PANTAGRUELE

RE DEI DIPSODI RESTITUITO AL NATURALE

Con le sue gesta e prodezze spaventevoli descritte

dal fu Mastro Alcofribas astrattore di Quinta Essenza

Strofe in decima rima di Mastro Ugo Salel1

all’autore di questo libro

Se di stima autore è meritevole

Perché l’utile unisce al dilettevole

Tu per questo libretto plauso avrai

Maggior che ad altri fosse dato mai.

Sotto il velame degli ameni detti

L’utile e il vero hai così ben descritti

Che un Democrito in te mi par ch’io veda

Che ai casi ride dell’umana vita.

Persevera e ne avrai mercede eterna,

Se non quaggiù, nella vita superna.

1 Poeta molto stimato a quei tempi, grecista e traduttore di numerosi canti dell’Iliade.

PROLOGO DELL’AUTORE

Illustrissimi e molto cavallereschi campioni e nobiluomini, e voi tutti che volentieri vi dedicate a ogni cosa onorevole e gentile, io so che, or non è molto, avete visto, letto e conosciuto le Grandi inestimabili Cronache dell’enorme gigante Gargantua e, da bravi credenti, le avete tenute per vere tal quale la Bibbia ed il santo Vangelo; e spesso anche le avete prese a passatempo, in compagnia di rispettabili dame e damigelle, traendone lunghi e bei racconti, quando, come capita, non sapevate più di che cosa parlare; per lo che siete meritevoli di grande lode e memoria sempiterna.

E per quanto sta in me, sarei proprio contento se ognuno lasciasse il suo lavoro, mandando a ramengo gli affari ed il mestiere, per farsi solo ed esclusivamente banditore di quelle, senza che il suo spirito ne fosse altrimenti frastornato o distratto; fintanto, dico io, che le avesse imparate a memoria. Cosicché, se per avventura l’arte della stampa venisse meno, o nel caso che andassero distrutti tutti i libri, chiunque potrebbe in avvenire raccontarle per filo e per segno ai propri figli e tramandarle ai propri discendenti ed eredi, come da una mano all’altra, al pari di una sacra cabala; poiché da esse si ricava maggior frutto di quanto non possa pensare una congrega di stronfioni che so io, tutti ingreppolati, e che di queste mie piccole facezie capiscono assai meno di quanto non capisca di pandette Mastro Raclet1.

Ne ho conosciuti, e non pochi, di gran signori e nobilissimi cavalieri, i quali, andando a caccia di selvatici, o per anitre col falcone, se accadeva che la bestia non venisse alla posta o che il falcone si mettesse a planare mentre la preda gli volava via di sotto, ci restavano assai male come potete immaginare; ma poi lasciavan perdere trovando risarcimento e consolazione nel raccontarsi l’un l’altro le inimitabili gesta di Gargantua.

E altri ve ne sono per il mondo (né vi racconto frottole) che essendo afflitti grandemente dal mal di denti, dopo aver profuso inutilmente in medicine tutte le loro sostanze, non han trovato rimedio più efficace che di mettere le dette Cronache fra due bei pannilini ben caldi, applicandole poi sulla parte dolente, dopo averle senapizzate con un poco di polvere d’oribus2.

Ma che dire dei miei poveri gottosi e dei miei amatissimi impestati? Quante volte li abbiamo visti unti e imbrattati a puntino, con la faccia che gli luccicava come la serratura d’un salatoio, con i denti che gli ballavano in bocca come i tasti di un organo o di una spinetta quando si suona e la schiuma alla strozza come cinghiali quando i veltri li acculano al recinto! E che facevano essi allora? Non altra consolazione avevano i meschini che di sentir leggere qualche pagina di quel nostro libro; e ne abbiamo conosciuti di quelli che giuravano di darsi a centomila bigonce di vecchi diavoli nel caso che, stando chiusi nei forni, non avessero mostrato un gran sollievo a una tanto benefica lettura: né più né meno delle donne in preda al mal di madre se gli leggete la vita di Santa Margherita3.

Vi sembra niente? Trovatemi un altro libro in qualsiasi lingua, di qualsivoglia scienza o disciplina, che possa vantare eguali virtù, proprietà e prerogative e io vi pago una foglietta di trippe. No, cari signori, no: esso è impareggiabile, non ha l’eguale, è fuor di paragone. Io lo sosterrò fino alla prova del fuoco eccettuata. E siano considerati truffatori, predestinatori4, impostori e corruttori coloro che oseranno sostenere il contrario.

Ben vero che vi sono certi libri d’alto fusto nei quali si ritrovano proprietà occulte, e fra questi ricorderemo Scolapinte, Orlando Furioso, Roberto il Diavolo, Fierobraccio, Guglielmo senza paura, Ugone di Bordeaux, Montevilla e Matabruno; che però non sono paragonabili con quello di cui parliamo. E la gente ha ben conosciuto per esperienza infallibile il gran profitto e la grande utilità che si ricava dalla Cronaca Gargantuina; tanto che gli stampatori ne han vendute più copie in due mesi di quante non ne andranno vendute della Bibbia in nove anni.

Volendo dunque io, vostro umile schiavo, accrescere maggiormente i vostri passatempi, vi offro adesso un nuovo libro della stessa lega, salvo che questo è ancor più onesto e fededegno di quanto non fosse l’altro. Perché non dovete credere (salvo che non vogliate prendere una cantonata di proposito) che io ne parli alla cieca come gli Ebrei parlano della Legge. Io non sono nato sotto un tal pianeta e mai non mi è accaduto di mentire o di affermare cosa che non fosse certa:

Agentes et consentientes,

e chi non ha coscienza non ha niente5.

Io infatti ne parlo come San Giovanni dell’Apocalisse: Quod vidimus testamur; perché si tratta delle orribili gesta e prodezze di Pantagruele, al cui servizio sono stato da quando uscii di paggeria fino ad ora che, con sua licenza, me ne son venuto a visitare le vacche del mio paese e a vedere se qualcuno dei miei parenti è ancora vivo.

Ragion per cui, e per farla finita con questo preambolo, come io mi do anima e corpo, trippe e budella, a centomila corbe di bellissimi diavoli se in tutta la mia storia c’è una sola parola che non sia vera, così vi prenda il fuoco di Sant’Antonio, vi scontorca il malcaduco, il fulmine vi incenerisca, il canchero vi azzoppi, vi venga il cacasangue con le creste di gallo su per il buco del culo, filiformi e a cavolfiore, con belle ragadi variegate e ben rinfocolate dal mercurio, e possiate voi, come Sodoma e Gomorra, precipitare in zolfo, in fuoco ed in abisso, nel caso che non crediate fermamente in tutto ciò che io vi racconto in questa qui presente e vera Cronaca!

1 Probabilmente un professore di diritto romano che non godeva la stima e la simpatia di Rabelais.

2 Miscuglio di elleboro con altre droghe che i ciarlatani vendevano ai gonzi come panacea.

3 Cfr. Gargantua, Libro I, cap. VI, nota 15.

4 Qui ce l’ha con Calvino, sostenitore della predestinazione, al quale, nel cap. XXXII del Libro IV darà apertamente dell’impostore.

