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TALLONATORE (hooker, taloneur)

In prima linea, tra i due piloni. In mischia, quando si lega, sembra Cristo in croce fra i due ladroni.

Nelle mischie chiuse il tallonatore spinge indietro il pallone (tallona) verso il mediano di mischia perché poi la squadra possa attaccare. Nelle touche lancia il pallone tra le due linee di saltatori. Per tutto il resto è più una terza che un pilone.

«Il tallonatore è uno abituato agli urti. È uno che da piccolo, invece di andare a scuola, passava le mattine sugli autoscontri, che si innamora e quando scopre che la sua prima ragazza gli ha fatto le corna, corre ad affilarle a testate contro un albero come un giovane toro per usarle nella mischia» (Marco Paolini).

«Si può venire alla luce in un momento di blackout?» (Gabriele Cabrio).

 

 

TATTICA (tactics, tactique)

«Noi dobbiamo andare là per essere qua» (in un bar di Parigi).

«Prato rettangolare. Linee rette, dappertutto, orizzontalmente e verticalmente. Poi magari intorno c’è un’autostrada, o una ferrovia, o una stalla, o uno strapiombo, ma il campo è quello. Piatto, a volte coperto d’erba e margherite, a volte terra che non è terra, ma carta vetrata numero 10. Guarda meglio, guarda: di piatto c’è veramente poco. Lo vedi, lì, quello con la maglia numero 1, ecco, quella è una montagna, se stringi i denti e pedali la superi, ma guardati alle spalle quando sei in discesa e prega che chi ti sta dietro indossi i tuoi stessi colori. Altrimenti continua a stringere i denti, vola, se ci riesci, e fuggi, che ti conviene» (Maddy Emboli).

«Arrangiarsi o morire» (Hakkies Husselman).

«Oggi facciamo un riscaldamento corto ma breve» (in un bar di Parigi).

«Puttana, basta parlare di tattica e tecnica. Oggi si va là con la cattiveria e li si stronca» (anonimo).

«Una partita di rugby non si vince con la testa, ma con i coglioni» (in un bar di Parigi).

«Bisogna mettere il carro sui buoi» (anonimo).

 

 

TEMPO (time, temps de jeu)

Due tempi da 40 minuti ciascuno, più il recupero (per infortunio, sostituzione di abbigliamento, rimpiazzo e sostituzione dei giocatori, cartellini gialli e rossi, resoconto di un giudice di linea, intervento video) da effettuare nella stessa frazione di gioco. Ma non è sempre stato così. All’inizio non si parlava di tempo, così nella Rugby School si andava avanti anche fino a cinque giorni di gara. Altrimenti i due capitani si accordavano con l’arbitro per fissare un limite. Il primo match internazionale, Scozia-Inghilterra a Edimburgo nel 1871, si giocò in due tempi da 50 minuti. L’attuale regola è apparsa per la prima volta nel 1926.

«Il rugby non finisce all’ottantesimo minuto e nemmeno quando appendi le scarpe al chiodo. Il rugby è per tutta la vita» (Pablo Devoto).

«Più il livello di gioco sale, meno tempo c’è per ragionare, correre, passare e calciare» (Luciano Orquera).

«Il rugby va fiero del fatto di essere il gioco eterno» (Spiro Zavos).

 

 

TEMPO (weather, temps)

Si gioca con qualsiasi temperatura. La massima è stata registrata a Port Elizabeth, in Sud Africa, per Sud Africa-Isole Britanniche nel 1938: 33 gradi. Il match, ribattezzato «Tropical Test», fu vinto dai sudafricani 19-3. La minima risale a Romania-Francia, giocata a Bucarest, in Romania: 18 gradi sotto zero, e 16-12 per la Francia.

Si gioca con qualsiasi tempo, nel senso del meteo. Ma qualche partita è stata eccezionalmente rinviata o interrotta. Come Irlanda-Scozia, il 21 febbraio 1885 a Belfast, in Irlanda, interrotta dopo 25 minuti per una tempesta: la Scozia conduceva per una meta a zero. E come Stati Uniti-Francia, il 20 luglio 1991, a Colorado Springs: partita sospesa alla fine del primo tempo, quando la Francia conduceva 10-3, perché il tabellone era stato colpito da un fulmine.

Pioggia torrenziale per Nuova Zelanda-Scozia del 14 giugno 1974. La partita finì 24-0. Venne giù tanta di quell’acqua che nessuno dei 13 piazzati fu calciato in mezzo ai pali. E i calciatori erano due grandi specialisti come Joe Karam per la Nuova Zelanda e Andy Irvine per la Scozia.

