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ABBIGLIAMENTO (kit, équipement/tenue)

Scott Quinnell, a 18 anni, non vedeva l’ora di esordire in prima squadra, a Llanelli. Era in panchina, pronto a entrare in campo e dimostrare il suo valore. A un certo punto un compagno s’infortunò e Quinnell fu chiamato per sostituirlo. Il suo sogno si avverava. Si tolse la tuta e cominciò a correre, desideroso di tuffarsi nella battaglia. Ma si accorse subito che qualcosa non andava. Si guardò: calzettoni e scarpe erano ok, ma non aveva i pantaloncini. Vero che voleva dimostrare di avere le palle, ma non proprio così.

 

Maglia, calzoncini, mutande o slip o sospensori, calzettoni e scarpe. Maglia monocolore o a strisce, una volta. Maglia a sponsor, adesso. Numeri fissi per ruolo, compresi i panchinari. Guanti solo senza le dita, tipo ciclismo. Protezioni per bocca e denti (paradenti), testa (casco), spalle (per gli uomini) e torace (per le donne). Protezioni anche per le parti infortunate. I tacchetti possono essere lunghi fino a 21 millimetri: poi sono considerati pugnali.

Fra i più eleganti si ricorda Basil MacLear, trequarti irlandese: 11 «caps» in Nazionale tra il 1905 e il 1907, giocando sempre in guanti bianchi.

 

Pesante, di quel misto lana-cotone studiato per asciugare anche le pozzanghere profonde mezzo metro. Ricucita, con quella volonterosa approssimazione da pronto soccorso. E a strisce: orizzontali. Il segreto del successo era tutto lì: nelle strisce orizzontali. Perché le strisce verticali stanno al calcio, come quelle orizzontali stanno al rugby. Bianche e rosse, bianche e verdi, bianche e blu, rosse e blu, nere e verdi. Orizzontali come l’orizzonte, l’area di meta, la linea di meta e la meta, che del rugby è il senso.

La maglia da rugby si metteva un attimo prima che cominciasse la partita, e si restituiva un attimo prima, ma se si sguazzava nel fango, anche un attimo dopo la doccia. Fine. Un po’ perché se la portavi a casa, raramente la riportavi sul campo; un po’ perché così non ce n’erano mai abbastanza; un po’ perché era un simbolo, una reliquia, una sindone. Adesso la maglia da rugby continua a essere un simbolo, però da modo (di giocare, vivere, essere) è diventata di moda, da tempo regolamentare (due da 40 minuti, eccezionalmente supplementari) si è trasformata da tempo libero.

Nel frattempo, è successo che in strada si vedono le vecchie maglie a strisce orizzontali, e sui campi quelle riempite di nomi, sigle, acronimi e loghi, detti sponsor. Da abbondante si è fatta aderente, se non adesiva.

Poi c’è la maglia nera, tutta nera. Nel ciclismo distingueva gli ultimi in classifica al Giro d’Italia: Luigi Malabrocca, Sante Carollo, Nane Pinarello. Nel rugby i primi sul pianeta Terra: gli All Blacks.

«Un giocatore che indossa la maglia del Galles non ha paura di niente» (Alan Phillips).

Lettere sulle maglie al posto dei numeri. Una caratteristica del Leicester e del Bristol, in Inghilterra, e anche nel Galles fino al 1939. Si cominciava dall’estremo, con la lettera A.

«I giocatori di rugby hanno il numero sulla maglia perché non si possono sempre identificare dai denti» (sito Internet dello Stanford Women’s Rugby).

«Tolta la maglia, rimane l’uomo» (Doro Quaglio).

Gary Garibaldi giocava nel Cus Milano e inventò il trucco del calzettone. Quando il calciatore della squadra avversaria stava per rinviare il pallone dai 22, lui gli si metteva davanti, si genufletteva, fingeva di allacciarsi le scarpe oppure di tirarsi su i calzettoni, e mentre quello calciava, lui si alzava di scatto e cercava di intercettare il pallone.

I figiani giocavano a piedi nudi. Nel 1938, quando ricevettero la visita della Nazionale maori della Nuova Zelanda, furono obbligati a calzare le scarpe. Ma si racconta che all’intervallo della partita ne avessero già abbastanza della «cultura occidentale».

 

 

ALA (winger/wing, ailier)

Il primo ruolo: così fai meno danni. Poi il più solitario, il più lontano, il più infreddolito. Il più vicino alla touche, all’estremo, anche alla meta. E il più vicino alla gente. Questo, in trasferta, non è bello.

«Non ero predestinato a giocare a rugby, spesso mi dicevano che ero troppo piccolo e che non ce l’avrei mai fatta» (Christophe Dominici).

Posso andare a fare un giro? chiede, poi lo riporto, giura. Come fai a dirgli di no: il pulmino è del Colleferro, la sua società di rugby, è quello che serve per le trasferte, e lui è l’ala, anche secondo centro o estremo, comunque quello che in media fa una meta a partita, ed è pure straniero, se gli dici di no che figura ci facciamo. Va bene, va bene, però torna presto, ok, ok, torno presto. Passa un giorno, ne passano due, anzi tre, e quando stai per mobilitare amici e parenti, e tempestare commissariati e ospedali, eccolo lì, tranquillo e beato, con il pulmino. Ho fatto un giro, spiega. Frascati o Amsterdam, lui sta sul vago. Stasera c’è allenamento, gli dicono, tanto per dire qualcosa di concreto, più un appuntamento che una punizione, un tentativo di normalizzazione. Invece per lui era già una cosa normale, il prendere e andare: una volta è saltato su una Panda, e dall’Inghilterra è sbarcato in Francia, ha tirato diritto per visitare il museo di Toulouse-Lautrec ad Albi, poi, già che c’era, ha proseguito fino a Barcellona per incontrare degli amici. Marko Stanojevic era arrivato a Colleferro come fanno i laureati in cerca di un lavoro: aveva spedito il curriculum vitae a un po’ di club italiani, e l’unico che gli aveva risposto era stato proprio il Colleferro, patria del rugby più puro e duro, genuino, insomma ignorante. Appartamentino da solo, cucina divisa con due sudafricani e un inglese, oggi si dice pranzi etnici, ma la verità è che il cibo era un rischio, un’incognita, a volte anche una schifezza, così spesso il quartetto finiva per andare a pranzo in sede. Più il pulmino. E la serie B. E la voglia di guardarsi intorno: Frascati o Amsterdam, stando sul vago. Perché Marko ha quella voglia di guardarsi intorno, forse per ritrovare i cromosomi sparsi in Serbia (il papà, di Belgrado), Italia (la mamma, di Valle Agricola, vicino a Caserta) e Inghilterra (la scuola, a Warwick, vicino a Birmingham). Il papà e la mamma si sono conosciuti in Inghilterra: lui, Milan, studiava ingegneria meccanica alla Aston University, lei, Bruna, era in vacanza-studio: adesso gestiscono un albergo vicino a Stratford-upon-Avon, la Betlemme di Shakespeare. È stato a scuola che Marko ha cominciato a fare sport: a 15 anni giocava a pallone; a 16 saltava in lungo 6,50, il nono migliore in Inghilterra; a 17 sfrecciava i 100 metri in 107, però manuale; a 18 rincorreva quel pallone bislungo. Anche perché i suoi fratelli, Nicola e Alessandro, giocavano già a rugby: Nicola ala, Alessandro apertura, estremo o ala, e una volta tutti e tre hanno giocato insieme, nel Clavedon. E il rugby ha tutto: salti, lanci, corse, fratelli e, in più, i pulmini. Marko si è laureato in informatica, poi in lingue, italiano e francese, ma la specializzazione la sta facendo in rugby, ogni partita un esame, ogni esame una meta. A dire la verità, nella prima partita con la Nazionale italiana di mete ne ha segnate tre, e i portoghesi si sognano ancora quel pulmino a due gambe che, pallone in mano, si arresta solo quando giunge in area di meta. Lui racconta che non è sempre andata così. E ricorda quella partita giocata a Bristol contro l’Henley: il Bristol blasonato, l’Henley neopromosso, il Bristol professionistico, l’Henley dilettantistico, il Bristol allenamenti tutti i santi giorni, l’Henley due o tre volte la settimana, e alla fine l’Henley che batte il Bristol quasi a dimostrare che il rugby non è solo timbrare il cartellino, ma c’è molto di più, e quel molto di più si chiama spirito. Perché il rugby, spiega Stanojevic, è una forma d’arte, è quello che ognuno – piccolo o grande, alto o basso, forte o furbo – offre alla squadra, è un modo di esprimersi, a volte suona come un pezzo di jazz, a volte sembra un quadro futurista, a volte appare anche come una schifezza. Bisogna essere un po’ matti, come a Colleferro, un po’ rigorosi, come a Bristol, un po’ patriottici, come in Nazionale. Prima o poi, confida Marko, mi sveglierò da questo sogno, però intanto me lo godo.

