont).

«Lo spogliatoio è il miglior posto dove incontrare i migliori amici» (Jean-Pierre Rives).

«Lo spogliatoio è un po’ il nostro ufficio» (Christian Labit).

«Lo spogliatoio del rugby è dove ti togli gli abiti per avvicinarti all’umano» (Fabien Pelous).

John Coffey: da due anni non giocava più in Nazionale, ma il suo cuore sì. E il 28 marzo 1910, a Parigi, quando si fece vivo nello spogliatoio prima del match contro la Francia per fare gli auguri, gli dissero di cambiarsi: si era sentito male Albert Solomons, un avanti come lui. Coffey, che pure aveva appena mangiato e bevuto, si cambiò, entrò in campo e contribuì alla vittoria per 8-3.

«Ridere o piangere con i miei compagni nello spogliatoio. Per me è essenziale» (Sylvain Marconnet).

«Dopo qualunque partita, comunque fosse finita, andavo nello spogliatoio degli avversari, stringevo la mano al mio avversario e gli offrivo una birra» (Jason Leonard).

«Quando finisce la partita, il primo pensiero è per il mio avversario. Lo cerco, lo trovo, gli faccio i complimenti se li merita, gli stringo la mano comunque, gli dico anche grazie, o scusa, o prego, dipende. E tornato nello spogliatoio, ci cerchiamo un’altra volta. Di solito c’incontriamo a metà strada, con la maglia in mano, da scambiare» (Andrea Lo Cicero).

«Tournée in Australia, South Australia-Inghilterra, nel 1988. Al momento degli inni c’è una sola squadra in campo: South Australia. Bisogna sapere che, prima di giocare, Nigel “Ollie” Redman andava sempre in bagno. Solo che quel giorno ci ha messo un po’ di più, un po’ molto di più, e quando finalmente siamo usciti dallo spogliatoio, era già troppo tardi. Il nostro manager Geoff Cooke ci ha fermato mentre eravamo nel tunnel che porta in campo, e già suonavano le note di God Save The Queen» (Rory Underwood).

 

 

 

SQUADRA (team, équipe)

«Il rugby è il gioco di squadra per eccellenza, tant’è vero che si gioca in 15: 11 non bastano» (Carlo Checchinato).

«Meglio avere una grande squadra che un grande allenatore» (Gareth Edwards).

«Le squadre, dalla serie A in giù, sono fatte di gente che di giorno lavora e la sera si allena. Operai dello sport. Non so se la classe operaia vada in paradiso. Io cerco di farla andare in meta» (Andrea De Rossi).

«Una squadra è molto fragile. Ha delle individualità, degli stati d’animo, dei dubbi. Perciò bisogna fare di tutto perché rimanga unita» (Christophe Dominici).

«La gente deve capirci. Abbiamo bisogno di convivialità e di intimità» (Christophe Dominici).

«Will Carling non era universalmente amato dai suoi compagni di squadra. Una volta il suo club Harlequins giocò contro gli Wasps, e fu una partita molto robusta. Dopo una ruck bollente, dove volavano più calci che aerei in un aeroporto, a uno a uno tutti i giocatori si sollevarono dal fango fino a rivelare l’uomo in fondo alla pila di corpi. Era Carling. Aveva un enorme taglio sotto un occhio. L’arbitro, leggermente scioccato che la vittima di tanta criminalità fosse il capitano dell’Inghilterra, chiese: “Su, dai, chi è stato?” Immediatamente un compagno di Carling, Richard Langhorn, rispose: “Faccia lei, arbitro, potrebbe essere stato uno qualsiasi di noi 29”» (John Scally).

«Un giocatore di rugby ha sempre bisogno di 14 compagni. Il rugby è contro lo “star system”» (Mark Ella).

«Il medico che affianca lo spazzino comunale, il notaio che spalleggia il meccanico, il seminarista che passa il pallone al maestro. E conoscono questo gioioso miracolo di essere a loro volta diversi e insieme» (Antoine Blondin).

«Giocare da solo, anche se sei il più forte al mondo, è un errore. Chi gioca da solo va al massacro, e manda al massacro la propria squadra. Qui bisogna giocare insieme, e per giocare insieme bisogna vivere insieme, e per vivere insieme bisogna divertirsi insieme. È vincente la squadra che sta bene dentro e fuori dal campo» (Mirco Bergamasco).