5 «Agentes et consentientes, c’est-à-dire qui n’a conscience n’a rien». Così nel testo, che risulta pertanto incomprensibile, se non come puro e semplice nonsense, essendo le due parole latine niente altro che i soggetti di una massima forense (Agentes et consentientes pari poena puniuntur) che ha ben poco a che vedere con quel che segue.

CAPITOLO I

Sulle origini e l’antico lignaggio del grande Pantagruele

Non sarà cosa inutile né oziosa, visto che siamo in vacanza, rammentarvi la fonte prima e l’origine onde a noi fu generato il buon Pantagruele: perché io vedo che tutti i migliori storiografi così hanno fatto nelle loro Cronache, e non solamente gli Arabi e i Gentili, ma persino gli autori delle sacre scritture, come monsignor San Luca, appunto, e San Matteo.

Dovete dunque sapere che al principio del mondo (io prendo le mosse di lontano e son cose che accaddero più di quaranta quarantine di notti fa, per contare alla maniera degli antichi) non molto tempo dopo che Abele era stato ucciso da suo fratello Caino, la terra, irrorata dal sangue del giusto, diede una certa annata

Sì ferace d’ogni frutto

dal suo grembo a noi produtto,

e specialmente di nespole, che fu ricordata in perpetuo col nome di annata delle nespole grosse. Infatti ne bastavano tre per riempire uno staio.

In quello stesso anno furono trovate le calende nel breviario dei Greci, il mese di marzo mancò di quaresima e il ferragosto cadde di maggio. Nel mese di ottobre, mi sembra, o forse di settembre (per non sbagliarmi, perché vorrei morire piuttosto che dire una bugia) ci fu la settimana tanto rinomata negli annali, detta dei tre giovedì, perché ce ne furono tre a causa dei bisesti irregolari, per via che il sole, come uno storpio, sbandò un po’ sulla sinistra e la luna svariò dal suo corso più di cinque tese e fu veduto chiaramente nel firmamento chiamato aplane6 il movimento di trepidazione, al punto che la Pleiade mediana, lasciando le sue compagne, declinò verso l’equinoziale e la stella chiamata Spica lasciò la Vergine ritirandosi verso la Bilancia; casi questi così spaventevoli e argomenti e materie così dure che gli astrologi non possono mettervi i denti, che del resto dovrebbero averli ben lunghi per arrivare a mordere fin lassù.

Come potete immaginare, la gente mangiava assai volentieri di quelle nespole che ho detto, perché esse erano belle a vedersi e deliziose al palato; ma proprio come Noè, il sant’uomo (al quale siamo tanto obbligati e riconoscenti per aver egli piantato la vigna donde ci viene quel nettareo, delizioso, prezioso, celeste, giocondo e deifico liquore denominato vino) fu ingannato bevendone perché ne ignorava la grandissima forza e virtù, similmente, gli uomini e le donne di quel tempo, mangiando di quei frutti belli e grossi con sommo piacere, andavano soggetti ad accidenti diversi.

A tutti infatti sopravvenne una molto spaventosa enfiagione del corpo; ma non a tutti nella stessa parte. Poiché ad alcuni, per esempio, si gonfiava il ventre che diventava gibboso come un grosso barile, tal che di essi è scritto «Ventrem onnipotentem». Ma furono tutte persone dabbene e di buona compagnia e dalla loro schiatta nacquero San Panzone e Martedì Grasso.

Ad altri si gonfiavano le spalle. Questi diventavano talmente gobbi che li chiamavano Montiferes, come dire portamontagne; e ne vedete ancora per il mondo, diversi per sesso e dignità. Da questa razza venne fuori Esopetto, del quale voi conoscete per iscritto i bei detti e i bei fatti.

Ad altri protuberava in lunghezza il membro, altrimenti detto vomere della natura, per cui l’avevano meravigliosamente lungo, grande, grasso, verde, e con cimiero crestato all’antica; tanto che lo usavano come cintura, avvolgendolo cinque o sei volte intorno alla vita; e se accadeva che l’avessero a punto, con il vento in poppa, li avreste detti altrettanti campioni, pronti, la lancia in resta, a correre la quintana. Di questi si è perduto il seme, come dicono le donne che si lamentano di continuo perché

di così grossi non ce n’è più ecc.,

voi conoscete il resto della canzone.

Ad altri crescevano i coglioni così enormemente che ne bastavano tre a fare un moggio. Da costoro discesero le coglie di Lorena, le quali fuoriescono sempre dalla braghetta e vanno giù fino in fondo ai calzoni.

Ad altri poi crescevano le gambe e a vederli li avreste detti aironi o gru o gente che va sui trampoli. Giambi li chiamano in grammatica gli scolaretti.

Ad altri ancora cresceva tanto il naso che pareva la doccia di un alambicco: tutto screziato, tutto scintillante di pustolette, pullulante, violetto, tutto smalti, rubini, nappine e bocciuoli, e tutto ricamato in rosso, tal quale quello, che conoscete, del canonico Panzoult o di Mastro Piedilegno medico ad Angers. Di quella razza pochi ne sortirono che amassero la tisana, tutti essendo amatori di infusi settembrini; e ne discesero Nasone ed Ovidio e tutti coloro il cui naso fu ritenuto memorabile7.

E c’erano anche quelli che crescevano dalle orecchie, le quali così grandi avevano che con una si facevano il corsetto, le brache ed il saio, e con l’altra si ammantellavano come in una cappa spagnola; e corre voce che nel Borbonese ne duri ancora la stirpe, donde il proverbio «orecchie alla borbonese».

Altri in fine crescevano in lunghezza per tutto il corpo e da questi son discesi i giganti,

E da questi Pantagruele;

E il primo fu Chalbroth8,

Che generò Sarabroth,

Che generò Faribroth,

Che generò Hurtaly, (il quale fu buon mangiatore di zuppe e regnò al tempo del Diluvio),

Che generò Nembroth,

Che generò Atlante (quello che teneva su il cielo con le spalle perché non cadesse),

Che generò Goliath,

Che generò Eryx (l’inventore del gioco dei bussolotti),

Che generò Orione,

Che generò Polifemo,

Che generò Caco,

Che generò Etione (il quale per primo rimase impestato per non aver bevuto fresco in estate, come attesta il Bartachim)9,

Che generò Encelado,

Che generò Ceo,

Che generò Tifeo,

Che generò Aloeo,

Che generò Oto,

Che generò Egeone,

Che generò Briareo (quello che aveva cento mani e squadrava le fiche ai Titani),

Che generò Porfirio,

Che generò Adamastore,

Che generò Anteo,

Che generò Agatone,

Che generò Poro (contro il quale combatté Alessandro Magno),

Che generò Arantas,

Che generò Gabbara (il vero inventore della bevuta in più),

Che generò Goliath di Secondilla,

Che generò Offot (il quale ebbe il naso terribilmente bello di chi beve al barile),

Che generò Artacheo,

Che generò Oromedonte,

Che generò Gemmagog (che fu inventore delle scarpe alla polacca),

Che generò Sisifo,

Che generò i Titani (dai quali nacque Ercole),

Che generò Enay (espertissimo nel curare i pellicelli alle mani),

Che generò Fierobraccio (il quale fu vinto da Oliviero, Pari di Francia e compagno di Rolando),