 

Raccontano che, quando giocava a rugby, fosse un fulmine nel raccogliere il pallone vagante e guadagnare dieci metri, venti, l’area di meta avversaria. Raccontano che, quando giocava a rugby, detenesse il primato del mondo nei 2 metri, che insomma uno scatto come il suo non l’avesse neanche Ben Johnson con tutti gli annessi e connessi. Raccontano che, quando giocò contro il Comité des Alpes, francesi, veri, sgusciò fra tre avversari e volò in mezzo ai pali, più diavolo che angelo, perché anche i diavoli – fino a prova contraria – hanno le loro ali. E lui, il Carlo, era fior d’ala. Poi, però, smesso di giocare, ha rallentato l’andatura, ha frenato il ritmo, ha balbettato non solo gli scatti ma anche le iniziative, ha messo su pancia e pappagorgia, e alle volate ha cominciato a preferire i surplace. Barista, il Carlo adesso vanta il record universale nel caffè lungo. Perché lungo come il suo non ce n’è. Non è lungo: è eterno. Fra l’ordinazione e il servizio si galleggia dai cinque ai dieci minuti, ma se la giornata è di quelle giuste, può trascorrere perfino un intero pomeriggio. Dipende. Dipende innanzitutto dalla voglia, che nel Carlo, lo s’intuisce dal colpo d’occhio, il suo, vacilla fra lo zero e il sottozero. Dipende da cosa danno in tv, sport s’intende, rugby sempre al primo posto, adesso che danno anche le partite del Super 14, supersquadre neozelandesi, australiane e sudafricane, in ordine di preferenza, che se le danno a livelli stratosferici, ma anche calcio, e ciclismo, e MotoGP, e dardi, e biliardo, perché gli uomini, si sa, preferiscono le bionde, ma amano le sponde. Poi dipende dalla folla degli avventori, perché finché c’è un singolo cittadino che chiede un caffè per tirarsi un po’ su il morale o mandare giù un boccone amaro, e va beh, gli si può sempre dare una mano, ed eventualmente una tazzina. Ma quando arriva il gruppo di impiegati per il rituale caffè delle cinque di pomeriggio, non un bisogno, ma un’abitudine, come accendersi una sigaretta, come telefonare a casa e chiedere, come regolarsi le pellicine al pollice sinistro, allora il Carlo non ci sta, e fa melina. Il primo segreto è quello di non lavare le tazzine precedenti: lasciarle tutte lì, con accurata trascuratezza, sul bancone. A decine. Che fa paesaggio. Il secondo è quello di indugiare alla cassa: così chi arriva, devia immediatamente verso le macchinette automatiche, in fondo trattasi anche di opera sociale, quella del Carlo, altrimenti andrebbero in fallimento tutti i distributori. Il terzo è quello di indignarsi davanti alle richieste. Sì perché, spiega il Carlo rigorosamente fuori dall’orario di lavoro, che poi lavoro è una parola molto ma molto grossa e probabilmente inadatta almeno nel suo caso, non esiste più solo il caffè e basta. E su questo non gli si può dare torto. Le varianti viaggiano allegramente dal caffè normale al lungo, dall’americano al marocchino, dall’Hag al decaffeinato. E transit, sospira il Carlo. Ma poi: tazza piccola o tazza grande, tazza fredda o tazza calda, goccio di latte che non è macchiato di latte né tantomeno cappuccino, zucchero di canna o dolcificante, adesso c’è anche chi pretende la monodose di miele. Così capita che per ottanta centesimi ti chiedano un caffè normale, d’accordo, però in tazza grande, calda, con dolcificante, e un goccio di latte. A chi è rimasto male perché si aspettava di trovare un bon bon, un cioccolatino, un chicco di caffè autentico come si usa altrove, il Carlo ha ritirato tutto, come un croupier che rastrella fiches e speranze. Banco. Ma non è tutto. L’incauto avventore che si avventura nella sventurata richiesta di un toast, interrompe le operazioni per una buona mezz’ora: la salvezza per il Carlo, la fine delle trasmissioni per il resto della gentile clientela, la disperazione della cooperativa che gestisce il bar nonostante la «moviolitudine» del suo socio. L’altro giorno, per un Galles-All Blacks in differita, il Carlo è stato drastico. O pocketcoffee o a casa. E soldi contati, grazie.

 

 

ALL BLACKS

La Nazionale neozelandese. Il soprannome «Blacks» fu dato dal «Daily Mail» prima della partita contro il Northampton, il 28 settembre 1905; «All Blacks» fu dato sempre dal «Daily Mail», il 12 ottobre 1905, dopo che la Nuova Zelanda aveva demolito Hartlepool.

Gli All Blacks sono i primi in tutto. Lo sono stati anche nel salire su un aereo: era il 1947 e volarono da Auckland in Australia.

Per David Campese, «quando si gioca contro gli All Blacks, si gioca contro i più forti del mondo. Di solito raggiungono i più alti livelli di prestazione, e se non si può aspirare a quei vertici come squadra, si viene spazzati via. Semplicemente non c’è posto per chi non ha coraggio, fiducia o convinzione. Sinceramente non posso dire di aver mai visto una squadra neozelandese che non fosse all’altezza della situazione e della fama».

13 novembre 2005, Lansdowne Road di Dublino: Irlanda tritata 45-7 dalle riserve degli All Blacks. Il 14 novembre l’«Irish Times» scrive: «Ieri abbiamo visto il futuro. E fa paura».

«Degli orsi duri, pelosi e muscolosi. E stiamo parlando solo delle mogli dei giocatori neozelandesi» («The Guardian»).

«Tornato dalla mia prima tournée in Europa, ero al settimo cielo. Ma mio zio mi prese da parte e mi ammonì: “Ora non basta più che tu sia un All Black. Devi diventare un grande All Black”. Ed è quello che mi sono promesso di fare» (Richie McCaw).

Le tre P predicate da Charlie Saxton, apertura e poi manager degli All Blacks: Possession, Position, Pace, cioè possesso, posizione, avanzamento.