«Il rugby è combattimento collettivo. Da soli siamo niente, insieme possiamo cambiare tante cose» (Pierre Berbizier).

«Il mio primo allenatore diceva che l’importante non è vincere, e neanche partecipare, ma divertirsi. Aveva ragione lui» (Paul Griffen).

«Quelle di rugby non sono squadre, sono popoli» (Diego Dominguez).

Mogliano Veneto, primi anni Settanta. Fuori dalla cancellata blu c’era un cesto. Niente basket, ma rugby. Prima di allenamenti e partite, in quel cesto si dovevano depositare manifesti e giornali, volantini e manganelli, megafoni e fionde. Finito l’allenamento, finita la partita, ognuno poteva riprendersi mezzi di informazione e intimidazione, e tornare al suo colore politico preferito. Ma nello spogliatoio, in campo e sotto la doccia: tutti uguali, tutti della stessa squadra.

«La prima volta al campo non c’è stato neanche bisogno di farci correre. I due più svegli mediani, i più magri e veloci trequarti, i più alti in seconda linea, gli altri in terza. Sono rimasti quelli tracagnotti, fra cui io: prima linea. Da allora sono cresciuto, ma non in altezza. Forse per colpa degli avversari: a incastrarsi e spingersi non ci si allunga, ma ci si allarga» (Jason Leonard).

«Una squadra di rugby prevede 15 giocatori: otto forti e attivi, due leggeri e astuti, quattro grandi e rapidi, e l’ultimo, modello di flemma e sangue freddo. È la proporzione ideale fra gli uomini» (Jean Giraudoux).

«Una volta quelli della mischia erano i ciccioni, i trequarti erano i fighetti. Adesso sono tutti degli atleti: veri, coraggiosi, formidabili. La squadra è come un solo uomo: gli avanti sono le braccia, i trequarti sono le gambe, i mediani sono la testa. Il mediano di mischia è più complice degli avanti, quello di apertura più dei trequarti» (Alessandro Troncon).

 

 

SQUALIFICA (disqualification, suspension)

«Volevo il finale perfetto. Ora ho imparato la parte più dura, alcune poesie che non fanno la rima, e alcuni racconti che non hanno un buon inizio, o una buona fine… La vita è non sapere, dover cambiare, prendere una decisione e dare il meglio senza sapere che cosa succederà dopo.» Questo recitava un’attrice americana, Gilda Radner. E mai avrei pensato che si sarebbe così legato anche alla mia vita. Perché adesso che ho 33 anni, un’età maledettamente simbolica, la mia vita cambierà. Sono stato squalificato a vita. La Commissione disciplinare dell’Erc, l’ente che organizza le coppe europee di rugby, mi ha squalificato a vita. Due mesi fa, il 21 gennaio, noi del Toulouse giocavamo contro l’Ulster per l’Heineken Cup, e io stavo facendo il riscaldamento durante la partita. Sono stato insultato da alcuni sostenitori dell’Ulster, ho perso la testa, sono salito sulle tribune e ho dato un pugno a un tifoso. Poi siamo stati divisi. Io sono tornato in campo, ho giocato, ho beccato anche un cartellino giallo, alla fine abbiamo vinto il match 28-13. La Federazione francese mi ha sospeso in via cautelare per due mesi, ma io ho preferito anticipare la decisione dell’Erc e ritirarmi prima del giudizio.