Nebbia impenetrabile per Inghilterra-Galles a Bristol il 18 gennaio 1908: il match finì 28-18 per i gallesi, ma nessuno dei 25.000 spettatori riuscì a godersi le otto mete. A fine match, i gallesi tornarono nello spogliatoio e si concessero un bagno caldo, e solo a quel punto scoprirono che mancava un giocatore: Bert Winfield, l’estremo. Un dirigente tornò in campo e lo chiamò: Winfield, come per miracolo, apparve. Pensava che i suoi compagni fossero impegnati in un’azione in attacco, e lui presidiava la difesa.

Tournée dei Lions in Nuova Zelanda, nel 1977. Il trentaduesimo giorno Peter Wheeler scrive alla moglie, a casa: «Da quando siamo arrivati ha piovuto solo due volte. La prima per 21 giorni, la seconda per 11».

«Una partita di rugby giocata sotto la neve, su un campo pesante e con un freddo cane, è un po’ come la Parigi-Roubaix quando piove. Ha fascino da vendere» (Peter Freeman).

«Peccato, la pioggia cambia le condizioni meteorologiche della partita» (anonimo).

Freddo, vento e pioggia per Nuova Zelanda-Australia del 6 settembre 1913: il tempo era così brutto che la partita, vinta dagli All Blacks 30-5, fu disputata non in due tempi da 40 minuti, ma in quattro tempi da 20 minuti. Alla fine di ogni quarto i giocatori venivano assistiti con bevande calde e potevano cambiare gli indumenti di gioco bagnati con altri asciutti. E alla fine del match ai giornalisti fu concesso di fare la doccia calda insieme con i giocatori.

E chissà che tempo orribile ci dev’essere stato per trasformare il campo di Taranaki, in Nuova Zelanda, in un lago di fango. Era il 1977 quando i British Lions affrontarono Taranaki. Il mediano di mischia neozelandese, Dave Loveridge, s’infortunò seriamente al ginocchio, un’ambulanza entrò in campo ma s’impantanò. Ci vollero 18 minuti per tirarla fuori dalla melma. Buon per Loveridge, che ebbe più tempo per recuperare e così partecipare al terzo tempo.

«Trenta a zero a 10 minuti dalla fine. Non resta che la neve a salvarci dalla sconfitta. Trenta centimetri di neve e s’interrompe la partita» (anonimo).

 

 

TERZA LINEA (flanker, troisième ligne)

«Michael studia, lavora, e gioca a rugby. Ha gli occhi vivi, spumeggianti, è un bel ragazzone alto e piazzato, non lo conosco bene, ma a volte ci azzecco con le persone: a briglia sciolta riesce a dare il meglio di sé, ha un cuore enorme e la testa dura. In parole povere, è un avanti. Magari gioca 7 ma io, comunque, lo vedo benissimo come 8. Staremo a vedere» (Maddy Emboli).

Un giorno il pilone della squadra riserve del Sale, inglese, gli fa: «Mai giocato a rugby?» Colin Deans si trova a Sale per allenare la mischia, quindi per allenare anche questo pilone, e siccome Deans è scozzese, è capace di risparmiare anche sulle parole, e risponde: «Sì». «Per chi?» «Oh, per una squadretta in Scozia.». «Mai giocato in nessun’altra squadra?» «Ah sì, una rappresentativa.» «Cioè?» «La Scozia.» «Hai giocato nella Scozia? E quante presenze?» «Cinquantadue.» «Cinquantadue presenze?» Breve pausa, poi il pilone della squadra riserve del Sale azzarda, molto meno baldanzoso di un attimo prima, un’altra domanda: «Giocato anche per qualcun altro?» «British Lions.» Stavolta Deans sconfina dalla parsimonia scozzese e si permette di aggiungere: «Capitano».

Gli scozzesi sono fatti così, come Colin Deans, tallonatore. E come Derek White, seconda linea e terza centro. Chiamarsi White, bianco, per uno scozzese, dev’essere un bel dramma. Primo match nella storia del rugby: il 7 marzo 1871 al Raeburn Place di Edimburgo, i blu di Scozia contro i bianchi d’Inghilterra, e vittoria della Scozia. Primo torneo nella storia del rugby: la Calcutta Cup, dal 1879, fra i blu di Scozia e i bianchi d’Inghilterra. White è di Haddington, 29 chilometri da Edimburgo, dove si respirano touche, si bevono drop e, a volte, si mangiano anche mete. Il rugby lo prende alla larga: parte dal nuoto, per trasferirsi dalla piscina al campo ci mette una decina d’anni, comincia a giocare a 22 anni, il primo campionato invecchia in panchina, e non vede l’ora di debuttare, però poi quando finalmente debutta, non vede l’ora di tornare in panchina, la rimpiange, la rivede ospitale e sicura come una villeggiatura. «Le oscure arti del rugby», le sublima adesso, nel ricordo, ma allora era «come ficcarsi nel programma centrifuga di una lavatrice e non trovare il tasto “stop”». In Nazionale arriva a 24 anni, contro la Francia, e in terza linea s’incastra alla perfezione tra John Jeffrey e Fin Calder. Se JJ è «the white shark», «lo squalo bianco», Calder è una iena. E Derek è un’altra brutta bestia. Grande, grosso, e non sempre tranquillo. Scozia-Inghilterra, a Murrayfield, il pilone inglese Jeff Probyn si esibisce in un tip tap sulla schiena dello scozzese David Sole: a White toccategli tutto, ma non i compagni, così regola i conti, individua Probyn, spara un cazzotto, che arriva a segno. Ma invece di giustiziare Probyn, il cazzotto addormenta «lo squalo bianco». «Oops», gli fa, ed è tutto quello che fa per scusarsi. La storia non specifica se Probyn sia stato raggiunto da giustizia sommaria nella successiva azione.