Che generò Morgante (il quale, primo al mondo, giocava ai dadi con gli occhiali),

Che generò Fracassus (del quale ha scritto Merlin Cocaio),

Da cui nacque Ferraù,

Che generò Azzannamosche (il quale inventò l’arte di affumicare al camino le lingue di bue, che prima invece le salavano come si fa coi prosciutti),

Che generò Mangiaterra,

Che generò Tentenna,

Che generò Malorbo (che aveva i coglioni di pioppo e il cazzo di sorbo),

Che generò Masticafieno,

Che generò Bruciaferro,

Che generò Ingozzavento,

Che generò Galeotto (il famoso inventore delle bottiglie piccole),

Che generò Guardinbocca,

Che generò Galaffro,

Che generò Fagottino,

Che generò Roboastro,

Che generò Sortibrando di Coimbra,

Che generò Bruciante di Monmiré,

Che generò Brughiero (il quale le prese da Ogiero il Danese),

Che generò Mambrino,

Che generò Fottiforte,

Che generò Vergadigrano,

Che generò Gargamagna,

Che generò Gargantua,

Che generò il nobile Pantagruele, mio signore.

Io so benissimo che leggendo questo capitolo vi passerà per la mente un dubbio assai ragionevole. Come mai, vi chiederete, com’è possibile che le cose stiano così, se al tempo del Diluvio morirono tutti, eccetto Noè nella sua Arca e con lui sette persone fra le quali non è compreso il nominato Hurtaly10?

La domanda è senza dubbio ben posta e di grande momento; ma la risposta vi darà soddisfazione, a meno che il mio cervello non sia stato intonacato male. E dal momento che a quel tempo io non c’ero per potervene parlare con sicurezza, vi allegherò l’autorità dei Massoreti, chiosatori – scrotologi e pifferari – delle sacre scritture ebraiche, i quali affermano che, veramente Hurtaly dentro l’Arca di Noè non c’era, per la ragione che non vi entrava essendo troppo grosso. Ma vi stava sopra, a cavalcioni, una gamba di qua e una di là come i ragazzini sui loro cavalli di legno, o come quel gigantesco Toro di Berna11, che fu ucciso a Marignano, e che aveva preso per cavalcatura un grosso cannone petriere: bestia, come tutti sanno, dall’ambio sciolto e vivace.

In questo modo Hurtaly, dopo Dio, preservò l’Arca dal naufragio, perché la bilanciava ben bene con le gambe e la pilotava agevolmente col piede come si fa con il timone. Quelli che stavano dentro, per gratitudine, gli mandavano da mangiare a sufficienza attraverso un camino, e qualche volta conversavano insieme, come Icaromenippo con Giove, secondo che narra Luciano.

Avete capito bene? Allora beveteci sopra, e che sia di quello schietto. Perché, se non ci credete voi, io ci credo ancor meno – diceva lei.

CAPITOLO II

Sulla natività del temibilissimo Pantagruele

All’età di quattrocentoquattrovolteventi e quarantaquattro anni Gargantua generò Pantagruele da Badalocca sua moglie, figlia del re degli Amauroti in Utopia, che morì di parto, essendo che il parvolo era così meravigliosamente grande e pesante da non poter venire alla luce senza, al tempo stesso, soffocare la madre.

Ma per capire bene la causa e la ragione del nome che gli fu imposto al battesimo, dovete sapere che quell’anno ci fu una così grande siccità in tutta l’Africa che passarono trentasei mesi, tre settimane, quattro giorni, tredici ore e qualche minuto per giunta, senza che piovesse mai; con un sole e una calura così veementi che il suolo ne fu inaridito più ancora di quanto non lo diventasse ai tempi di Elia12, poiché non c’era albero sopra la terra che avesse foglia o fiore e nemmeno un filo d’erba che fosse ancora verde.

I fiumi e le fontane erano in secca; i poveri pesci, abbandonati dal loro elemento, andavano per le terre gridando orribilmente; gli uccelli, non reggendo più il volo per mancanza di rugiada13, piombavano giù per l’aria; lupi, volpi, cervi, cinghiali, daini, lepri, conigli, donnole, faine, tassi ed altri animali s’incontravano morti per i campi a gola spalancata. Quanto agli uomini, una vera pietà. Bisognava vederli, tutti con la lingua di fuori come tanti levrieri che abbiano corso sei ore. Molti si gettavano nei pozzi; altri si rifugiavano nel ventre di una vacca pur di stare all’ombra, e Omero li chiama Alibantes14. Tutto era fermo in tutta la contrada. Ed era proprio una pena vedere l’affanno della gente per difendersi da quell’orrenda calamità; al punto che fu una vera impresa preservare l’acqua benedetta nelle chiese. Ma furono presi tali provvedimenti, per consiglio dei signori cardinali e del Santo Padre, che nessuno osava prendere più di una benedizione per volta. E quando qualcuno entrava in una chiesa, ecco che una ventina di quei poveri assetati si stringevano attorno a colui che distribuiva l’acqua santa, con la gola spalancata, per averne una qualche gocciolina, così che non ne andasse perduta nemmeno un’idea. Beato chi, in quell’anno, si trovò a possedere una fresca e ben fornita cantina!

Racconta il Filosofo15, agitando la questione del perché l’acqua del mare sia salata, che quando Febo affidò il governo della sua luminifica carriola al figlio suo Fetonte, questo Fetonte, inesperto dell’arte, non sapendo come seguire la linea eclittica fra i due tropici della sfera solare, svariò dal giusto cammino e tanto si avvicinò alla terra che ridusse a secco tutte le contrade sottostanti e mise a fuoco una gran parte del cielo, quella chiamata via lactea dai filosofi e strada di San Giacomo dai Babbioni16: sebbene i poeti più ragguardevoli affermino trattarsi di quel tratto dove sgocciolava il latte di Giunone quando teneva Ercole alla poppa. La terra dunque si prese un riscaldo tale che cominciò a sudare, e tanto trasudava che trasudò di fuori tutto il mare, il quale perciò è salato; perché tutti i sudori sono salati, e voi stessi direte che non c’è dubbio se assaggerete il vostro o anche quello degli impestati quando li mettono a sudare nei forni; che per me fa tutt’uno.