«Giocare contro gli All Blacks dev’essere come cadere dall’ottavo piano. Fino al primo, un attimo prima di spiaccicarti a terra, puoi sempre dire che va tutto bene» (Malkhaz Cheichvili).

«Devi pensare di giocare contro la Nuova Zelanda. Perché se pensi di giocare contro gli All Blacks, vieni schiacciato dal loro mito» (Pierre Berbizier).

«Gli All Blacks? Li fai giocare in bianco e loro sono fregati» (anonimo).

«Uomini migliori diventano All Blacks migliori» (Graham Henry).

Anche i Tuttineri hanno avuto il loro anno nero: il 1949. Su sei partite internazionali, quattro contro il Sud Africa e due contro l’Australia, collezionarono sei sconfitte. E in particolare c’è stato un giorno nero, anzi, nerissimo: il 3 settembre 1949. Quando la prima squadra perse contro il Sud Africa a Durban, e un altro XV perse contro l’Australia a Wellington.

«Dai, ragazzi, in fondo sono come noi: due gambe, due braccia e due teste» (anonimo).

Oil Blacks: la squadra dei neozelandesi che lavoravano su una piattaforma nel Mare del Nord.

«“Bastille Day”: il 14 luglio 1979, Nuova Zelanda-Francia. Una settimana prima gli All Blacks avevano stravinto. Ma quel giorno abbiamo dato spettacolo e ci siamo imposti per quattro mete a due. L’Eden Park di Auckland era in uno stato di grazia e ci riempì di applausi. Nella vittoria abbiamo ricevuto anche un’enorme lezione di umiltà. Perché quel giorno, a vincere, è stato il pubblico neozelandese. E Graham Mourie, il capitano degli All Blacks, non volle essere da meno: entrò nel nostro spogliatoio gridando: “Vive la France”» (Jean-Pierre Rives).

Vigilia di Inghilterra-Nuova Zelanda. Conferenza stampa. Giornalista: «Alcuni pensano che gli All Blacks siano invincibili. Questo la preoccupa?» Il capitano dell’Inghilterra: «Naturalmente sì. Se non possiamo vederli, come possiamo batterli?»

«In Portogallo il rugby è uno sport sconosciuto. La gente ragiona pensando al calcio. Se battiamo la Repubblica ceca, pensa che abbiamo compiuto un’impresa. Se perdiamo contro la Nuova Zelanda, crede che abbiamo fatto una figuraccia. Noi abbiamo perso 108-13, eppure è stato il più bel giorno della nostra vita ovale. A guardarli in tv, capisci che gli All Blacks sono di un’altra categoria, di un’altra dimensione. Ma solo sul campo ti accorgi che la cosa più impressionante non è la forza, ma la velocità: neanche il tempo di pensare un gesto, un’azione, uno schema, e l’hanno già fatto» (Miguel Portela).

«Prima della partita con il Portogallo, in tv, la gente pensava che gli uomini in nero non fossero gli All Blacks, ma quelli di un telefilm» (Rui Cordeiro).

 

 

ALLENAMENTI (training, entraînement)

«Sedici anni di rugby di prima classe. Fra palestra, campo e strada, tre allenamenti lunedì, tre martedì, tre mercoledì, uno giovedì, uno venerdì, sabato la partita, domenica bici o piscina per recuperare. Quello sulla strada era il mio allenamento preferito: di corsa da casa al pub e dal pub a casa. Al ritorno faticavo sempre un po’ di più» (Jason Leonard).

«Nel suo allevamento Colin Meads sceglieva due tra i più grossi pecoroni, se li caricava sulle spalle e scorrazzava su e giù per le colline, incurante del quintale e mezzo che si portava addosso» (Stu Wilson).

«Avevo capito che bisognava rinforzare il collo per la mischia. E allora tutti i giorni aprivo la porta della stalla a testate» (Mario Pozzebon).

«Il muscolo più importante del rugby è la testa» (Pierre Berbizier).

«Lunedì un allenamento, martedì e mercoledì due, cioè uno in palestra e uno sul campo, giovedì recupero, venerdì rifinitura, sabato la partita, domenica riposo. Bagni di ghiaccio dopo gli allenamenti più duri e dopo la partita. Importante anche l’allenamento mentale. Perché ci vogliono gambe, ma anche testa. Nel rugby è necessario avere cuore, ma è indispensabile possedere anche la mente. E un equilibrio particolare» (Sergio Parisse).

Controllare e penetrare (motto degli All Blacks).

«C’è chi si allena tranquillo tutta la settimana, chi va in tensione subito. Io tranquillo lunedì e martedì, concentrato il mercoledì, attento e intenso il venerdì, sabato mi sveglio e mi sento già dentro il match. Me ne accorgo fin dalla colazione: di solito c’è gente che parla e scherza, il sabato c’è un silenzio da fare a fette. È quello il momento in cui devi cercare dentro di te le forze per entrare in campo, e giocartela» (Sergio Parisse).

A mali estremi, estremi allenamenti. Come quella volta, era il 1980, in cui Eric Watson, allenatore degli All Blacks, fu costretto a intervenire per migliorare la manualità dei trequarti. E invece del pallone, gli fece usare un mattone. Il sistema funzionò. E gli All Blacks, per l’occasione ribattezzati All Bricks (tutti mattoni), batterono l’Australia 26-10.

«Mi hanno detto di fare un po’ di moto in bici. Ci ho provato, ma non andavo avanti» (Gabriele Cabrio).

«Dovrei allenarmi cinque volte la settimana, e qualche volta miracolosamente ci riesco. Ma ci sono settimane in cui di allenamenti non ne faccio neanche uno. Magari capita che, mentre sto per uscire di casa con la borsa già pronta, mi arriva un s.o.s.: “C’è una gallina che sta male”. E siccome sono un veterinario, addio allenamento» (Rui Cordeiro).

 

 

ALLENATORE (coach, entraîneur)

«Ai miei giocatori spiego che, prima di tutto, devono fare bene quello che sanno fare» (Pierre Berbizier).

«Clive Woodward aveva un sacco di idee. Quelle terribili le scartavamo, quelle buone le adattavamo, quelle grandi le usavamo» (Martin Johnson).

«I primi 10 minuti voglio un quarto d’ora di follia» (anonimo).

«Vengo dalla Catalogna francese, terra di campi e di sudore. Dalle mie parti i calli sulle mani si formano presto: nessuno ti regala nulla, tutto va conquistato. E ho sempre cercato di spiegare questo ai ragazzi: inseguendo un risultato, il lavoro non è mai troppo» (Georges Coste).