Scozia-Inghilterra nel 1990, prima del match l’inglese Micky Skinner proclama che sarà una passeggiata: prima azione, pallone conquistato dalla Scozia, carrettino, una valanga che travolge la mischia inglese per una quindicina di metri e, a terra, difficile da distinguere dal terreno, c’è proprio Skinner. Mike Teague, numero 8 inglese, gli fa: «Pensi sempre che sia una passeggiata?» Ma Jeffrey, Calder e White, anche tutti e tre insieme, non sono nulla in confronto a Jim Telfer, il loro allenatore, l’allenatore della Scozia. Irlanda-Scozia, l’irlandese Brendan Mullin sguscia fra loro tre, e Telfer, che per Derek ha un debole, lo stende: «Il tuo corpo non ti appartiene, il tuo corpo appartiene alla Scozia, va’ fuori e sacrificalo». Partita dopo partita, White lo sacrifica. Viene ingaggiato dai London Scottish, prima divisione inglese. In una sola stagione gli mettono una placca metallica nello zigomo, tre ferri nella mandibola e otto chiodi in testa. Confessa: «Ero a Londra ad allenarmi. Pioveva così forte che dopo mezz’ora scappai via perché cominciavo ad arrugginirmi». Nel 1992 gioca la quarantunesima e ultima partita per la Scozia, stavolta contro il Galles. A 34 anni, è dura stabilire se cigoli di più la carrozzeria o la vita. «Non so se avessi più paura a dire a mia moglie che andavo a giocare a rugby o a dire all’allenatore della squadra che restavo a casa.»

 

 

TERZO TEMPO (after match, troisième mi-temps)

«Il terzo tempo, questa magnifica abitudine rugbistica, è qualcosa di sconosciuto da noi, eppure è una tradizione che rende questo sport così piacevole» (Ernesto «Che» Guevara).

«Il terzo tempo, cioè quando le due squadre e i direttori di gara si ritrovano alla fine del match a mangiare e bere insieme, è un momento magico. Nel Sei Nazioni è un banchetto ufficiale, in smoking, o in giacca e cravatta. In un torneo estivo è salsicce e birra. Ma è quello che caratterizza una società, un club, una partita. Non se ne può fare a meno» (Mirco Bergamasco).

«Una tranquilla pinta di birra, seguita da altre 17 pinte piuttosto rumorose» (Jason Leonard).

«Non ci sono i due tempi senza il terzo. L’ottanta per cento dei giocatori di rugby beve volentieri una birra. Oppure un bicchiere di vino. In allegria. Si crea lo spirito giusto. E finché è una birra, o due, o anche tre, non succede niente. Diciamo: reintegri. Se ne butti giù otto, la mattina dopo è meglio che fai un’ora di corsa per smaltirle. Se poi mandi giù anche il boccale…» (Sergio Parisse).

«La convivialità è un elemento fondamentale del rugby. Non ho l’impressione che vada sparendo, anche se ovviamente le cose cambiano. Le orge non sono più la ragione della nostra esistenza, ma per noi è sempre importante ritrovarci dopo le partite per bere insieme qualche birra. Essere a contatto con i compagni esisterà sempre nel nostro sport» (Sylvain Marconnet).

La Taverna Mamilio stava a Frascati e sovrastava la Fossa dei Leoni, un campo scavato, sepolto, sprofondato, come ci entravi eri già sotto di venti punti, e se ne uscivi vivo era un miracolo. Alla Taverna lavorava Raymond Bellingan, mediano di mischia sudafricano, che fra una maul e una ruck riempiva le botticelle di legno, allineava le bottiglie di Barola, con la a finale, e le circondava di Frascati classico. Classico perché, come recitava Romano Bonifazi, «con quattro vigne danno da beve a tutto er monno». Più nella Taverna che nella Fossa è cresciuta una generazione di leoni e beoni, insomma rugbisti, da «Nasone» Camilli a «Focone» Graziani, che prima si distinguevano nelle mischie e poi nelle cucine. Di Camilli si ricorda l’agnello brodettato con contorno di carciofi. Il terzo tempo si chiamava ancora «se vedemo dopo a beve», e si trattava di: fave fresche come antipasto, panini con la porchetta come primo e secondo, e quell’interminabile vino bianco. Se nel frattempo il pullman della squadra partiva per tornare a casa, tu potevi rimanere lì quanto volevi, anche una settimana, ci sarebbe sempre stato qualcuno disposto ad adottarti.