Qualcosa di molto somigliante accadde nell’anno di cui parlo, poiché un giorno di venerdì, che tutta la gente era in gran divozione, con processioni, prediche, salmi e litanie, e tutti supplicavano l’Onnipotente di volerli riguardare con occhio benigno in tanto disconforto, si videro venir fuori dalla terra delle grosse gocce d’acqua come quando qualcuno suda copiosamente. E il popolo afflitto cominciò a rallegrarsi come a un segno di salvezza, poiché alcuni dicevano che, non essendovi nell’aria nemmeno un’ombra di umidità da cui sperare che venisse un po’ di pioggia, la terra avrebbe provveduto di suo alla bisogna. Altri sapienti dicevano ch’era la pioggia degli antipodi, come narra Seneca nel libro quarto Questionum naturalium, parlando delle origini e delle fonti del Nilo. Ma non era che un inganno, e quando, finita la processione, tutti si precipitarono a raccogliere di quella rugiada per berne a garganella, s’accorsero ch’era soltanto una specie di salamoia, peggiore e più salata dell’acqua di mare. E siccome Pantagruele nacque proprio quel giorno, suo padre gli diede il nome che gli diede, perché, in greco, dire panta è come dire tutto e gruel, in lingua agarena17, è lo stesso che dire assetato; volendo significare così che alla nascita del figlio tutto il mondo era in preda alla sete, ed anche preannunciare, con ispirata chiaroveggenza, che un giorno egli sarebbe diventato re degli assetati, come del resto gli fu preconizzato per altri segni evidenti nella circostanza medesima.

Infatti, nel mentre che la madre Badalocca stava per metterlo al mondo e le comari aspettavano per riceverlo, dal ventre della partoriente si videro uscire prima sessantotto mulattieri ognuno dei quali tirava per la cavezza un mulo stracarico di sale; seguirono poi nove dromedari carichi di prosciutti e lingue di bue affumicate e sette cammelli carichi di anguille salate; e poi venticinque carrette di porri, agli, cipolle e cipollette. Questo spaventò enormemente le levatrici. Alcune però dicevano fra loro:

«Questa sì ch’è una bella provvigione. Prima qui si facevano bevute da desco, non da tedesco. Ma questo è un buon segno: è uno sprone all’amor di-vino».

E mentre cicalavano così di queste bazzecole, ecco venir fuori Pantagruele tutto villoso come un orso; per la qual cosa una di loro, con accento ispirato, vaticinò:

«Ecco, egli è nato con tutto il pelo, e compirà cose meravigliose. E se non muore, camperà».

CAPITOLO III

Dolore di Gargantua per la morte di Badalocca sua sposa

Quando Pantagruele ebbe finito di nascere, chi ne restò perplesso e smarrito fu Gargantua suo padre. Perché, vedendo da una parte la moglie morta – la sua Badalocca – e dall’altra il figliolo appena nato, così bello e grosso, non sapeva nemmeno lui cosa dire e cosa fare.

Il dubbio che turbava la sua mente era se dovesse piangere per il cordoglio della sposa o ridere per la gioia del figlio.

Per un verso e per l’altro, egli aveva parecchi e logici argomenti che lo assillavano senza tregua, giacché, se riusciva a ordinarli assai bene in modo et figura, non riusciva però a venirne a capo; e così restava impastoiato come un nibbio preso nel cappio o come un topo nella pece.

«Piangerò?» si chiedeva. «Sì, piangerò. E perché? Perché è morta la mia buona moglie. Essa era la più così e la più colà che esistesse al mondo. Io non la rivedrò mai più. Mai più ne troverò una simile. È una perdita inestimabile.

«O mio Dio!» supplicava. «Che cosa mai ti ho fatto per punirmi così? Perché non mandasti la morte a me prima che a lei, poiché la mia vita senza di lei non è che un lento morire?

«Oh, mia povera Badalocca!» sospirava. «Mia gentile, mia dolce amica, mia piccola fichettina» (diceva proprio così pur sapendo che lei ne aveva per un ettaro, tre biolche e sette pertiche) «mia tenerella, mia braghetta, mia ciabatta, mia pantofola, ecco! E misero me che mai più ti rivedrò!

«Oh, mio povero figlio!» gemeva. «Mio piccolo Pantagruele, che hai perduto la tua buona madre, la tua nutrice amatissima, la tua dolce signora!

«Ahi morte vigliacca!» imprecava. «Morte traditora! Ben feroce sei stata con me, che mi hai tolto la mia Badalocca, cui di diritto spettava l’immortalità».

E così lamentando, piangeva come una vacca. Ma poi d’improvviso si ricordava del suo Pantagruele e si metteva a ridere come un vitello.

«Oh il mio fantolino» diceva, «il mio bel coglioncino, il mio piedino tenero, quanto è mai grazioso! E quante mai grazie dovrò rendere a Dio che mi ha mandato un figlio così ben fatto, così allegro, ridente, e così bello! A pensarci bene, nessuno è più felice di me. E allora beviamoci sopra. Al diavolo i brutti pensieri.

«Si porti del migliore!» chiamò. «Si lavino i bicchieri e si stenda la tovaglia! – Cacciate fuori quei cani! – Attizzami quel fuoco, tu! – Le candele, accendete le candele! – Chiudi quella porta! – Prepara il pane per la zuppa! – Quei poveri, dategli quel che vogliono e mandateli via! – E tu fammi sparire questa palandrana, che voglio stare in libertà per festeggiare le comari come si deve».

Ma mentre così eccitato lietamente ordinava il festino, udì le litanie e i memento dei preti che conducevano la moglie all’avello, e preso a un tratto da altri pensieri, esclamò:

«Signore Iddio, dovrò dunque tornare a contristarmi? Questo proprio non mi va. Non sono più un ragazzo; divento vecchio; il tempo è cattivo; potrei prendermi anche una febbre, e già mi sento impazzire. Mia moglie è morta. Ebbene, per Dio – da veniam Jurandi18 – non la farò resuscitare con le mie lacrime. Lei sta bene. A dir poco è in paradiso, se non anche più in su. Lei prega Dio per noi. Le nostre miserie, le nostre calamità, beata lei, non la angustiano più. Può capitare lo stesso anche a noi. Dio conservi chi resta. Adesso devo pensare a trovarmene un’altra.

«E voi» diceva alle comari, «ma dove siete, brava gente, che non riesco più a vedervi? – voi, sapete cosa farete? Ci andrete voi al funerale. Io intanto me ne resto qui a cullare il mio Pantagruele. Perché mi sento una gran sete, e rischierei di prendermi un malanno. Ma prima pigliatevi una bella rinfrescata anche voi, che vi farà bene, credetelo sul mio onore».

Obbedienti, le brave comari, scolarono più d’un bicchiere, andarono al funerale e assistettero alla sepoltura. Nel frattempo, il povero Gargantua, rimasto all’ostello, compose l’epitaffio da scolpire sulla tomba di lei, che diceva così:

Morì di parto la mia Badalocca,

sghemba di faccia, di mente un po’ tocca:

il corpo una stanga, la pancia un barile,

mai fu vista sembianza più gentile.

Pregate Iddio perché le sia propizio

e le perdoni se in nulla peccò.

Qui giace. Al mondo non conobbe vizio

e morì l’anno e il giorno che spirò.

CAPITOLO IV

L’infanzia di Pantagruele

Io trovo, presso gli antichi storiografi e poeti, che molti sono coloro che nacquero al mondo nei modi più strani e che sarebbe troppo lungo descrivere (leggetevi il VII libro di Plinio, se avete tempo da perdere); ma non si è mai saputo di una nascita così straordinaria come quella di Pantagruele, perché non si riesce nemmeno a immaginare quanto egli crescesse di corporatura e di forza in brevissimo tempo. È vero che Ercole, essendo ancora in fasce, uccise quei due serpenti; ma in fondo è cosa da nulla, perché si trattava di serpenti piccoli e malandati; mentre Pantagruele, anche lui appena nato, fece cose ben altrimenti spaventevoli.