Di giudizio basta il mio: ho sbagliato, ma credo di avere tante attenuanti, fra cui la provocazione. Non solo quella ricevuta durante la partita, ma anche quella della sera prima dell’incontro, quando nel mio bar alcuni tifosi dell’Ulster hanno insultato mia madre e mi hanno anche tirato addosso della birra. Mi sarei ritirato comunque, alla fine del campionato. Ma mai avrei voluto un finale così. Irlandese, seconda linea, ho giocato nel Leinster, in Irlanda, e in Nazionale, poi a Toulouse, in Francia, per cinque anni. Cinque anni meravigliosi, in cui mi sono sentito parte di una città e di un club, e in cui abbiamo raggiunto tre finali delle coppe europee, vincendone due, e poi due finali del campionato francese, una semifinale e un quarto di finale europeo. Ho capito che cosa significa giocare davanti a 82.500 spettatori, come è successo a Parigi contro lo Stade Français, o davanti ai 19.500 dello Stade Ernest Wallon a Perpignan, in un’atmosfera da Carnevale di Rio tra ballerine e fuochi d’artificio. Ho capito che cosa significa fare il ventitreesimo uomo: allenarsi come gli altri, viaggiare come gli altri, entrare in campo come gli altri e poi andare a sedersi in tribuna. Ho capito che cosa significa mangiare un hot dog e bere una birra con Fabien Pelous, il capitano della Francia, e partecipare al pranzo di Natale a casa di William Servat nella casa della sua famiglia a Salies de Salat, ai piedi dei Pirenei. Ho capito che cosa significa essere fermato dalla polizia, ripassare eventuali infrazioni (cintura? allacciata; telefono? auricolare? patente? presente), e invece dover rispondere al perché di una sconfitta. Mi mancherà, il rugby» (Trevor Brennan).

 

 

STADI (stadiums, stades)

Il Battaglini di Rovigo: la statua di Maci, all’ingresso, tanto per farti cagare un po’ sotto, come se ce ne fosse bisogno, poi la carica dei bersaglieri quando le squadre entrano in campo, e, come se tutto questo non bastasse, quattro pali così alti da fare il solletico alle nuvole. Di Giuriati ce n’è due: il Giuriati vecchio, tribune coperte, sopra un lamierone che per superficie base per altezza deve ancora vantare il record del mondo, sotto la pista di atletica, in fondo le siepi e gli alberi dove ci si nasconde ai giri di campo, quando la nebbia cala, gli allenatori si calcano il cappellino, si rimboccano la giacca a vento e ripassano i sacramenti; e il Giuriati nuovo, i treni che vanno e vengono, i passeggeri che estraggono la testa dai finestrini, e si sentono in diritto di dire qualcosa, qualsiasi cosa, se dicono «alé Gimondi», pazienza, ma quando urlano «culatoni», gli piove addosso di tutto, anche se per la categoria dei culatoni, ci mancherebbe, massimo rispetto. A Lumezzane, più che il campo, si ricordano le sbarre di ferro sugli spalti e le reti a una spanna dalle linee di touche. Anche a Sondalo ci sono le reti, e se un pallone adeguatamente calciato supera la rete, va giù in fondo alla valle. A Genova c’è il Carlini, lo stadio della nafta, infatti una volta se ci cadevi su, sfrego uguale a sfregio, indelebile, inguaribile, per sempre. A Genova c’è anche Marassi, che sarebbe per il calcio, ma è anche per il rugby, con quel suo modo di echeggiare il tifo e gli impatti, così inglese. A Recco il campo è sotto il ponte dell’autostrada, là dove c’era la terra adesso c’è l’erba, il contrario della via Gluck. A Torino tutto intorno corre la pista del motovelodromo, e se chiudi gli occhi, vedi anche Coppi. A Frascati c’era la Lupa, un campo quasi scavato, da vertigini. E il Fontanarossa di Catania, lì ci respiri l’Africa. Adesso il Brianteo, a Monza: benvenuto fra noi ovali.

Carisbrook Stadium, a Dunedin, in Nuova Zelanda: soprannominato «House of Pain», la casa del dolore, negli anni Novanta dopo un massacrante allenamento diretto da Laurie Mains, ex c.t. degli All Blacks, alla rappresentativa della provincia.

«Lo Stade de France, a Parigi: una città dentro la città» (Aaron Persico).

«Twickenham, la nostra fortezza, il nostro giardino» (Lawrence Dallaglio).

«Edimburgo ha un’aria che sa di ponti levatoi, cornamusa e palloni ovali. Murrayfield: scendi dal pullman e senti quell’odore di fritto, quel profumo di terra, quegli aliti di birra» (Andrea De Rossi).

«Llanelli, in Galles. Cielo anglosassone e uno stadio, Stradey Park, 11.000 persone fra sedute e in piedi, tribune di legno e tappeto di erba» (Giambattista Croci).