«Carwyn James: Carwyn il nome e James il cognome. Ma siccome James sembra un nome e Carwyn un cognome, insomma, dici Carwyn e sai subito chi è» (Doro Quaglio). «Veniva da un paese a una quindicina di chilometri da Llanelli: si scrive Cefneithin e non ho mai capito come si pronunci. Comunque in Galles» (Milto Baratella). «Era figlio di un minatore. Da quelle parti per campare non c’era altro che spingersi in un cunicolo sotto terra, attaccarsi a una vena di carbone e respirare quella merda per vent’anni. Se sopravvivevi, era un trionfo. Ma lui ce l’aveva fatta: prima professore, poi conferenziere, all’università. Anche del rugby era, a suo modo, un professore: giocatore, allenatore, commentatore» (Doro Quaglio). «Del rugby Carwyn sapeva tutto: un pozzo di scienza. Anzi, nel suo caso, una miniera. Come suo padre s’immergeva nelle viscere della terra per estrarre l’oro nero, così Carwyn si tuffava nel rugby per studiare mischie e touche, renderle perfette e vincenti. Il suo maggiore merito non era la genialità, rugbistica e non, ma la modestia: era lui ad allenare il Llanelli quando il Llanelli – un club – sconfisse gli All Blacks, ed era lui ad allenare i British and Irish Lions quando i British and Irish Lions vinsero la serie contro gli All Blacks in Nuova Zelanda» (Milto Baratella). «Insomma, Carwyn era la bestia nera dei bestioni neri» (Doro Quaglio). «A Rovigo rimase due anni: uno scudetto, nel 1978-1979. Ripeteva: “L’allenatore non conta niente, sono i giocatori a vincere le partite”. Però quella volta a Roma, quando la partita contro l’Olimpic si mise male, lui pescò dalla panchina Naudè, seconda linea sudafricano con un paio di costole incrinate, e ribaltò il match. E quella volta a Reggio Calabria, quando nello spogliatoio elencò i nomi dei 15 che andavano in campo, e tutti aspettavano i giocatori destinati alla panchina, ma nessuno aveva il coraggio di chiederglieli, ci pensò lui a stupire tutti: “Oggi niente panchina”. E quella volta da Papa Wojtyla, quando il presidente Ponzetti presentava i giocatori e poi “questo è il nostro allenatore”, lui disse “no, io sono il diavolo”. Ci fu un attimo di imbarazzo, poi Carwyn scoppiò a ridere, Wojtyla pure, e dietro tutti noi» (Milto Baratella). «Carwyn beveva. Gin tonic. In quantità industriali. Un giorno passammo a prenderlo io e Gisella, mia moglie. Ci aveva invitato a cena, ma aveva già bevuto. Me lo caricai sulle spalle, lo misi in macchina, si addormentò. Facemmo il giro della piazza. Lì si svegliò e ci chiese: “Piaciuta la cena?” E noi: “Magnifica, Carwyn”. Me lo caricai sulle spalle e lo misi a letto» (Doro Quaglio).

«Nel rugby ci sono quelli che portano il pallone e quelli che lo gestiscono. Bisogna saper valorizzare il ruolo ingrato di certi giocatori: per esempio quelli che conquistano, puliscono e mettono a disposizione il pallone. Così tutti si sentono investiti di una missione» (Bob Dwyer).

Fare bene una cosa, nella vita, è un trionfo. Farne tre, figurarsi. La prima, per Enrico Casella, è stata il rugby. Come succede a tutti, ci è arrivato da rifiuto. Non il suo rifiuto verso altri sport. Ma il rifiuto di altri sport verso di lui. Nel suo caso: la ginnastica. Il rugby cominciato al liceo, campionati studenteschi, giovanili del Brescia e poi, come dice lui, «quando si comincia con il rugby, non si finisce più». Bella squadra, la giovanile del Brescia. Trasferte in pullman, panino nella borsa mischiato a maglia, scarpe e calzettoni, poi darsele e prenderle. E un allenatore che veniva dal Galles: Roger Beard, pilone del Cardiff, eppure profeta di un gioco arioso e brioso, alla mano, divertente e spettacolare. Quando si poteva. Quando non si poteva, giù con la mischia: e lì lotta greco-romana, nel loro caso anche bresciana. Finito il campionato della giovanile, Beard chiede a Casella e ad altri tre di andare con lui in Galles: «Vi divertirete». Pontypridd, zona delle miniere, e delle ex miniere, che sono peggio delle miniere, perché non si estrae più carbone ma esistenze, ricordi, passato. Un amico di Beard mette a disposizione una roulotte nel giardino di una discoteca. «Beard ci veniva a prendere la mattina, ci portava o a nuotare in piscina o a sollevare i pesi, poi si andava in un club, ogni giorno uno diverso. Pontypridd, Cardiff, Llanelli, Neath… Allenamenti, partite, sane botte da orbi. Tutti al pub del club, dove ho conosciuto tutti i grandi giocatori del Galles, da Gareth Edwards a J.P.R. Williams. La sera seconda puntata nei pub dei club. La notte, per andare a dormire nella roulotte, bisognava passare per la discoteca. E quello era il momento più duro della giornata. Tornati a Brescia, primo allenamento della nuova stagione con i vecchi, loro appesantiti dall’estate, noi in forma come bestie. Cinque minuti e Salvatore Bonetti, che per noi era Nembo, ci ordina: “Piano, ragazzi, adesso andate a lavorare un po’ in fondo al campo, là, nell’area di meta”. La prima di campionato, a San Donà, esordio in serie A.» Da lì, più di cento partite. Ogni partita una storia. Quella volta a Reggio Calabria, quando Casella prende il pallone nei propri 22 e galoppa fino ai loro 22, qui fissa l’estremo e poi passa il pallone, meta, poi massacro in campo, assedio fuori, l’assalto dei picchiatori e la pelle salvata per miracolo. Quella volta a Padova, e in tv, quando il Brescia gioca la partita perfetta e batte il Petrarca, che era come la Juventus, perdipiù dei preti. Quella volta a Brescia, contro il Tarvisium, all’intervallo Beard dice solo: «Ragazzi, fatelo per me, fatemi capire che avete capito non come si gioca a rugby, ma che cos’è il rugby». E questi ragazzi tornano dentro, non hanno criniere ma ruggiscono, e vincono. Quella volta che a Calvisano, dopo l’amichevole, ci si ferma a mangiare e Casella fa fuori sette cotechini. Quella volta che, tornando a casa, più suonati dalla birra che non dal rugby, Loris Salsi va lungo, la sua Fulvia HF finisce dritto in un campo, lui esce e senza neanche essersi accorto di essere vivo per miracolo, inventa: «Belìn, ho forato». E quelle volte in cui Casella, prima di tornare a casa, passa un attimo in un reparto di ortopedia per aggiustare qualche ingranaggio: un legamento collaterale al ginocchio, un paio di costole, qualche punto qua e là, in testa, in bocca, all’arcata, tutta roba prevista. La seconda cosa di Casella è ingegneria nucleare, nel senso dell’università prima e di un lavoro poi. La terza è la ginnastica. Non più da atleta brocco, ma da allenatore di una libellula – si chiama Vanessa Ferrari – che ha già vinto tutto. Vanessa potrebbe giocare a rugby solo come bandierina, o come pallone, eppure ha tutto del rugbista: l’orgoglio e il piacere, il rispetto delle regole e delle avversarie. Casella glielo dice sempre: «Nella ginnastica non hai il gusto del contatto né l’aiuto di un sostegno come nel rugby. I sacrifici si fanno da soli. Per questo, forse, ci vuole più coraggio».

«Ci sono quattro cose che non ritornano mai: una freccia lanciata, il tempo passato, le parole pronunciate e le occasioni perdute» (Alan Jones).

«Mister, qual è il valore intrinseco della sua squadra?» «Il valore intrinseco della mia squadra è lo stesso che c’è su un campo umido.»