«Coppa del Mondo 2007, a Lione. Finita la partita, gli All Blacks hanno spalancato la porta del nostro spogliatoio: ciascuno di loro aveva una birra in mano per sé e un’altra birra per uno di noi» (David Penalva).

«Già giocare con gli All Blacks sembra incredibile. Figurarsi gli All Blacks che ti offrono da bere. Purtroppo sono astemio, e non bevo neanche la birra. Così Greg Somerville è tornato nel suo spogliatoio e si è ripresentato nel nostro con una bottiglia di acqua minerale. E finalmente abbiamo brindato» (Rui Cordeiro).

 

 

TEST-MATCH

Italia-Australia. «Dicesi test-match, in inglese, la partita ufficiale», sentenzia Cabrio. È in forma: la dieta è durata un paio di settimane, record personale eguagliato, poi ha ricominciato a mangiare e bere, ridere e sentenziare, e quello che nasconde sotto il dolcevita non è un pallone ovale, anche se gli assomiglia parecchio. Aggiunge: «Diconsi test-match, in italiano, due tipi di partite: la partita che si gioca con intelligenza, cioè con la testa, in inglese test; e la partita che si gioca con ignoranza, cioè con le testate, in inglese test». Al Flaminio saranno in ventiduemilacinquecento, qualche posto è vuoto, da Cabrio siamo in dodici e, volendo, e stringendo, ce ne potevano stare altrettanti. La differenza fra il Flaminio e il da Cabrio è che il terzo tempo, da Cabrio, si disputa prima del match, perché la digestione non è un problema. Solo roba leggera: cotechino e lenticchie, Barbera della casa, piatti di plastica e via andare, non prima di aver aperto un cassettino, quello sotto la tv, e lasciato una banconota, al buon cuore. Cabrio ricorda che «noi, il tensoplast, lo riciclavamo, la seconda volta che lo usi è meglio della prima perché ha i peli incorporati», segnala che «quello lì, in tribuna, con la Coca-Cola in mano fa fare brutta figura all’intero movimento rugbistico italiano», e annuncia che «stavolta ce la giocheremo». Un paio di anni fa i qui presenti erano tutti al Flaminio, di persona, dal vivo. Anche quella volta, all’inizio della partita, avevano proclamato che «stavolta ce la giocheremo». Invece, ammette Cabrio, «alla fine della partita siamo andati da Dondi, il presidente della Federazione italiana rugby, e gli abbiamo detto: “Bella squadra di merda”». Fine dei viaggi a Roma. L’Italia comincia bene, ha il possesso del pallone, e lo gestisce con furbizia, quasi con saggezza. Test-match, nel senso dell’intelligenza. Ramiro Pez cicca il primo calcio, poi comincia a mitragliarli in mezzo ai pali. Cabrio rammenta «l’argentino Pato Rodriguez, detto il Rato, quindici anni di galera sulla schiena», si augura che «il pilone australiano Al Baxter, quando penserà all’Italia, dovrà dire: “Oddio, che brutta roba”», si sbilancia sul mediano di mischia dell’Italia, Paul Griffen: «Se oggi si vince, mi faccio crescere le basette a scimitarra e i capelli a treccine come i suoi. E questo diventerà il primo elettrauto rasta di Milano», promette che «mentre crescono scimitarra e treccine, mi comprerò un disco di Bob Marley». Mauro Bergamasco placca anche l’implaccabile e Cabrio recita: «La mia idea di un buon placcaggio è quando la vittima si risveglia lungo i bordi del campo e sente rintronare nella sua testa i fischi di un treno». Fine primo tempo: 15-13 per gli azzurri. Cotechino e lenticchie superstiti vengono annientati. Inizio secondo tempo: Cabrio si lamenta con «mi hanno ciulato il posto, la touche e la donna», ma si riconcilia con la vita quando nota la somiglianza fra Carlos Nieto, pilone dell’Italia, e Santo, muratore di Milano: «Un duro, gira in canottiera anche d’inverno, e il giorno in cui abbiamo restaurato la taverna, è saltato sul tavolo e, ballando, ha dato una capocciata al soffitto. Non si è rotto la testa. Ha rotto il muro». Test-match, anche lui, Santo, nel senso dell’ignoranza. L’Australia avanza, penetra, segna una seconda meta. Cabrio capisce già come andrà a finire, ma sostiene che «un anno fa avremmo fatto acqua come neanche il Titanic» e, forse per esorcizzare, versa l’ultimo vino. Finché entra un cliente, una rarità a queste latitudini, ma la tentazione di lavorare e guadagnare viene abilmente respinta. «Torni fra un’ora», gli ordina Cabrio. Bastano venti minuti per chiudere la partita, gli altri quaranta servono per chiudere l’elettrauto. L’Australia segna una terza meta, di forza, di prepotenza, di sfondamento. Finisce 25-18, per l’Australia, neanche male. «Il rugby», enuncia Cabrio, «ha regole elementari.» Ce le spiegherà al prossimo test-match. Adesso ha fretta di sparire dalla circolazione.