«Dublino. La prima volta eravamo quattro pirla, la seconda in un migliaio, e a quel punto non ti sentivi neanche più un pirla, l’ultima volta eravamo in 5000, quasi un popolo. Il venerdì sera tutti a Temple Bar, 800 metri, è tutto lì: gente, pub, donne, si respira e si beve rugby. Alla prima pinta ti scopri contento, alla seconda capisci l’inglese parlato dagli irlandesi, alla terza capisci l’irlandese parlato dagli irlandesi, alla quarta capiresti anche l’irlandese parlato dagli inglesi, alla quinta è meglio smetterla altrimenti non capisci più niente, alla sesta non c’è donna che non ti sembri irresistibile. Poi Lansdowne Road: il più vecchio stadio al mondo. La prima partita internazionale nel 1878: Irlanda-Inghilterra, una meta e due calci a zero, per l’Inghilterra. Tribune in legno. Ti senti come in mezzo a un libro di storia. La prima volta, seduto in tribuna, soddisfatto come un pascià, a un certo momento sento il terremoto. Era il trenino che passava proprio sotto la tribuna» (Gaetano Palmiotto).

L’Arsenale, a Messina, era il terrore di chiunque ci andasse a giocare. Da una parte il mare, dall’altra un bruciatore, in mezzo il campo, ricavato in uno stabilimento destinato alla manutenzione, alla riparazione e alle modifiche di navi, proprietà della Marina Militare, ministero della Difesa, una strage di maiuscole. Di maiuscolo c’era anche la superficie del campo. Refrattaria all’erba, ospitava affettuosamente pietre e sassi. L’Arsenale era il terrore non tanto per gli ospiti: in fondo a loro toccava morirci solo una volta l’anno. L’Arsenale era il terrore per quelli costretti ad adottarlo come campo di casa: perché una domenica sì, e una no, lì ci lasciavano la pelle. Il terrore non veniva da pietre e sassi: il terrore non viene mai dalle cose che vedi, e nemmeno da quelle che vedi che ti fanno male. Il terrore viene da quelle che non vedi. Come il mercurio. Il giorno in cui fu fatto un prelievo, e poi un’analisi, le provette esplosero e l’Arsenale venne posto sotto controllo. In altre parole: chiuso per mercurio. Così il rugby emigrò in località Sperone, in un campo a metà con il baseball, dove da una parte c’è il mare, perché tutto, a Messina, da una parte ha il mare, e dall’altra c’è un ospedale dell’università. Come se ci fosse un nesso fra il rugby e l’ortopedia o la traumatologia. Ma il nesso esisteva, almeno per una mamma, preoccupatissima. Del rugby aveva sentito tutto il male possibile: botte, colpi, scontri, incidenti, infortuni. Un giorno andò al campo. Quando vide che, al di là dei pali, c’era l’ospedale, quasi svenne. Poi cominciò la partita. Alla fine l’allenatore di una di quelle bande di ragazzini le chiese: «Visto quanti ragazzini ha portato via l’ambulanza?» E lei: «Ma se non l’hanno neanche aperta». E lui: «E allora che cos’ha visto?» E lei: «Che si sono divertiti». Per lui, l’allenatore, fu come trionfare a Twickenham. Arturo Sciavicco, quell’allenatore lì, è il William Webb Ellis di Messina. Giocavano tutti a pallone, quello rotondo, finché un giorno provarono quello ovale. Il campo sembrava bombardato, anche se la Seconda guerra mondiale era finita ormai da otto anni. Fu amore a prima vista, e da allora Sciavicco non ha più tradito il rugby. All’inizio come giocatore. Mediano di mischia. Quello che comanda gli avanti, studia gli avversari, propone il gioco. Il suo primo istruttore fu il fratello Emilio, otto anni di più: sul comodino teneva un manuale di rugby – copertina gialla – della Sperling & Kupfer, e in camera gli mostrava come eseguire i placcaggi. La prima partita fu contro gli antesignani dell’Amatori Catania, una squadra formata da giocatori stagionati, forti e terribili. Il suo avversario diretto era Andrea Calì, un vecchio lupo che non aveva perso neanche uno dei suoi vizi. Il primo pallone vinto dalla mischia, Sciavicco lo aprì al largo con un tuffo. Magnifico. Ma a essere sinceri, ancora nessuno – lui per primo – sa dire con certezza se lo fece per abilità o per paura. Aveva quattro energumeni addosso. Poi si accorse che, ogni volta che apriva il gioco, invece di guadagnare terreno, lo si perdeva. Per forza: i trequarti si passavano il pallone stando fermi. Finì, era inevitabile, con una sconfitta: tanti a zero. Sciavicco ha fatto di tutto e di più. Giocatore, giocatore e allenatore, allenatore e accompagnatore, allenatore e dirigente, allenatore e segretario. Adesso la squadra si chiama Lions, è riservata solo agli Under 11, quando ci sono, Under 13 e Under 15. Il reclutamento Sciavicco lo fa fuori dalle scuole, con il rischio di essere sospettato di pedofilia. Il trasporto lo fa in proprio: siccome lui abita a sud, e lo Sperone è a nord, strada facendo tira su cinque ragazzini, anche sei o sette, e li accatasta uno sull’altro, nella sua Punto. La maglia è verde: non è il colore dell’Irlanda, ma quello delle loro tasche. Infatti: passione infinita, soldi zero. Ma fa niente. Perché, come giura William Webb Sciavicco, «il rugby è sofferenza, solidarietà, tenacia, insomma l’antitesi della società di oggi».