 

Ce l’aveva con loro. Non che gli avessero fatto qualcosa di particolare: in allenamento si tiravano indietro più o meno come tutti, in partita ci davano dentro più o meno come tutti, dopo la partita bevevano più o meno birra come tutti. A essere sinceri: uno beveva birra, ed era John Jeffrey, lo Squalo Bianco; gli altri due svariavano anche sul whisky, e si trattava di Jim Calder e Derek White. Eppure ce l’aveva con loro. Certe riunioni tecniche, per esempio: convocava la squadra in una stanza, e mentre parlava a tutti, fissava sempre loro tre. Un giorno Jeffrey, Calder e White, furbissimi, si divisero: invece di starsene seduti silenziosamente vicini, in fondo, si misero qua e là. Il risultato fu disastroso: perché alla fine della riunione, proprio quando i tre credevano ormai di averla fatta franca, lui li convocò subito – solo loro tre – per una riunione ristretta.

Jim Telfer è un orso, anche se il suo ufficio viene descritto come una conigliera. È vero che quei 30 metri quadrati sono ricavati nella pancia dello stadio di Murrayfield, a Edimburgo, ma dentro ci stanno sì e no gli otto del pacchetto di mischia, in piedi, appiccicati. Il resto è una scrivania, un tavolino ovale per il tè delle 5, ma nulla vieta di prenderlo anche alle 4 o alle 6, e una parete tappezzata di videocassette di partite. Stop. E della parete tappezzata di videocassette di partite ne potrebbe fare tranquillamente a meno. Perché il padre, il patriarca, il guru del rugby scozzese ha tutto lì, un po’ in testa e un po’, strano a dirsi trattandosi di un orso, nel cuore.

Comincia a giocare a rugby a 11 anni: mischia. Continua a giocare a rugby a scuola: un giorno suo padre, che non ha mai preso un pallone in mano, va a vederlo in una partita, e solo molti anni più tardi gli dirà che non era un granché. Se suo padre lo bocciò, i selezionatori lo promossero: a 23 anni il primo «cap», contro la Francia, a Murrayfield. La Francia era favorita, la Scozia vinse 10-0. Il secondo «cap» contro la Nuova Zelanda, erano gli All Blacks di Colin Meads, Wilson Whineray, Brian Lochore e Don Clarke. La Nuova Zelanda era favorita, la Scozia s’ingigantì, il match si rivelò perfetto: e si concluse 0-0. Capito il tipo?

Telfer è il tipo che «una volta nello spogliatoio si tenevano discorsi terrorizzanti, si rischiava di fare a cazzotti fra compagni. Bestemmie e lacrime. Adesso mi sono un po’ addolcito». Telfer è il tipo che «non sono mai stato amichevole con i giocatori, non ci sono mai andato a bere insieme. Una volta hanno provato a tirarmi giù i pantaloni e gettarli dal finestrino del pullman, ma dopo due o tre secondi hanno capito che non era quella la cosa giusta da fare». Telfer è il tipo che pensa che «rappresentare il proprio Paese è il massimo della vita, ma quando s’indossa la maglia della Scozia, bisogna sapere che la si ha solo in prestito. Quella maglia rappresenta tutti quelli che hanno giocato per la Scozia e tutti quelli che ci giocheranno». Telfer è il tipo che confida di «aver giocato e allenato grandi uomini, con cui avrei partecipato tranquillamente a qualsiasi battaglia». Telfer è il tipo che, stritolandoti la mano in segno di saluto, sentenzia: «Il rugby è per uomini di coraggio… e anche per uomini non di così grande coraggio».

Telfer è il tipo che se fosse nato a Parma, che se avesse giocato a Parma, che se avesse un ufficietto lì, al Lanfranchi, tra il bar e gli spogliatoi, ci starebbe proprio bene.

«Non c’è mai stato un allenatore per il quale mi sia svegliato, di notte, esclamando: “Straordinario”» (Jacques Fouroux).

«Se quello che hai fatto ieri ti sembra già così enorme, e non sei stato capace di fare grandi cose oggi, che cosa farai domani?» (Hakkies Husselman).

«Per vincere, bisogna batterli» (anonimo).

 

 

ARBITRO (referee/ref, arbitre)

«L’arbitro è un giocatore senza pallone» (Enzo Dornetti).

Non c’era. Una volta l’arbitro non c’era, non esisteva, non era previsto. Si giocava, e basta. In caso di discussioni, contestazioni, punti di vista diversi, ci pensavano i due capitani: parlavano, parlamentavano, si mettevano d’accordo, e il gioco ricominciava. Finché arrivò il giorno in cui due capitani si stancarono di giocare e arbitrare: fu così che nel 1869, nel college di Marlborough, in Inghilterra, apparvero i primi due arbitri, scelti dai due capitani. Nel 1874 la Rugby Union, cioè la Federazione inglese, ammise la figura dell’arbitro, ma solo se richiesto dalle due squadre, e l’arbitro si avvaleva della collaborazione di due guardalinee scelti dai capitani. Nel 1880 l’arbitro ricevette il potere di punire i trasgressori, e nel 1885 ricevette anche un fischietto per farsi sentire dai giocatori.

Un anno prima, nel 1884, esplose la prima polemica legata all’arbitraggio. A Blackheath si stava disputando Inghilterra-Scozia e l’arbitro irlandese George Scriven – che fino all’anno precedente era il capitano dell’Irlanda – dopo dieci minuti di discussioni, concesse una meta all’Inghilterra. Grazie alla trasformazione, gli inglesi si aggiudicarono il match. Gli scozzesi non si arresero e ricorsero alla giustizia in tutti i gradi. Solo che non era ancora stata inventata un’autorità competente a giudicare queste controversie. La inventarono e nacque l’International Board, la Federazione internazionale.

L’operato dell’arbitro è incontestabile: ogni volta che un giocatore protesta, la sua squadra perde dieci metri di terreno. La conquista del terreno è la chiave di una partita. Spesso per conquistare non dieci, ma un metro, si sputa sangue. Ecco una buona ragione per evitare manfrine e insulti.

L’arbitro dirige la gara: si occupa del sorteggio per la scelta del campo, del tempo di gioco, del punteggio, dell’ingresso e dell’uscita dal campo dei giocatori. Poi, ovviamente, arbitra. E fischia. Ma non fischia tutte le infrazioni. Un buon arbitro è quello che vede le infrazioni e ne tiene conto, ma lascia correre il gioco finché la squadra che ha subito l’infrazione, o il fallo, mantiene il possesso del pallone. Cioè: ha il vantaggio. È una regola decisiva. Il vantaggio ha lo scopo di rendere il gioco più continuo. E l’arbitro lo segnala. Se poi il vantaggio non si concretizza, perché il pallone viene recuperato dalla squadra che aveva commesso il fallo, allora l’arbitro deve fischiare e si ritorna sul punto dell’infrazione. Invece, se nel proseguire l’azione, è la squadra che sta sfruttando il vantaggio a commettere un fallo, si ritornerà sul punto della prima infrazione, sempre con il pallone per la squadra in attacco.

Un buon arbitro è quello che parla con i giocatori (ma i giocatori non possono parlare con lui, può farlo solo il capitano e per chiedere chiarimenti sull’interpretazione del gioco), e che li avverte se stanno commettendo fallo. Perché il rugby è come la medicina: meglio prevenire che intervenire.

Un buon arbitro è quello che corre ed è lì, o lì vicino all’azione. Un arbitro francese, Robert Calmet, era così vicino ai giocatori di un Inghilterra-Galles a Twickenham nel 1970, da rimanere coinvolto in una ruck e rompersi una gamba. Fu sostituito dal guardalinee Johnny Johnson. La partita prese un’altra piega: e l’Inghilterra, che vinceva 13-3, perse 13-17.