 

 

 

TIFOSI (supporters, supporteurs)

«Secondo alcuni esperti, durante una partita di rugby i giocatori si danno così tante botte che i tifosi sugli spalti sono costretti, per solidarietà, a stare buoni e tranquilli» (Jacopo Fo).

«Mai visto la nostra squadra battere degli eroi nazionali ed essere così ben accolta» (David Campese, dopo che l’Australia aveva sconfitto la Nuova Zelanda a Wellington nel 1990).

Indossano la maglia della Nazionale, spessa e pesante di cotone alla vecchia maniera oppure aderentissima in un tessuto tecnologico adesivo ai palloni e repellente ai placcaggi, e pazienza se l’effetto speciale è quello di esaltare le maniglie dell’amore e se la sera, per estrarre la maglia, bisogna invocare l’aiuto anche dei vicini di casa. Intonano l’inno, a memoria, a gran voce, con tutta la voce, cantando anche la parte dell’orchestra, convinti che i loro decibel si trasformino in ruck e maul, in buchi e intercetti. Si prestano a parrucche mono, bi o tricolori, armature da gladiatori, tatuaggi maori, maquillage facciali, elmi galli, berretti e baschi, cilindri e bandane, e sotto il kilt niente. Sventolano bandiere e drappi, soffiano in trombe e megafoni, si sollevano sulla cresta dell’onda della hola, si abbracciano come se dovessero gettarsi – loro – nella mischia, s’incrociano come se dovessero lanciarsi – loro – in meta, si vibrano fendenti sulle spalle come se dovessero conquistare – loro – un centimetro di terra in più. Si capiscono senza bisogno di parlare la stessa lingua, perché il rugby è già una lingua comune, fatta di segni, gesti, finte e offerte. Si siedono uniti, stretti, vicini, mischiati, per allearsi o confrontarsi, per dichiararsi. Invadono le stazioni, irrompono nelle metropolitane, emergono negli autobus, tracimano dai pullman, colorano le piazze, circondano i bar, assediano lo stadio. Schiamazzano: non esiste sport dove i tifosi si avvicinino a un campo in un pellegrinaggio così allegro e musicale. Portano i bambini, e le bambine, come all’ultimo giorno di scuola, ci sono i vecchi, due o tre insieme come a una festa di reduci, si vedono coppie, lui e lei, lei e lui, per la mano, lui non si sente prigioniero, lei non sta facendo un sacrificio. Si accompagnano con cartelli per mostrare da dove arrivano: ma non sono città, sono rugby club. Perché sono orgogliosi della loro società e del loro Paese, della loro Nazionale e del loro sport. Sanno che il loro sport è diverso: per quel pallone che rimbalza leale o capriccioso, per il vento che c’è anche quando non c’è, per tutti quei rituali – dall’ingresso delle squadre fino al corridoio finale – necessari, indispensabili, doverosi. Vantano strane teorie, strane per chi ne è lontano e profano: l’arbitro non si fischia, l’arbitro non si discute, l’arbitro non conta, l’arbitro è lì perché è un missionario, la partita è un trattato di anatomia – testa, cuore e palle – l’importante è dare tutto, l’importante è il coraggio, l’importante è finire all’attacco anche se sei sotto di 100. E alla fine vedono, analizzano, interpretano, rievocano, scannerizzano, raccontano un match ciascuno alla sua maniera, come se trama e personaggi siano noti, definiti, individuati, ma poi il senso, il significato e soprattutto le ragioni appartengano a storie differenti. Perché ognuno ci mette dentro quello che ha, quello che si è portato dietro, quello che tornerà a fare l’indomani mattina. Ridono, scherzano, si commuovono, piangono. Esagerano, eccedono, allungano. Indugiano, aspettano. Respirano: aria, atmosfera, ambiente. Non tifano, non sono tifosi. Ma sostengono, supportano. E incitano. Incitano a favore, non contro. Incitano, citano, si eccitano. Incitano la propria squadra (è capitato con gli italiani, in Italia-Nuova Zelanda) anche quando, dopo un’ora, è sotto di 60 punti. Applaudono una squadra (è capitato per Namibia, Samoa, Portogallo, Georgia) che si oppone prima con i muscoli, poi con pelle e ossa, a un’altra che ha decenni di gioco e milioni di euro in più. E si esaltano per azioni che, in qualsiasi altro tempo e spazio procurerebbero anni di reclusione. Poi bevono, mangiano e bevono. Mangiano porchetta e porcherie, paninazzi, roba che alzi il colesterolo, forse perché una cena come si deve è stata fatta la sera prima quando la vigilia protegge illusioni e tensione. E bevono birra, poi ci saranno anche gli astemi e chi è in grado di riconoscere – al calice – l’annata di un Brunello o i gradi di un Barolo, ma la birra è un marchio di fabbrica, un codice d’onore, una parola di speranza e di esperanto, un rito iniziatico e per iniziati. È per questo che il divieto di vendita, e dunque acquisto e consumo, di alcolici non ha senso: come quadrare una porta di pallanuoto o una ruota di bicicletta. Sono grandi o grossi, biondi e mori, come tutti e dappertutto, ma c’è un genere che va di più: non tanto alti, piuttosto grassi e pelati, e con la pelle sul lattiginoso. A occhio, piloni. Quelli che stanno in prima linea, incastrano i capoccioni, radicano la pianta dei piedi formando trincee, e con il collo cercano di sollevare l’avversario. Gente, fuori dal campo, innocua, anzi, rassicurante, cui affidereste vostro figlio sicuri della sua incolumità, anche se con il sospetto che, solo in un paio d’ore, possa già assumere alcune di quelle caratteristiche morfologiche. Quel genere lì è proprio internazionale. Potrà variare in centimetri e chili, ma il prodotto non cambia, con quel bisogno di contatto fisico, mani braccia spalle ascelle, come risultato di una vita comunitaria, a volte chiusa e più spesso aperta, che loro sostengono sia poi una mischia. Adesso c’è chi pensa che, uscito dalla sua nicchia fatta di campanili e trattorie, evadendo dalla sua bolla familiare e gergale, questo mondo ovale venga travolto dalle violenze verbali e comportamentali di altri sport: arbitri processati, allenatori giubilati, giocatori velinizzati, tradizioni sepolte, e gente che va allo stadio per tifare e non per incitare. Ma forse no.