«Un giorno ci telefona Santino Granata, il segretario dell’Amatori Catania, quello che teneva la segreteria della società nella sua Fiat 500: “Vi mando una squadra di gallesi”. E mette giù. Neanche il tempo di organizzare la partita come si conviene. Anche perché quella non è una squadra qualsiasi, ma nientemeno che il Neath, campione del Galles, forte di diversi nazionali, maglia nera come gli All Blacks, prima degli All Blacks. Si dice che i neozelandesi abbiano adottato la maglia nera in onore di Dick Gordon, un giocatore del Neath, morto per le ferite riportate durante una partita nel 1880. Insomma, noi a Messina non abbiamo il tempo di chiedere il permesso di giocare al Celeste, il campo da calcio ottenuto per affrontare gli inglesi del Cambridge, così dobbiamo ospitare il Neath all’Arsenale, campo di patate senza neanche le patate. Il Neath arriva in pullman. In Galles, si sa, il rugby è una religione, e i giocatori, prima di una partita, anche quella contro il Clan Messina, osservano un silenzio – appunto – religioso. Concentrati, entrano nello spogliatoio per cambiarsi. Poi escono dallo spogliatoio per controllare il campo. Gente grande e grossa, facce da minatori, fisici da trattori: con i pantaloncini del numero 8 possiamo ricavare una muta di maglie per una delle nostre squadre giovanili. Giornata di scirocco, e la calce con cui abbiamo segnato le linee si spalma per il terreno. I gallesi camminano, considerano, valutano, infine sentenziano: “Impossible”. Impossibile cosa? “Impossible” giocare su un campo così conciato. Detto dai giocatori più duri e tosti di tutto il mondo ovale. Un dramma: il nostro orgoglio è ferito. Siccome c’è molta gente in tribuna, cerchiamo di salvare il salvabile e chiediamo almeno di trasformare la partita in un’esibizione. “Impossible.” Offriamo il rinfresco. “Possible.” I gallesi mangiano, bevono e risalgono sul pullman» (Arturo Sciavicco).