Un buon arbitro è quello che non tifa per una delle due squadre. Perché è successo anche questo. Nuova Zelanda-Sud Africa, nel 1937, a Wellington: L.E. Macassey fu fotografato mentre saltava di gioia quando il neozelandese David Trevathan mise a segno un drop e guidò gli All Blacks alla vittoria per 13-7. Trevathan e Macassey erano vicini di casa a Otago.

Un buon arbitro è quello che sa tornare anche su una propria decisione su consiglio dei guardalinee. La fece grossa l’inglese Adrian Stoop: nel 1921 mandò negli spogliatoi i protagonisti di East Midlands-Barbarians quattordici minuti prima della fine del match, salvo poi richiamarli in campo quando stavano già facendo la doccia. Oggi l’arbitro può chiedere il contributo del Tmo, cioè la prova tv: c’è un giudice, che rivede l’azione alla moviola, e poi comunica il suo verdetto all’arbitro attraverso una radiolina.

«Le colpe degli arbitri sono numerose come i cattivi rimbalzi del pallone. Ma si è mai visto qualcuno protestare con un pallone?» (anonimo).

Una delle regole non scritte del rugby è: non si vince e non si perde mai per colpa dell’arbitro. Non è mica vero, però tutti pensano: è andata così, amen. Con qualche eccezione. Galles-Nuova Zelanda all’Arms Park di Cardiff, 40.000 spettatori accanto al deposito delle locomotive, in un grigio e freddo 16 dicembre 1905: il Galles imbattuto da sei anni sfida i neozelandesi, gli Originals, ormai All Blacks, che nella loro prima tournée ufficiale – questa – hanno vinto 27 partite su 27. A 10 minuti dalla fine i Dragoni comandano 3-0 grazie alla meta di Teddy Morgan. La Nuova Zelanda carica, Bobby Deans apre una breccia e si tuffa in meta con un gallese avvinghiato alle caviglie. L’arbitro scozzese John Dewar Dallas, giacca cravatta e stivaletti con i lacci, è lontano e non vede che intanto Deans è stato trascinato indietro di 12 pollici, una trentina di centimetri. Niente meta. Il Galles vince, Dallas ha fretta di raggiungere la stazione, 200 metri che vola via, prende il treno per Londra e da lì, con un notturno, a Edimburgo. È Deans a non avere fretta: raccoglie testimonianze dei compagni, si racconta che alcuni gallesi sarebbero pronti a dire la verità. Tre anni dopo un’appendicite si porta via Deans. Ha 24 anni e un chiodo fisso. Sul letto di morte, Deans chiama i familiari e giura: «Quella era meta». L’esatto contrario di ciò che sostiene Dallas, quando giunge anche lui ai saluti finali: «Mi dispiace, ma quella non era meta». È solo un secolo più tardi che da una scatola arrugginita del Museo della guerra di Auckland spunta il diario di George Dixon, manager degli Originals. Dixon descrive l’azione della meta: è stato Rhys Gabe a trascinare Deans fuori dall’area di meta. E ora Bobby può riposare in pace. Per sempre.

«Un arbitro può fare o rovinare una partita. Un arbitro rumoroso la rovina sempre» (cena degli arbitri a Londra, 1928).

«Un arbitro di rugby muore e va in paradiso. San Pietro lo ferma ai cancelli del cielo, e gli spiega che solo gli uomini coraggiosi, che hanno compiuto gesta eroiche e dimostrato coraggio nelle loro azioni, possono entrare. Se l’arbitro può descrivere una situazione, nella sua vita, in cui ha rivelato queste caratteristiche, ha il permesso di entrare. “Be’”, dice l’arbitro, “stavo dirigendo una partita fra Inghilterra e Australia a Twickenham. L’Australia era quattro punti avanti, e mancava un minuto. L’ala dell’Inghilterra ha fatto un buco, poi ha passato la palla al seconda linea, il seconda ha passato la palla al suo terza ala, che è sopravvissuto a vari placcaggi e si è lanciato verso la bandierina. In verità, il terza ala ha perso il pallone prima di schiacciarlo in meta, ma l’Inghilterra era certamente la squadra che aveva giocato meglio per tutta la partita, così io ho stabilito che l’inglese aveva appoggiato l’ovale a terra e ho convalidato la meta.” “Ok”, fa San Pietro, “sei stato molto coraggioso, ma devo controllare sui libri che quello che mi hai raccontato è vero.” Quando ricompare, San Pietro dice: “Mi dispiace, non se ne parla da nessuna parte. Mi puoi aiutare a trovarne traccia? Quando è successo?” L’arbitro guarda l’orologio: “Quarantacinque secondi fa”» (Iain Balshaw).

C’è stato un arbitro che ha espulso se stesso. Era il 15 settembre 1985 e George Crawford dirigeva Bristol-Newport: scoppiò una rissa e Crawford, indignato e impotente, se ne tornò nello spogliatoio. I giocatori non si persero d’animo: fra gli spettatori fu trovato un arbitro, con cui si riprese il gioco.

«Arbitro: Piazza di Monza. Di mestiere faceva “il menamerda”, nel senso che puliva le fogne. Non proprio lui: era a capo di un’azienda. Prima aveva anche giocato, seconda e terza linea, una bella bestia. Diceva di essere sordo. Dunque, a Rho, Rho-Feltre. Uno del Feltre rompe l’anima, protesta continuamente, insulta anche, e Piazza concede solo qualche calcio. Noi sorpresi: forse è vero, ci dicevamo, è sordo e non sente quello che gli dice. Finita la partita, Piazza va verso quel giocatore e gli fa: “Adesso non sono più l’arbitro”. E giù botte. E non solo noi, ma anche quelli del Feltre che appoggiano l’iniziativa: “Te lo meriti”» (Lino Maffi).

«Un arbitro non dovrebbe prendersi troppo sul serio. Come Bruno Tavelli da Piacenza. Un giorno gli dicevano di tutto: da “figlio di…” a “vieni a pescare con noi…” Ma quando gli urlarono “figlio di un sottosegretario democristiano”, lui si spazientì, fischiò la fine della partita e fece per andarsene. Poi ricominciò ad arbitrare» (Lino Maffi).

«Un giovane impiegato di banca aveva un colloquio di lavoro a Wellington, in Nuova Zelanda. Il manager della banca, presidente anche di un club locale di rugby, gli disse: “Abbiamo bisogno di un mediano di mischia con coraggio e di un paio di mani forte come le tue”. “Mi dispiace signore”, rispose il giovanotto, “non so nulla di rugby.” “Fa niente. Abbiamo bisogno anche di arbitri”» (John Scally).

«Chi arbitra oggi? domandò. Glielo dissi. Allora abbiamo già perso, commentò, perché quell’arbitro è un amico, avrà paura di favorirci e così non ce ne fischierà una a favore. Vincemmo sudando sette camicie contro una squadra che meritava 50 punti» (Massimo Gallo).

«Il rugby (come altri giochi di squadra) era partito senza arbitri, adesso siamo a sette. Più telecamere varie e marchingegni tecnologici a volontà. Perché? Non è, forse, il rugby, lo sport della lealtà, della correttezza, dell’educazione, di quanto siamo diversi eccetera eccetera?» (Luciano Ravagnani).

«Mi piacerebbe che la partita di calcio fosse più simile a quella di rugby, dove si può parlare con l’arbitro» (Thierry Henry).

 

 

ARGENTINA (Argentina, Argentine)

«Un rugbista argentino è un italiano che parla spagnolo e sogna di essere inglese» (Jean Lacouture).