 

Australia, tournée della Scozia, nel 1992. Inni. «Oh, Flower of Scotland…» Doddie Weir, scozzese: «Guarda, non immaginano che cosa succederà dopo». E Carl Hogg: «Sono con te, Doddie». Ancora Weir: «Ci daremo dentro». E Hogg: «Ci puoi giurare, Doddie». L’inno continua. Weir: «Sarà la fine del mondo». E Hogg: «Li massacreremo, quei bastardi». A questo punto Weir s’insospettisce: «Ma di chi parli?» Hogg: «Quei bastardi australiani, li appiattiremo, li distruggeremo». C’è ancora l’inno. «Ma sei pazzo», dice Weir: «Sto parlando di quelle fighissime ragazze di fronte a noi».

 

 

TMO (television match officer)

Quando c’è un’azione di meta poco chiara, l’arbitro può invocare la prova televisiva: prima fa il segno della sospensione (time-out), poi con gli indici traccia un quadrato, simbolo di uno schermo. Un arbitro internazionale, collegato via radiolina in uno studio tv all’interno dello stadio, rivede l’azione alla moviola e comunica la sua decisione all’arbitro sul campo.

 

 

TOUCHE (line-out, touche)

Rimessa laterale del pallone: due linee di giocatori vengono disposte parallele alla linea di meta, in corrispondenza del punto in cui è uscito il pallone dal campo. Un giocatore della squadra che non ha causato la rimessa laterale lancia il pallone dalla linea di touche in mezzo alle due linee di giocatori.

Francia-All Blacks, nel 1977. Primo test-match, a Toulouse: il «pack de fer» francese annienta quello neozelandese. Secondo test-match, a Parigi. Una settimana per trovare una soluzione. L’idea è della sera prima del match: giocare le touche con due soli saltatori. La mattina dopo l’allenatore e le due seconde linee degli All Blacks lasciano l’hotel Lutetia e vanno nel giardino Boucicaut, e lì provano la rimessa. Il resto della squadra viene avvertito della novità solo nello spogliatoio. Sul campo gli All Blacks vincono tutte le proprie rimesse, e poi anche il match.

 

 

TOURNÉE

Tournée, alla francese, gli inglesi dicono tour, una volta erano considerate campagne.

La tournée più vittoriosa: Nuova Zelanda in Gran Bretagna e Francia nel 1924 e 1925, con 30 vittorie in 30 partite. Poi British Isles in Sud Africa nel 1891, con 19 vittorie in 19 partite. Ci fu anche un’altra vittoria, contro Stellenbosch, ma la partita non era ufficiale.