Tralascio qui di ricordare come per ogni pasto egli succhiasse il latte di quattromilaseicento vacche e come, per fare un padellino dove cuocergli la pappa, fossero impiegati tutti i calderai di Saumur nell’Angiò, di Villedieu in Normandia, di Bramont in Lorena. Questa pappa poi gliela servivano in un grande abbeveratoio che ancora si trova vicino al palazzo di Bourges; ma i suoi denti erano già così cresciuti e saldi che con un morso ne portò via un gran pezzo, come tutti ancora oggi possono vedere.

Un bel giorno, verso mattina, che gli volevano dar la tetta di una delle sue vacche (perché altre balie non ebbe mai, come dice la storia), liberato un braccio dai cingoli che lo legavano alla culla, afferrò la vacca di sotto al garretto, le mangiò le mammelle e la pancia, compreso il fegato e i rognoni, e l’avrebbe divorata tutta se la bestia non avesse mugghiato orribilmente, come se i lupi l’azzannassero alle gambe. A quel grido disperato accorsero tutti e la vacca gli fu strappata dalle mani; non completamente, però, perché non riuscirono ad evitare che gliene restasse in pugno un garretto ch’egli assaporò tranquillamente come fareste voi d’una salsiccia. E quando fecero per portargli via l’osso, lui lo ingoiò in un momento come farebbe un cormorano con un pesciolino. Subito poi si mise a balbettare «pace pace» – perché non sapeva ancora parlare come si deve – volendo far capire che gli era piaciuto moltissimo e che non desiderava niente di meglio.

A tal vista, i domestici che lo accudivano, pensarono bene di legarlo alla culla con grossi cavi: grossi – per intenderci – come quelli che si fanno a Tain per i carichi di sale che vanno a Lione, o come quelli della Françoise, la grande nave arenata nel porto di Grâce in Normandia.

Ma una volta che un grossissimo orso allevato da suo padre ruppe il guinzaglio e andò a leccargli la faccia, perché le governanti non gliela avevano pulita a dovere, lui ti si liberò dalle funi con la stessa facilità di Sansone tra i Filistei, ti agguantò il signor bestione, te lo mise in pezzi come fosse un pollastro e te lo fece sparire in due bocconi con la stessa voracità del falcone quando gli date il premio della preda ancor calda.

Gargantua allora, per timore che potesse farsi del male, gli fece battere alla forgia quattro grosse catene di ferro e fece rinforzare la culla con archi di sostegno bene inchiavardati. Di quelle catene, una la si può vedere ancora alla Rochelle, dove vien tesa la sera fra le due torri che guardano il porto; un’altra è a Lione; un’altra ad Angers; e la quarta fu portata via da una masnada di diavoli per legare Lucifero, che in quel tempo sembrava impazzito a causa di una colica che si era presa per aver mangiato a colazione l’anima di un sergente furiere in fricassea e che lo tormentava orribilmente. Per cui potete dar credito tranquillamente a quel che dice Nicola de Lira riguardo a quel passo del Salterio dove è scritto Et Og regem Basan, che cioè questo re Og, ancora in fasce, era così grande e robusto che bisognava legarlo alla culla con catene di ferro19.

Come che sia, Pantagruele, con quelle catene, rimase quieto e pacifico per un po’, perché non poteva romperle, soprattutto per la ragione che nella culla non c’era spazio abbastanza per dare il primo scossone con le braccia.

Ma ecco che venne un giorno nel quale, essendo festa grande, suo padre aveva convitato a banchetto tutti i prìncipi del reame. E io credo proprio che tutti gli uffiziali di bocca della corte fossero tanto occupati al servizio del festino che nessuno si dava pensiero del povero Pantagruele, il quale fu lasciato così a reculorum, solo soletto. Ma lui, allora, che ti fa? che ti combina, lui? State bene a sentire, brava gente.

Per prima cosa si provò a spezzare le catene, ma non vi riuscì perché erano troppo forti; allora cominciò a tempestare con i piedi e tanto fece che sfondò la spalliera della culla, benché fosse costruita con travoni di sette spanne quadrate; quando s’accorse di aver messo i piedi fuori, si lasciò scivolare come meglio poté fino a toccar terra; allora ce la mise tutta e riuscì a drizzarsi portandosi dietro la culla appesa alla schiena, come una tartaruga gigantesca che va su per un muro, tanto che a vederlo sembrava un barcone da cinquecento barili messo in piedi; così conciato, irruppe d’improvviso nella sala del banchetto con grande spavento di tutti; ma siccome le braccia le aveva ancora legate alle sponde della culla, non riuscendo a metter mano alla tavola, faceva di tutto per potersi chinare e tirar su qualche boccone con la lingua.

Suo padre allora comprese che lo avevano lasciato senza mangiare e, confortato dal consiglio dei prìncipi e signori presenti, comandò che lo sciogliessero dalle catene. I medici anzi dichiararono che se avessero continuato a tenerlo così legato dentro la culla sarebbe andato soggetto al mal della pietra per tutta la vita.

Quando fu liberato lo fecero sedere a tavola ed egli si rimpinzò ben bene; poi fece vendetta, mandando in mille pezzi la culla con un pugno secco e protestando a gran voce che non vi sarebbe rientrato mai più mai più.

CAPITOLO V

La giovinezza di Pantagruele

Così cresceva Pantagruele di giorno in giorno e metteva persona a vista d’occhio; della qual cosa il padre si rallegrava per affezione naturale. Ed essendo il figlio ancora piccino, gli fece fare una balestra (adesso la chiamano la grande balestra di Chantelle)20 perché si divertisse a dar la caccia agli uccelletti. Poi lo mandò a scuola ad istruirsi e a passarvi l’adolescenza.

Di fatto egli, recatosi a Poitiers21 per compiervi gli studi, vi soggiornò con grande profitto. E accortosi che a volte gli studenti si annoiavano non sapendo cosa fare nelle ore di libertà, un giorno, preso da compassione, staccò da una rupe chiamata Passelourdin22 un grande masso di circa dodici tese per lato e quattordici spanne di spessore23 e andò a posarlo lemme lemme sopra quattro pilastri in mezzo a un prato; così che gli studenti, quando non sapevano cos’altro fare, passassero il tempo a darvi la scalata, a far baldoria là sopra con buona scorta di fiaschi, pasticci e prosciutti, e a incidervi il loro nome con la punta del coltello. Adesso quel macigno si chiama Pierre Levée24. E in memoria di ciò nessuno divien più matricola all’università di Poitiers se prima non abbia bevuto alla fonte cavallina di Croutelle25, non sia passato per Passelourdin, e non sia salito sulla Pierre Levée.