«Non pretendiamo di vedere un campo di rugby in ogni villaggio argentino. Conosciamo i pericoli legati alla diffusione esagerata di uno sport. Ma pensiamo che si potrebbero costituire dei club, la cui attività principale sia il rugby, come succede nella capitale, e allora non sarebbe più uno sport secondario. Se tutto questo si realizzasse, l’Argentina potrebbe avere il suo posto nella gerarchia del rugby internazionale» (Ernesto «Che» Guevara).

«Il rugby si è sviluppato all’interno del Paese grazie ai vecchi giocatori che hanno lasciato Buenos Aires per ragioni professionali e che si sono ritrovati per continuare il loro sport preferito. Così che a Buenos Aires i pionieri erano gente ricca, che poteva investire un capitale e formare dei club solidi, contando sull’entusiasmo di un gran numero di giocatori. Invece, nelle città di provincia, il rugby non è riuscito a suscitare l’interesse delle classi più fortunate, molto legate alla tradizione e, a parte rare eccezioni, resta un’attività propria di una piccola borghesia, con persone che ci mettono grande entusiasmo, ma nulla di più» (Ernesto «Che» Guevara).

«Il rugby in Argentina è passione e disorganizzazione; in Inghilterra è organizzazione e struttura; in Francia è passione, spettacolo e un po’ di organizzazione» (Agustin Pichot).

«In Argentina rugby significa 140 anni di storia, 320 club, 35.000 rugbisti, ma solo 300 di alto livello, una Nazionale ribattezzata Pumas, tantissimi “rugbier” emigrati o tornati nelle loro terre di origine per poter vivere di ovale» (Agustin Pichot).

Nel 1965, durante la tournée in Sud Africa, l’Argentina affrontò la Rhodesia (oggi Zimbabwe) a Salisbury (oggi Harare). Sulla maglia degli argentini era ricamato un giaguaro, ma i giornalisti locali scambiarono il giaguaro per un puma. Comunque il simbolo non portò fortuna: i Pumas furono sconfitti 17-12.

«Non siamo i migliori né i più tecnici né i più fisici né i più forti. E certo non siamo neanche i più belli. Ma il rugby è un gioco di cuore, passione e solidarietà» (Agustin Pichot).

«Con i Pumas si gioca per la maglia, per l’onore, per la patria. Anche perché soldi non se ne vedono mai: siamo ancora in ballo per metterci d’accordo sui premi, ma il guaio è che una volta che ci mettiamo d’accordo, tanto poi i soldi non arrivano» (Mario Ledesma).

«In Argentina una volta il rugby era lo sport dei ricchi e della borghesia, poi grazie alla tv è diventato popolare, aperto a tutti, anche ai più poveri. Quello che appassiona la gente, a qualsiasi livello, è lo spirito guerriero, ma allo stesso tempo anche il senso di amicizia e di gruppo. Nei ragazzi si cura la tecnica in modo quasi maniacale, ma allo stesso tempo si lascia libera la fantasia di improvvisare e inventare. E l’allenamento viene vissuto non come un sacrificio, ma quasi come un culto. Ogni mercoledì i calciatori di tutte le formazioni del nostro club, dalla prima squadra fino al minirugby, si ritrovano al campo e si allenano insieme, correggendosi, consigliandosi, aiutandosi» (Agustin Pichot).

«Bajadita» è il nome dato alla tecnica di mischia adottata dalle squadre argentine, fin dagli anni Settanta, e poi abolita dalle nuove norme. Significa: piccolo abbassamento. I primi cinque uomini di mischia, al momento dell’ingaggio, si abbassavano un po’ per spingere via meglio gli avversari.

 

 

ASCENSORE (lifting, ascenseur)

Tecnica usata nelle rimesse laterali: si può sollevare un giocatore (beninteso: della propria squadra) per aiutarlo a conquistare il pallone più in alto. Il sistema è stato autorizzato dalla Coppa del Mondo 1995.

AUSTRALIA (Australia, Australie)

Wallabies, la Nazionale australiana: significa «canguri». La prima tournée dell’Australia in Gran Bretagna risale al 1908. La squadra aveva un serpente – vivo – come mascotte, che si chiamava Bertie, ma rinunciò a farsi soprannominare «Berties». Furono i giocatori a scegliere Wallabies. Bertie morì il giorno dopo la vittoria dell’Australia contro il Galles, 15-0. Gli australiani erano convinti che Bertie portasse loro fortuna: tant’è vero che il primo match dopo la morte della mascotte fu una sconfitta, per 8-3, contro Llanelli.

«Donne e bambini sono a posto e sembrano esseri umani perfettamente normali. Invece che cos’è successo a quelle cose chiamate uomini?» (Austin Healy).

Famiglia ovale. Mark Ella (classe 1959), due volte giocatore dell’anno in Australia, mediano di apertura. Glen Ella, gemello di Mark, estremo. Gary Ella (1960), fratello minore di Mark e Glen, trequarti centro. Tutti e tre venivano dal Randwick, club di Sydney. Steve Ella, cugino dei tre, centro, è stato nazionale nell’Australian Rugby League, a XIII.

Adesso metti un virus che si porti via tutto quello che è stato detto, scritto e visto sul rugby. Un virus per cui non c’è antivirus, ma forse quel virus è il calcio, e tutto quello che si può onestamente fare è portarsi addosso il ricordo di una sola persona. Insomma: con chi ricomincereste la storia del rugby? Ella, Mark Ella, Mark di nome e Ella di cognome, un cognome tremendamente simile a quello di William Webb Ellis, l’inventore dell’ovale e di Ovalia. Mark Ella, adesso, è un signorotto tracagnotto, pieno di pelle, con gli occhiali da vista e la vista mare. Abita a Sydney, in Australia: lui si affaccia da casa e si gode il Pacifico. Anche allora abitava a Sydney e, volendo, quando si affacciava da casa si godeva il Pacifico. Ma pochi avrebbero scommesso un dollaro, seppure australiano, su quel ragazzo stagno come un frigorifero e grosso come un comò. Ma sveglio, agile e fantasioso. Più di tutto: fantasioso. Quattro anni in Nazionale, i mitici Wallabies, alla grande. Dalla prima serie vinta contro gli All Blacks, nel 1980, fino al Grande Slam conquistato contro la Scozia, nel 1984. Punteggio: 37-12. Tutti i 37 punti segnati dal quartetto dell’Ave Maria: una meta di Ella, un’altra di Nick Farr-Jones, mediano di mischia e studente in Giurisprudenza, due di David Campese, ala ed estremo, quattro trasformazioni più cinque calci di Michael Lynagh. Una settimana dopo quel trionfo, appena saliti su un aereo che li avrebbe riportati in Australia, Ella dette una voce ai giornalisti: «Venite qui, ragazzi, ho da dirvi una cosa importante». Che era: «Gente, se vi interessa, be’, io mi ritiro. Niente più grande rugby per me». I giornalisti se la presero: «Perché ce lo dici adesso, che per 24 ore non possiamo scrivere?» Mark aveva la battuta pronta: «Sapevo che così avrei evitato di staccare il telefono per un mese, a casa». Aveva 26 anni e il mondo davanti a sé. Ma preferì ritirarsi. Ritirarsi anche dal proprio talento: la sua libertà di gioco e il suo amore per il gioco, la capacità di trasmettere il pallone e di bucare la difesa, quel bisogno di non far mai morire il pallone, neanche fosse il San Bernardo del rugby.

 

 

AVANTI (forwards, avants)

Quelli della mischia, quelli dall’1 all’8, quelli del pacchetto, quelli – a sentire loro – del rugby.