Nessun campo sarà mai come quello del Recco. È lì, all’autostrada. Una volta era una discarica, ci buttavano gli avanzi delle costruzioni, un viavai di camion. Un bel giorno, almeno per il rugby, un missionario in giacca e cravatta chiese al sindaco di far giocare quei ragazzi, tanto non facevano male a nessuno tranne che a loro stessi. Il missionario lo diceva con cognizione di causa: lavorava in un ospedale, reparto ortopedia, forse primario, e già immaginava l’incremento di distorsioni e fratture, lastre e gessi. Il sindaco disse sì: fino a quel momento lui era vissuto solo di pallanuoto, ma il rugby – a parte il pallone che gli sembrava un gigantesco dattero – l’aveva sempre considerato una pallanuoto senza nuoto, a secco, all’asciutto. Il tempo lo avrebbe costretto a rivedere la sua originaria idea. Per Recco fu comunque una rivoluzione, e non a caso era il 1968. Campo rettangolare, un lato lungo attaccato alla rampa che poi si attorciglia e sale fino al casello dell’autostrada, un lato corto lungo il fiumiciattolo che 360 giorni l’anno implora acqua, l’altro lato corto contro una parete nuda e cruda che dà le stesse vertigini di una cima dolomitica, l’altro lato lungo ritagliato fra le case. Campo di terra su discarica significava due cose: erba zero, pietre a migliaia. Che per trenta seguaci di William Webb Ellis non suona come un invito a tuffarsi in placcaggi e neppure in mete. Ma la vera caratteristica del campo di Recco era la sua capacità di trasformare una goccia in una pozzanghera e la pozzanghera in un’alluvione. Perciò il sindaco modificò il suo giudizio: il rugby è la pallanuoto, solo con regole leggermente diverse, date le dimensioni del campo e il numero dei partecipanti. Infine, con la scusa che «tanto sono rugbisti», come spogliatoio si usava una baracca. Così, la prima volta che Mauro Cafferata varcò la porta della baracca e si cambiò, dovette guadare il pavimento, poi salire in piedi sulla panchina e lì denudarsi e rivestirsi. In basso ristagnava mezzo metro di acqua, che sapeva di olio di camion, olio di canfora e olio di focaccia. Nei successivi trent’anni poco è cambiato: erba zero, pietre a migliaia, nonostante l’impegno dei trequarti che, aspettando che il pallone uscisse in qualche modo dalla mischia, ingannavano il tempo lanciando sassi oltre il recinto. Cinque punti se si faceva canestro nel fiumiciattolo che implora acqua, dieci se si superava il fiumiciattolo, trenta se si beccava qualcuno che camminava oltre il fiumiciattolo, tanto chi vuoi che si fermi a protestare o lamentarsi con quegli uomini a strisce orizzontali. Nel frattempo, solo gli spogliatoi sono migliorati: le baracche sono state sostituite prima dai capannoni dell’autostrada, giudicati inadeguati per sterratori e asfaltatori ma adattissimi per piloni ed estremi, poi da una sede completa di coppe e trofei, anche se la sua vera natura sta nel bar e nella cucina. Un bel giorno, almeno per il rugby, il Recco si è giocato la partita per salire in serie A. Derby, perdipiù, contro il Cus Genova. La meta decisiva non l’ha vista nessuno, perché per scaramanzia, o forse per paura, il popolo se n’era già andato al fiumiciattolo a contare i sassi. Oggi il campo di Recco continua a essere, per i giocatori del Recco, una fedele riproduzione di Twickenham, ma per tutti gli altri una dignità umana finalmente ce l’ha, e non soltanto nel bar e nella cucina: perché c’è l’erba, e ogni primavera si semina, si taglia, si bagna, finché nasce un bel tappeto verde; perché sotto l’erba è stato fissato un sistema di drenaggio; perché il Recco disputa il campionato di serie A; e perché a Recco giocano argentini e recchelini, sudafricani e genovesi, e l’allenatore è maori. Cafferata è diventato il presidente del Recco, e se ne ricorda anche se non ci fossero quelle dolenti ginocchia. Lui non vorrebbe dirlo, ma per proteggersi dalle pietre si fasciava le rotule e poi fissava le bende con una spilla da balia. Un bel giorno, non per il rugby, la spilla si aprì e Cafferata uscì. Era il campo di Recco.

 

 

STATUTO (status, statut)

Lo statuto del giovane rugbista: 1) Diritto al piacere: il rugby è il mio piacere e intendo che tutti lo rispettino. 2) Diritto alla salute: non sono una macchina per giocare. 3) Diritto a buone condizioni per la pratica: le mie esigenze materiali sono identiche a quelle dei grandi. 4) Diritto al rispetto: non turbatemi quando gioco. 5) Diritto alla differenza: non sono un campione, ma posso diventarlo. 6) Diritto a una formazione di qualità: vorrei educatori che mi capiscano e che mi aiutino a giocare meglio. 7) Diritto all’iniziativa: quando gioco, voglio essere libero nelle mie scelte e nelle mie decisioni. 8) Diritto alla competizione: voglio misurarmi con gli altri per progredire. 9) Diritto all’espressione: non fate tutto per me, posso anch’io fare delle proposte e partecipare attivamente alla vita della società. 10) Diritto alla responsabilità: ho anch’io sul campo, come nella vita di tutti i giorni, i miei obblighi. (Trofeo Topolino).