In seguito Pantagruele, leggendo le bellissime cronache dei suoi antenati, trovò che Goffredo da Lusignano detto Goffredo dal Gran Dente26, nonno del biscugino della sorella maggiore della zia del genero dello zio della nuora di sua suocera era sepolto a Maillezais27; per cui, da persona ammodo, si prese una vacanza per andarne a visitare la tomba. Partendo da Poitiers con alcuni compagni, passò per Ligugé, dove si fermò a far due chiacchiere con il nobile abate Ardillon, quindi per Lusignano, per Sansay, per Celles, per Coulogne, per Fontenay-le-Comte – dove salutarono il dotto Tiraqueau – e di là arrivarono a Maillezais. Qui alla vista del sepolcro con il ritratto del famoso Goffredo dal Gran Dente, Pantagruele si prese anche un po’ di paura perché l’antenato vi appariva con la faccia di un uomo furioso nell’atto di estrarre dal fodero la sua gran scimitarra; e indagò per conoscerne la ragione. I monaci del luogo gli dissero che non c’era altra ragione se non che Pictoribus atque Poetis28 ecc., cioè a dire che a pittori e poeti è permesso di rappresentare qualsiasi cosa a loro piacere ed arbitrio. Ma lui non rimase convinto e disse:

«Secondo me non è per caso che l’hanno ritratto così. Io dico che quando morì gli avranno giocato un brutto tiro e lui ne chiede vendetta ai suoi parenti. Farò in modo di vederci chiaro e saprò regolarmi di conseguenza».

Poi se ne partì, non già per ritornare a Poitiers, bensì con il proposito di visitare le altre università di Francia. Perciò, passando per La Rochelle, si mise per mare e giunse a Bordeaux, dove non trovò alcun fervore di studi se non quello dei chiattaioli che giocavano a carte sulla spiaggia.

Di là passò a Tolosa dove imparò assai bene a ballare e a tirar di scherma con lo spadone a due mani, com’è uso degli studenti di quella università; ma come seppe di un’altra loro usanza ch’era quella di bruciar vivi i professori come aringhe salate da affumicare, non vi rimase un minuto di più. Dio non voglia – si disse – che tocchi anche a me una sorte del genere. Sono già abbastanza assetato di natura senza bisogno di accaldarmi di più29.

A Montpellier trovò dei buonissimi vini di Mireval e allegra compagnia, e pensò di fermarsi là a studiar medicina. Ma poi considerò ch’era un mestiere troppo faticoso e malinconico e che i medici puzzavano di clistere come scoregge di vecchi diavoli30.

Allora pensò di studiar legge; ma quando s’avvide che in tutta la facoltà c’erano quattro legisti, di cui tre con la tigna e uno con la rogna, fece fagotto e se ne andò.

Lungo la strada, in meno di tre ore, edificò il ponte del Gard e l’anfiteatro di Nîmes (che tuttavia sembrano opera divina più che umana) e venne ad Avignone dove non passarono tre giorni che s’innamorò, perché le donne di Avignone giocano volentieri a strizzaculo essendo quella la città dei Papi.

Ma il suo pedagogo, Epistemone, pensò bene di portarlo via di là e lo condusse a Valenza nel Delfinato. Anche qui, però, c’era ben poco da imparare; inoltre i teppisti della città picchiavano gli studenti, e questo indignò fortemente Pantagruele.

Una bella domenica che tutti ballavano all’aperto, e uno studente fece per entrare nel ballo anche lui, quei manigoldi glielo impedirono. Allora Pantagruele diede loro addosso, li inseguì fino alle rive del Rodano e li avrebbe affogati tutti quanti se quelli non si fossero infilati sotto terra come talpe, per più di mezza lega sotto il letto del fiume, tanto che il buco si vede ancora31.

Poi se ne partì e in tre passi più un salto32 arrivò ad Angiers dove si trovò benissimo, e vi sarebbe rimasto per un po’ se non avesse dovuto fuggirne a causa della peste.

Così capitò a Bourges dove studiò a lungo profittando moltissimo in dottrina giuridica. Talora diceva dei libri delle leggi che somigliavano a splendidi mantelli regali d’oro fino, meravigliosamente fastosi, ma orlati di merda. Perché, spiegava, non vi sono al mondo libri più belli, più ornati, più eleganti dei testi delle Pandette, ma la loro orlatura, cioè a dire la Glossa di Accursio, è tanto sconcia, infame e mefitica da riuscire nient’altro che un cumulo di immondizie e di trivialità.

Partendo da Bourges venne ad Orléans. Gli studenti di là eran gente rustica e schietta e gli fecero grande accoglienza. E poi andavano matti per la pallacorda e vi si esercitavano di continuo; e anche lui imparò questo gioco in pochi giorni e così bene che ne divenne il maestro. Certe volte anche lo conducevano alle isole dove se la spassavano giocando a spingisotto. Ma, quanto a rompersi la testa sui libri, lui se ne guardava bene per paura che gli calasse la vista, tanto più che uno dei rettori soleva dire nelle sue lezioni che non c’è niente di più nocivo alla vista della malattia degli occhi. E un giorno che fu promosso dottore in legge uno studente di sua conoscenza (il quale, come carico di sapienza non ne portava più di quanto ne potesse reggere, ma in compenso era bravissimo nella danza e nel gioco della pallacorda) lui compose questi versi come blasone e divisa dei laureati di quella università:

Una palla in tua braghetta,

in tua mano la racchetta,

nel becchetto33 la pandetta,

lieve al ballo pie’ e tallone,

ed eccoti insignito gran Solone.

CAPITOLO VI

Come Pantagruele incontrò un Limosino che contraffaceva la lingua francese

Un giorno, non so quando, Pantagruele passeggiava fuori porta sulla via di Parigi con la solita compagnia, e s’imbattè in uno studentino tutto lindo e agghindato che veniva per la stessa strada.

«Donde vieni a quest’ora, amico mio?» gli chiese, dopo che si furono salutati.

Lo studentello s’impettorì come un tacchino e rispose:

«Vengo dalla frugifera, inclita, preclara accademia vocata Lutezia».

Frastornato, Pantagruele si volse a uno dei suoi:

«Cosa dice?»

«Dice che viene da Parigi».

«Così tu vieni da Parigi» disse Pantagruele. «E come ve la passate voialtri studenti, laggiù a Parigi?»

«Ah, noi transfertiamo la Sequana34 al diluculo e al crepusculo; noi deambuliamo per trivia et quadrivia dell’urbe; noi dischiumeggiamo la verbocinazione laziale e, da verisimili amorabundi, captiamo la benevoglienza dell’omnigiudice, omniforme et omnigeno sesso femminino. Certi dieculi noi inspiciamo nei lupanari e in estasi venerica inculchiamo il nostro vervinello su per i penitissimi recessi delle pudende di quelle amicabilissime meretricule. Deinde, nelle commendabili taberne della Pigna, del Castello, della Maddalena, della Mula, cauponizziamo spatule vervecine pulcherrime, perforaminate di petrosillo; et si quando per accidens siavi penuria o lacuna di pecunia e siano le marsupie nostre fatte vidue et diserte di ferruginati metalli, noi, summa cum dignitate, dimittiamo le nostre quodammodo oppignorate vestimenta et pandette, interdum instando i tabellari dei penati e patriottici lari ut faciant prestus. Tuctus qui».

«Che razza di linguaggio è mai questo?» esclamò Pantagruele. «Perdio, non sarai per caso un eretico?»