La tournée più lunga: Nuova Zelanda in Gran Bretagna e Australia nel 1888 e nel 1889, 21 mesi, con 74 partite, di cui 49 vinte, 5 pareggiate e 20 perse. Ma non è tutto. Perché se si contano anche le partite disputate prima di partire, il numero sale a 107 match, di cui 78 vinti, 6 pareggiati e 23 persi.

La tournée più strana: Gran Bretagna in Australia e Nuova Zelanda nel 1888. La squadra si cimentò in due sport (rugby e cricket) e tornò in patria senza il capitano.

Le tournée meno giocate: Australia in Gran Bretagna e Nuova Zelanda in Sud Africa nel 1939, con le squadre richiamate in patria per lo scoppio della Seconda guerra mondiale senza aver disputato neanche una partita.

La tournée peggio organizzata: quella dell’Irlanda, nel 1975, che prevedeva incontri in Nuova Zelanda e uno anche nelle Figi. Ma quando gli irlandesi giunsero nelle Figi, scoprirono che la Nazionale figiana si trovava in tournée in Australia.

La tournée più sfortunata: quella del club francese Saintes. Aveva previsto partite contro Sparta Praga, Brno e VSS Kosice nel 1974, ma fu fermato e respinto al confine con la Cecoslovacchia, perché i poliziotti pensavano che quelli non fossero rugbisti, ma delinquenti. Sulla via del ritorno, Saintes giocò contro Colmar e perse 87-6.

«Metà anni Ottanta. La mia squadra, il Noceto, organizza una trasferta anarchica a Londra: si sa quando si parte, si sa quando si torna, il resto è vago. Forse, si sussurra, c’è anche una partita. Il Noceto ha, come quasi tutte le società, pochi soldi, e quei pochi li investe nel viaggio in aereo. Arrivati a Londra, ci si disperde. La prima sera io e tre amici troviamo rifugio da una vecchia signora, gentilissima: bed and breakfast. Poi si parte. In testa abbiamo la Scozia: Inverness, Edimburgo, Lochness, prima in treno e poi in pullman, anche quelli rossi degli studenti, le notti passate a casa di ragazzi incontrati sulla strada, i paesaggi immersi nelle nebbie. Magnifico. Torniamo all’aeroporto di Londra miracolosamente in tempo per salire sull’aereo e tornare a Noceto. La partita, comunque, non esisteva» (Massimo Giovanelli).

 

 

 

TRASFORMAZIONE (conversion, transformation)

Calcio eseguito dopo una meta. Deve essere usato lo stesso pallone con cui si è segnata la meta. Il punto dove si effettua il calcio deve essere sulla perpendicolare al punto dove è stata segnata la meta. Il pallone può essere calciato piazzato a terra o di rimbalzo, come se fosse un drop. Per sostenere il pallone si possono usare supporti di plastica, sabbia o terra. Il calcio va fatto entro un minuto dall’arrivo del supporto. Se il pallone cade dal supporto, il calciatore può rimetterlo in posizione o calciarlo in drop, purché il pallone non sia finito in touche. Tutti i compagni del calciatore devono rimanere dietro al calciatore, tranne eventualmente il compagno che sostenga il pallone. Tutti gli avversari devono rimanere dietro la linea di meta e possono caricare quando il calciatore comincia la rincorsa, e possono anche saltare e impedire che il pallone passi sopra la traversa, ma senza essere sostenuti. In caso di infrazione, il calcio può essere ripetuto.

Argentina-Francia, a Mar del Plata, torneo Seven. Nel 1999. Trentamila spettatori. E i francesi stanno vincendo. I francesi segnano una meta all’ultimo minuto, alla bandierina: calciatore e arbitro si posizionano all’altezza dei 22, vicino alla linea di touche, quando vengono investiti da un lancio di frutta e verdura. «Signor arbitro», fa il francese, «che facciamo?» E l’arbitro, Chris White: «Io vado al centro del campo, tu tenti la trasformazione».

 

 

TREQUARTI (backs/threequarters, arrières/troisquarts)

Dal 9 al 15, dunque mediani compresi. Quelli che corrono. Quelli che hanno i pantaloncini puliti. Quelli che non si sporcano le mani, però i palloni li perdono.

«I giocatori della linea arretrata si chiamano così perché passano i trequarti della partita ad aspettare il pallone» (Alexander C. Rae).

«A nessun trequarti piace stare a ghiacciarsi le palle mentre quelli di mischia si prendono a craniate» (Gavin Hastings).

Quell’arbitro toscano che disse: giocare trequarti è come quando si comincia a limonare, giocare in mischia è starci dentro al caldo, arbitrare è come vedere la figa ma non poterla toccare.