 

 

STILE (style, style)

È che a forza di spiegare che l’importante non è vincere ma finire la partita in attacco, a forza di giurare che l’arbitro ha sempre ragione, a forza di dire che più si rispetta l’avversario e più si cerca di farlo fuori, a forza di ripetere che alla fine del match la squadra che ha vinto corre verso l’uscita e poi forma un corridoio e applaude gli sconfitti, a forza di insistere sul terzo tempo in cui avversari e arbitro parlano della partita mangiandoci e bevendoci su, il comportamento leale e cavalleresco dei rugbisti rischia di diventare noioso. La verità è che tutto questo è vero, anche se per gli abitanti di Ovalia tutto questo è anche normale. Invece lo stile sta nel fare tutto questo ma senza prendersi mai troppo sul serio. Per esempio: nel rugby, si entra in campo di corsa, mordendo aria e terra. Per esaltarsi, e per esaltare. Così il popolo del rugby si esaltò quando, per Francia-Scozia nel Cinque Nazioni 1997, il pilone Christian Califano e il seconda linea Olivier Merle entrarono non correndo, ma volando. Nessuno però sapeva che una settimana prima, nello spogliatoio, Califano, divorata una banana, ne aveva tuffato la buccia nelle scarpe di Merle. Merle, un pezzo e mezzo d’uomo, 2 metri per 107 chili, soprannominato «Massiccio centrale», aveva due paia di scarpe: da allenamento e da partita. La buccia di banana stava in quelle da partita, e lì abitò per un’intera settimana, fermentando, prima che Merle calzasse la scarpa e s’impiastricciasse il piede e perdesse la ragione e cominciasse a inseguire Califano prima negli spogliatoi, poi nel sottopassaggio e infine sul campo. Oppure Glen Osborne, estremo degli All Blacks. Prima di un test-match contro la Francia, nel 1995, scambiò una bottiglietta di olio di canfora per una di integratori, cacciò giù tutto, poi entrò in campo, catturò il primo pallone alto del match, segnò tre mete e fu giudicato il migliore in campo. Oppure Irlanda-Inghilterra, a Lansdowne Road, nel 1985, 20 del primo tempo, touche, a quel tempo senza ascensore e senza regole, il mediano di mischia irlandese chiamò lo schema secondo un codice segreto che solo gli irlandesi conoscevano e che gli inglesi tentavano inutilmente di decifrare: «Verde, Limerick, Guinness, Beatles, Peter ­O’Toole, 2916». Mentre il tallonatore irlandese, adeguandosi al codice, si apprestava a lanciare il pallone fra le due linee, e mentre gli inglesi si chiedevano dove sarebbe stato lanciato stavolta il pallone, si sentì tuonare il seconda linea e saltatore irlandese Donal Lenihan: «Dio santo, ancora su di me».

 

 

STREAKING

Nudi alla meta. «Streaking»: spogliarello e poi corsa in mezzo al campo. Per esibirsi, per festeggiare, per entrare nella storia: se non quella del rugby, almeno quella della partita.

Il primo «streaker» fu un australiano, William O’Brien. Come palcoscenico scelse Twickenham, Inghilterra-Irlanda, il 16 febbraio 1974. Discretamente dotato, venne censurato da un poliziotto, che sacrificò il casco per coprirne le pudenda. La foto-ricordo è custodita al Rugby Club di Hallam Street, a Londra.

La «streaker» più applaudita fu Erika Roe, superdotata nella parte superiore. La «performance» della signorina fu all’intervallo del match Inghilterra-Australia, il 2 gennaio 1982, sempre a Twickenham. Meno celebrata la sua compagna d’avventura, Sarah Bennett: come carrozzeria il rapporto tra Sarah ed Erika era come tra un’utilitaria e una station-wagon.

Lo «streaker» più celebre del Regno Unito è Mark Roberts. Per lui si è mobilitato addirittura il Tribunale di Liverpool, che ha stabilito che le autorità non possono – come avrebbero invece voluto – impedire a Roberts di partecipare alle grandi competizioni sportive. Dopo uno «streaking» in Irlanda per la Ryder Cup, trofeo di golf tra Europa e Stati Uniti, ultima delle sue 380 corse nude per i campi di tutto il mondo, la polizia aveva chiesto di prendere un provvedimento contro di lui per comportamenti antisociali. Ma forse lo «streaking» non è poi così antisociale.