«Dominenò, perché io, non ancora illucesce la prima minutola pagliuzza dei dies35 che già libentissimamente demigro in aliqua di quelle così meravigliosamente architectate domusdei e là, memet aspergendo di copiosissime acque lustrali, mi rosicchio un qualche resticulo di mistiche precazioni dei nostri sacrificuli et submurmurigliando le mie precule orarie, dealbo et abstergo animam meam dalle notturne contaminazioni. Item revereo gli Olimpicoli, venereo latrialmente l’astripotente superno, diligo et redamo li proximi miei, observo i decalogici prescripti atque in conformitate delle mie vires non ne disbando un’unguicola quidem. Bene est veriforme quod, per la cagion che Mammone non ne supergurgita una guttula nei loculi della mia bisaccia, io mi riconosco aliquanto tardo et raro nella supererogazione delle limosine a quelli egeni che vanno queritando hostiatamente le loro stipe».

«Merda, merda!» esclamò Pantagruele. «Chissà diavolo cosa vuol dire questo matto. Secondo me sta macchinando qualche sortilegio diabolico per affattucchiarci tutti quanti siamo».

«Un mago?» disse uno dei suoi. «Ma no, signore, credete a me: questo vagheggino vuol scimmiottare la lingua dei Parigini e riesce soltanto a scorticare un po’ di latino, e così si lusinga di pindareggiare e di erigersi a nume dell’oratoria francese soltanto perché disdegna l’uso del parlare comune».

«Ah, è così?» disse Pantagruele. E lo studente:

«Dominenò, mio sire: il mio genio non est per nulla naturaliter apto, siccome clamat codesto flagizioso nebulone, per abradere la cuticagnula di nostra gallica verbocinazione, quin etiam viceversamente semper mi enito36 cum vele et remi onde locupletarla di latinicoma ridondanza»37.

«Giuro, perdio, che ti insegnerò a parlare» disse Pantagruele, «ma prima rispondimi: di dove sei?»

«L’origine primeva dei miei avi e atavi» rispose lo studente «fu indigena delle regioni lemosiniche ove requiesce il corpo dell’aghiotato38 San Marziale».

«Ho capito» disse Pantagruele, «sei Limosino a tutto pasto e credi di farti bello contraffacendo la lingua di Parigi. Vieni, vieni qui che ti rifaccio la pettinatura».

Il povero Limosino cominciava a piagnucolare e Pantagruele lo prese per il collo.

«Tu scortichi il latino» gridava, «e io scortico te. Ti scortico vivo. Ti faccio vomitare l’anima, io!»

Tanto bastò perché il Limosino cambiasse registro:

«Ehi, dico, monsignor gentiluomo, vacci piano perdio, giù le mani, aiuto! ma cosa ti ho fatto io a te? Lasciami andare per la madonna. Oh, ma questo qui mi ammazza!»

«Adesso sì che parli schietto e naturale» disse Pantagruele allentando la presa. E poiché il meschino se l’era fatta nei calzoni, ch’erano a coda di merluzzo e quindi aperti sul didietro: «Per Santa Puzzola» esclamò, «che zibetto! Fila via alla svelta e che il diavolo t’inforchi, mangiarape della malora. Puzzi troppo!»

E con questo viatico lo lasciò andare per la sua strada.

Il Limosino ne rimase pieno di vergogna e di arsura per tutta la vita, tanto da dire spesso che Pantagruele lo prendeva alla gola39, e dopo pochi anni gli toccò di morire di sete come Orlando40, punendolo così la giustizia divina e mostrando quanto sia vero quello che dice il Filosofo e con lui Aulo Gellio: che è sempre meglio parlare secondo l’uso e che, come diceva Ottaviano Augusto, le parole inusitate sono da evitare con la stessa cura con cui i naviganti si guardano dagli scogli del mare.

CAPITOLO VII

Come Pantagruele andò a Parigi e i bei libri che trovò nella biblioteca di San Vittore

Dopo Orléans, avendo profittato assai bene nelle discipline di quell’università, Pantagruele decise di visitare la grande università di Parigi. Ma prima di partire venne informato che nei pressi della chiesa di Sant’Agnano, una grande, enorme campana giaceva impantanata al suolo da più di duecentoquattordici anni, perché tanto era grossa che non c’era stato verso di alzarla da terra nonostante ci avessero provato e riprovato con tutti gli accorgimenti di Vitruvio (De architettura), di Alberti (De re aedificatoria), di Erone (De ingeniis) nonché di Euclide, Theone e Archimede; accorgimenti che alla prova dei fatti non eran serviti a un bel niente. Per cui Pantagruele, ben contento di venire incontro all’umile richiesta dei cittadini di Orléans, decise di mettere la campana al suo posto, cioè sul campanile cui era destinata.

Recatosi infatti a Sant’Agnano e vista la campana, la sollevò da terra con il dito mignolo, così facilmente come potreste far voi con un sonaglino da sparviero; e prima di metterla a posto sul campanile volle far mattinata alla città andando a scampanare con quella per le strade di Orléans. E fu per tutti un gran divertimento, cui però tenne dietro una ben grave iattura, perché a quel frastuono che andava per le vie di porta in porta tutto il buon vino di Orléans fu mosso e si guastò. Del che la gente s’avvide soltanto la notte seguente, quando tutti furono presi da una così orribile sete per aver bevuto di quel vino infochito che non facevano altro che sputare; e sputavano bianco come il cotone di Malta. «Ci siamo presi una bella pantagruelite» gemevano, «e abbiamo il sale alla gola».

Fatto questo, Pantagruele se ne andò a Parigi con il suo seguito, e, come entrò in città, tutta la gente si rovesciò per le strade per vederlo, perché voi sapete bene che il sedizioso popolo di Parigi è sciocco al naturale, col bequadro e col bemolle. Tutti lo guardavano a bocca aperta e non senza gran paura che si prendesse sotto braccio il Palazzo di Città per portarlo magari in qualche luogo fuori mano come suo padre si era portato via le campane di Notre-Dame per attaccarle al collo della sua giumenta.

Dopo qualche tempo, essendosi dedicato convenientemente allo studio delle sette arti liberali, Pantagruele venne nella convinzione che Parigi era una città buona per viverci ma non per morirci, perché gli straccioni di Sant’Innocenzo si scaldavano il culo con le ossa dei morti41; e che la biblioteca di San Vittore era superlativamente magnifica soprattutto per alcuni libri che vi trovò; dei quali ecco il catalogo:

– Cariola salutis.

– Bragheta Juris.

– Pantofla Decretorum.

– Malogranatum Vitiorum.

– Il Bandolo teologale.

– Lo Spolverino dei predicatori, composto da Turlupino.

– Le Pachidermocoglie dei prodi.

– Le Fave porcine per vescovi.

– Marmotretus, De baboinis et cingis, cum commento Cecetorbi42.

– Decretum Universitatis Parisienis super muliercularum plenitudine tafanaria ac mamellaria ad libitum simulata.

– L’Apparizione di Santa Geltrude a una monaca che aveva il mal di madre.

– Ars honeste petandi in societate, per M. Ortuino43.

– La Mostardiera della penitenza.