 

Anche a Chon piace Chabal. «Un bel selvaggione», lo definisce, «un bel machone». Chon è un rugbista vecchio stile. Vecchio, questo è sicuro. Stile, questo lo ricorda solo lui. Ha cominciato ala, vent’anni, uno e novanta per ottanta chili, ha finito pilone, quarant’anni, uno e novanta per centoventi, «però», precisa, «veloce». Quello che potrebbe accomunare Chon e Chabal, a parte le prime due lettere dei cognomi, peraltro Chon cinese di Milano e Chabal francese di Valence, è forse il vecchio stile. Selvaggione, machone: appunto. Il rugby come lotta, sfida, battaglia, guerra. Il rugby che si misura all’inglese: pollici infilati in cavità di qualsiasi genere, umano vegetale e minerale, piedi usati per tutti i verbi che vanno dal calpestare al correre, once di terra e pinte di birra. Chabal è un catafalco di uno e novantadue per centoquattordici, si chiama Sébastien, ha 29 anni, è nato nel giorno dell’Immacolata Concezione, il che suona irriverente. Il suo primo soprannome è Attila: capelli sciolti, naso barbaro, sopracciglia unne, occhi profondi, barba incolta, non esattamente il tipo che desidereresti incontrare in un vicolo alle due di notte. Il suo secondo soprannome è Anestesista: come ti placca, ti addormenta, e non è escluso che il successivo passaggio sia in una sala operatoria. Il suo terzo soprannome è «l’uomo di Neanderthal», forse per la fine eleganza dei tratti. Il suo quarto soprannome è «l’orco», per gli stessi motivi. Nel suo club, Sale Sharks, non vanno tanto per il sottile e lo giudicano un talismano, una leggenda, un portafortuna. La fortuna di averlo con sé e non contro di sé. Chabal vanta anche un quinto soprannome, coniato proprio dai sostenitori degli Sharks: branzino, perché nonostante la superficie quadrata base per altezza, è imprendibile. Parola di pescecani. «C’è chi è un mostro di tecnica, chi un mostro di tattica», spiega Niels de Vos, uno dei boss del Sale: «Sébastien è un mostro di natura. Ha braccia così lunghe da sembrare una piovra. E le mani più grosse che abbia mai visto attaccate al corpo di un uomo. È tutto ossa e muscoli: il quattro per cento di grasso, ridicolo». Thomas Castaignède, estremo della Francia, giura che Chabal è «l’unico che riesce a toccarsi la suola delle scarpe senza neanche allungarsi un po’». Niels de Vos aggiunge: «Le misure di Chabal non rendono giustizia alle sue reali dimensioni. Basta guardare l’ombra che proietta sul campo. Sembra quella di una tribuna». E Thomas Castaignède sentenzia: «Chabal non gioca, ma razzia, scorrazza, saccheggia». Fino a un anno fa Chabal aveva un aspetto un filo più rassicurante, poi ha deciso di non finanziare più i barbieri britannici con la scusa di una scommessa: capelli e peli a volontà finché non fosse nata Lily Rose. Nata Lily Rose, ruolo primogenita, Chabal ha deciso di tenersi tutto, anzi, di allungarsi gli optional. Tenero e affettuoso, ma dentro, papà Chabal tiene in braccio la piccolina come se si stia preparando a fare colazione. Le ultime notizie, comunque, danno la piccola Lily Rose ancora miracolosamente viva. La carriera di Chabal recita: Valence, Bourgoin, Sale Sharks, più la Nazionale. Terza centro, numero otto, quello che guida la mischia, oppure seconda: lui ha la possibilità di allungare braccia e mani fino ad abbracciare addirittura i piloni, poi spinge il carretto a sedici gambe come se fosse un aratro. Una ventina di partite con i Bleus, più critiche che elogi. Poi il Sei Nazioni 2007, e due mete contro l’Italia, le prime con la maglia della Francia. Lui non cercava rivincite: «Era solo una questione personale, fra me e me. Non capivo perché in un club riuscissi a giocare come volevo, e in Nazionale no. Adesso ci sono riuscito, ma non l’ho ancora capito. Sarà che sono più libero di fare quello che mi sento». Lui giocherebbe dappertutto: prima, seconda, terza linea, mediano o trequarti. «Farei anche il palo.» Come battuta non è un granché, ma siccome lui ci ride, per prudenza è meglio riderci su anche noi. Comunque, se un giorno capitasse dalle parti della Chinatown milanese, anche a Chabal piacerebbe il vecchio stile di Chon.

«Gioco da quando ho sei anni. A dire la verità avevo cominciato a giocare qualche anno prima, ma non con il pallone ovale. Gioco da quando ho sei anni perché in casa circolavano palloni ovali, e circolavano anche amici di mio padre grandi e grossi il doppio delle persone che incontravo per la strada, e per quel che mi ricordo le sparavano anche grandi e grosse, il doppio delle storie – o delle balle – che si sentivano per la strada. Appena si sedevano, e così tornavano ad altezze normali, ne approfittavano per alzare la voce, e alzare anche il gomito. Dev’essere stato lì che mi sono innamorato del rugby.

Se mi guardo indietro, certe volte mi sembra di non aver fatto altro nella vita che giocare a rugby: allenamenti e partite, spogliatoi e campi, docce e bar. Se mi guardo davanti, ho la stessa sensazione: allenamenti e partite, spogliatoi e campi, docce e bar. E se mi guardo di fianco, be’, non ci crederete: allenamenti e partite, spogliatoi e campi, docce e bar. Comunque nella vita ho fatto anche altro: per esempio allenamenti e partite, spogliatoi e campi, docce e bar. È che non smetteresti più di giocare. Infatti io mi guardo dietro, davanti e di fianco, ed è come se continuassi a giocare.

Una cosa è certa: il rugby è un modo di essere, un modo di vivere, un modo di stare. Ecco, un modo di stare: dopo le partite, male; durante le partite, pure; e prima, dipende se sei emotivo oppure no. Ma se sei emotivo, stai male anche prima delle partite. Questo è uno dei motivi per cui i bambini che preferiscono giocare a calcio, basket o pallavolo, sono più di quelli obbligati a giocare a rugby. Però al rugby devo la mia vita, in particolare tutte le volte che potevo lasciarci la pelle e invece ci ho lasciato solo sopracciglia, orecchie, ginocchia, spalle e un braccio. Al rugby devo la mia educazione, anche la mia diseducazione, devo quattro Mondiali, più Sei Nazioni, coppe e campionati, devo viaggi, trasferte e perfino i raduni.

Al rugby devo un’allegra ammucchiata con gli All Blacks in una limousine, dopo la partita nella Coppa del Mondo 1991: un passante fece il furbo, Zinzan Brooke scese dalla «limo» e lo sistemò con un uno-due in faccia. Al rugby devo un coro con il Resto del mondo in Sud Africa, c’erano Gary Whetton, lo “Squalo bianco” John Jeffrey e Gavin Hastings, ognuno cantava la sua, io e Marcello Cuttitta intonammo “Vincerò”, e il livello dell’alcol era così alto che strappammo applausi, anzi, ovazioni. E al rugby devo anche dei desideri, non esauditi, di scomparire dalla faccia della Terra: è capitato dopo certe memorabili sconfitte, ma il protocollo mi imponeva di presenziare alla conferenza stampa e rispondere cortesemente alle domande dei giornalisti» (Carlo Checchinato).