Il primo rugbista nudista è stato forse Edward Jackett, 13 volte nazionale inglese, estremo nel Leicester e nel Falmouth all’inizio del Novecento. Posava nudo come modello per pittori e scultori.

«Non sono contrario allo “streaking”. Dipende. Dipende da chi lo fa. Certe volte, diciamoci la verità, è uno spettacolo inaccettabile» (Zinzan Brooke).

«Ricordo due “streaking” mentre giocavo. In Nuova Zelanda nel 1991, e nella Coppa del Mondo 1999 contro la Romania. Donne, per fortuna» (John Eales).

«Bloemfontein, in Sud Africa. Western Province, dove giocavo io, contro Cheetahs. Sorpreso? Macché: scioccato. Lo “streaker” non solo entrò in campo, ma venne a placcare proprio me. Fu terribile» (Joel Stransky).

 

 

SUD AFRICA (South Africa, Afrique du Sud)

Philip Nel, capitano del Sud Africa nella tournée in Australia e Nuova Zelanda nel 1937, era un contadino. Per lui il problema non era giocare la partita, ma arrivare alla partita. Gli ci volevano 30 miglia, quasi cinquanta chilometri, per giungere a Greytown: e li faceva a cavallo. Poi altre 75 miglia, 120 chilometri, per raggiungere Pietermaritzburg: e almeno questi poteva permetterseli su un taxi. Quindi, finalmente, giocava per il club locale Collegians. La sera tornava indietro. Così si capisce perché, il giorno in cui decise di ritirarsi dal rugby, prese il suo paio di scarpe e lo gettò nell’Oceano Indiano. Probabilmente, non voleva avere ripensamenti.

Jack Van der Schyff sbagliò la trasformazione che avrebbe dato la vittoria al Sud Africa contro la Nuova Zelanda nel primo test della serie nel 1955. Non fu mai più convocato in Nazionale, e pazienza. Ma, minacciato, scappò di casa e diventò cacciatore di coccodrilli.

Springboks, la Nazionale sudafricana: significa «gazzelle». L’origine risale al 1906, quando il Sud Africa fece la sua prima tournée nelle Isole Britanniche. Quando i giornalisti chiesero se la squadra avesse un soprannome, il capitano Paul Roos inventò «Springboks».

Finale della Coppa del Mondo 1995. Nelson Mandela a François Pienaar, capitano degli Springboks, vincitori: «Avete fatto qualcosa di importante per il Paese». Pienaar a Mandela: «Non sarà mai così grande come quello che ha fatto lei, presidente».

«Non voglio essere soltanto uno Springbok. Voglio essere un grande Springbok» (Clyde Rathbone dopo aver guidato il Sud Africa Under 21 alla conquista della Coppa del Mondo 2002; poi si è trasferito e ha giocato per l’Australia).

 

 

SUPER 14

Il torneo delle province dell’emisfero Sud è nato nel 1986 con tre squadre neozelandesi, due australiane e la Nazionale delle Figi, è stato ribattezzato Super 6 nel 1992, è diventato Super 10 nel 1993 quando si sono aggiunte tre province sudafricane, Samoa e Tonga (ma non più Figi), quindi Super 12 nel 1996, infine Super 14. Tredici partite nella stagione regolare, poi le prime quattro si affrontano in due semifinali, quindi la finale secca sul campo della squadra meglio piazzata durante la stagione. Le squadre sono: Blues (Auckland, Nuova Zelanda), Brumbies (Canberra, Australia), Bulls (Pretoria, Sud Africa), Cheetahs (Bloemfontein, Sud Africa), Chiefs (Waikato, Nuova Zelanda), Crusaders (Christchurch, Nuova Zelanda), Force (Perth, Australia), Highlanders (Otago, Nuova Zelanda), Hurricanes (Wellington, Nuova Zelanda), Lions (Johannesburg, Sud Africa), Reds (Queensland, Australia), Sharks (Natal, Sud Africa), Stormers (Città del Capo, Sud Africa) e Waratahs (New South Wales, Australia).