 

Finita la partita, s’incamminò per Westgate Street, fino al Queen’s Hotel. In cima alla prima rampa di scale, sedia e tavolino: sulla sedia Eric Evans, il segretario della Federazione gallese, e sul tavolino un quadernetto nero aperto. «Nome!» gli intimò. «Morgan, signor Evans.» «Spese?» «Cinque scellini, signore. Due biglietti di andata e ritorno, Trebanog-Cardiff.» Evans chiuse il quadernetto nero e lo sbatté sul tavolino. «Bugiardo e imbroglione! Due e quattro l’andata, due e quattro il ritorno, totale quattro scellini e otto pence.» E gli allungò i soldi contati.

Quando Cliff Morgan arrivò a casa era mezzanotte. I suoi genitori erano ancora in piedi: volevano sapere tutto della sua prima partita in Nazionale, 3-3 contro l’Irlanda, e una prestazione che aveva regalato anni di vita ai sessantamila dell’Arms Park, e agli altri 2 milioni di gallesi. Invece la prima cosa che gli raccontò fu la questione delle spese. «Che pagliaccio!» esclamò suo padre: «Non ha senso». «Ehi, aspetta un momento», intervenne sua madre: «Due e quattro l’andata, due e quattro il ritorno, fa quattro e otto. Il signor Evans aveva ragione». E solo a quel punto si cominciò, finalmente, a parlare di rugby.

Quando nacque, il 7 aprile 1930, la più importante decisione della sua vita era già stata presa. Non riguardava il nome, Clifford, abbreviato per sempre in Cliff. Ma contemplava tutto il resto. Suo padre, Clifford senior, aveva detto no a una di quelle proposte che cambiano l’esistenza: un posto nel Tottenham, serie A inglese, calcio. A dire la verità lui ci sarebbe anche andato: «Vuoi mettere», cercava di far ragionare sua moglie Edna, «con la miniera, qui, nella Rhonda Valley». Fu proprio Edna a stopparlo, così come avrebbe stoppato 20 anni più tardi Cliff junior quando il club Wigan aveva ricoperto il tavolo della cucina con una tovaglia fatta di banconote, totale cinquemila sterline. Anche perché Wigan significava Rugby League, cioè rugby a XIII, un peccato, un’eresia, un sacrilegio per chi ha respirato solo carbone e rugby a XV. Cliff junior, appunto.

Il suo primo pallone era stato una pallina, da tennis, anche se la prendeva a calci. Contro il muro. Il migliore maestro. Il migliore almeno fino a quando Cliff non sbatté contro Ned Gribble: «Predicava l’amore, insegnava le buone maniere, curava lo stile. Tutto questo con un pallone ovale». Rugby. Ma il rugby non è solo amicizia e bon ton, il rugby è spirito e gioco. Un giorno, Tonyrefail Grammar School, il liceo classico frequentato da Cliff, contro Maestag Grammar School. Cliff, tallonatore, mise a segno un drop, ma Gribble era convinto che il suo ragazzo avrebbe potuto fare meta. Per punizione gli fece saltare tre partite, poi lo spostò ala, quindi centro, infine apertura. Solo molti anni più tardi Cliff osò chiedere a Gribble perché lo avesse sistemato all’ala. E Gribble: «Così potevi capire quanto facesse schifo giocare all’ala quando i mediani di apertura non la danno mai via». La palla, s’intende. E fu sempre Gribble a insegnargli come proteggersi dal traffico pesante degli avanti avversari. Morgan imparò tutto a memoria, e alla perfezione. Solo una volta subì un grave incidente: frattura della gamba, a Dublino. E neanche in quella circostanza uscì dal campo prima degli altri. Disse solo che non si era accorto di essersela rotta.

La formazione del Galles contro l’Irlanda venne data alla radio, con il notiziario delle 6 di sera. Morgan era sull’autobus che lo riportava dal college a casa. Più si avvicinava a casa, più si assiepavano persone lungo la strada, più sventolavano bandiere dalle finestre. Finché, alla fermata più vicina al 159 di Top Trebanog Road, l’autista si alzò dal sedile e gli strinse la mano. Quel 10 marzo 1951, a Cardiff, contro l’Irlanda, Cliff Morgan non aveva ancora 21 anni. Il benvenuto nel mondo del rugby internazionale, quindi nel paradiso dello sport, glielo diede Des O’Brien, numero 8 dell’Irlanda: «Congratulazioni, Cliff. E spero che tu abbia un’assicurazione sulla vita».

 

 

TRI-NATIONS

Torneo nato nel 1996 e riservato ad Australia, Nuova Zelanda e Sud Africa. Ogni squadra incontra le altre in casa e fuori, durante l’inverno boreale, cioè in luglio e agosto.

 

 

TRIPLE CROWN

Triplice corona: va alla Nazionale britannica che, in un torneo delle Sei Nazioni, batte le altre tre.