– Lo Stivaletto di pece, ovvero il borzacchino della pazienza.

– Formicarium Artium.

– De brodiorum usu et honestate crapulandi, per Silvestrem Prieratem, Jacospinum44.

– Il Cornuto a corte.

– La Gerla dei notai.

– Le Coglie da matrimonio.

– Il Crogiolo di contemplazione.

– Le Bagatelle del Diritto.

– Il Pungolo del vino.

– Lo Sprone del formaggio.

– Depataccatorium scolarium.

– Tartaretus, De modo cacandi.

– Le Fanfare di Roma.

– Bricot, De differentiis zupparum.

– Il Culetto quaresimale.

– La Ciabatta dell’umiltà.

– Il Tripode dei buoni pensieri.

– Il Calderone di magnanimità.

– Gli Accrocchi dei confessori.

– Le Meringhe dei curati.

– Reverendi Patris Fratris Lubini, provincialis Pissipissiae, De sfanfanandis lardonibus libri tres.

– Pasquilli, Doctoris marmorei45, De capreolis cum articiocchis comedendis, tempore Papali ab Ecclesia interdicto.

– L’Invenimento della Santa Croce46, a sei personaggi, rappresentato dai dottor sottili.

– Gli Occhiali dei Romìpeti.

– Majoris, De modo faciendi budinos.

– La Cornamusa dei prelati.

– Beda, De optimitate triparum.

Il Compianto degli avvocati per la riforma delle sportule.

– I Garbugli dei procuratori.

– Sui Piselli al prosciutto, cum commento.

– La Profittarola delle indulgenze.

– Preclarissimi Juris Utriusque Doctoris Magistri Pilloti Grattabaiocchis, De Raffazonandis Glossae Accursianae Bagolis, Repetitio albaclarior dilucidissima47.

– Stratagemata Francarcieri, di Bagnolet48.

– Guardianuvole, De re militari, cum figuris Tevoti49.

– De usu et utilitate scorticandi caballos et caballas, authore Maestro nostro de Quebecu.

– La Malacreanza dei pretonzoli.

– Maestro nostro Rostocostogambadasina, De Mustarda post prandium servienda, lib. quatuordecim, apostillati da M. Vaurrillon.

– Il Coglionatico dei Promotori ecclesistici.

– Quaestio subtilissima, utrum chimera in vacuo volitans possit comedere secundas intentiones, et fuit debatuta per decem hebdomadas in concilio Costantiensi.

Il Cacafieno degli avvocati.

– Barbugliamenta Scoti.

– La Nottola dei Cardinali.

– De Speronibus removendis lib. undecim, per M. Albericum de Rosata.

– De castrametandis crinibus, lib. tres, dello stesso autore.

– L’Entrata di Antonio de Leiva nelle terre del Brasile50.

– Marforii Baccalarii Jacentis Romae, De strigliandis et paramentandis cardinalium mulis.

– Apologia dello stesso autore contro coloro i quali dicono che la Mula del Papa mangia solo alle sue ore.

– Prognosticatio que incipit «Silvi Zebedei ballata», per Magistrum nostrum Cattanimbos.

– Budarini episcopi, De emulgentiarum51 profictibus giaculatoriae novem, cum privilegio papali ad triennium et postea non.

Il Fichino delle Pulzelle.

– Il Culo spelato delle vedove.

– La Cocolla dei frati.

– Il Pissi-pissi dei Padri Celestini.

– Il Pedaggio dei manducanti52.

– L’Arrotadenti dei gaglioffi.

– La Trappola dei teologi.

– Il Punzone dei mastri d’arte.

– I Marmittoni di Ockam a tonsura semplice.

– Magistri nostri Strippaguazzettis, De lardellationibus horarum canonicarum libri quadraginta.

– Mazzaculum confratrium, incerto authore.

– La Caverna dei buzzoni.

– Il Lezzo degli Spagnoli, superdecantilicantato da Frate Inigo.

– L’Assenzio vermifugo dei lavamarmitte.

– Poltronismus rerum italicarum, authore Magistro Bruleferl53.

– R. Lullius, De baloccamentis principum.

– Parpagnaccatorium pinzoccheriae, authore M. Jacopo Hocstratem, hereticometra.

– Scaldacoglioni, De Magistro nostrandorum Magistro nostratorumque tabernis, lib. otto galantissimi54.

– Lo Spetazzamento dei bollisti, copisti, correttori, abbreviatori, referendari e datari, compilato da Mastro Regis.

– Almanacco perpetuo per Gottosi e Impestati.

– De modis spazzandi fornellos, per M. Eccium55.

– Lo Spago dei mercanti.

– Gli Agi della vita monacale.

– L’Intingolo dei bigotti.

– La Storia dei Farfarelli.

– La Pitoccheria dei Millesoldisti56.

– I Raggiri degli Officiali.

– La Pellicina dei battiloro.

– Balocatorium Sorboniformium.

– Antipericatametaparlamadoscamphicribationes fratrum merdicantium57.

– Il Friggiculo58 dei poetastri.

– Il Soffietto degli alchimisti.

– La Ficasfatta dei questuanti, rattacconata da Fra Stringiforte.

– Gli Impedimenti della Santa Regola.

– Il Batocchio dei campanari.

– Il Bastone della vecchiaia.

– La Musoliera della nobiltà.

– Il Padrenostro della scimmia.

– I Manichini di Divozione.

– La Marmitta delle Quattro Tempora.

– Il Mortaio della politica.

– Lo Scacciamosche degli Eremiti.

– La Barbuta dei Penitenzieri.

– Il tric trac dei monaci puttanieri.

– Mastro Buzzurro, De vita et honestate bellimbustorum.

Lyripipii sorbonici Moralisationes, per M. Leopoldum59.

– Le Pallependule dei viaggiatori.

– Potiones episcoporum vinolentium60.

– Tarraballationes Doctorum Coloniensium adversus Reuchlin61.

– I Cembali delle dame.

– La Martingala dei cacatori.

– Le Giravolte dei marcatori di pallacorda, di F. Piedipalle.

– Gli Scarponi del fegatoso.

– La Mascherata dei fistoli e dei folletti.

– Gerson, De deponendo pape ab Ecclesia.

La Treggia dei promossi e dei graduati.

– Giov. Riccobrodo, De terribilitate excomunicationum libellus acephalos.

– Ingegnositas invocandi diabolos et diabolas, per M. Guingolfum.

– Lo Spezzatino dei Trappisti.

– La Moresca degli eretici.

– Le Bevute62 di Gaetano.

– Immollagrugni doctoris cherubici, De origine gattemortuarum et torticollorum ritibus lib. septem.

– Sessantanove breviari in conserva di sugna.

– L’Epa croia dei cinque ordini dei Mendicanti.

– La Pelletteria dei mangialupini, estratto dal borzacchino giallo incornifistibulato nella Summa Angelica.

– L’Abbacone dei casi di coscienza.

– La Giara dei presidenti.

– Il Cazzodasino degli abati.

– Sutoris, Adversus quendam qui vocaverat eum farabulonatorem et quod farabulonatores non sunt damnati ab Ecclesia.

– Cacatorium medicorum.

– Lo Spazzacamino dell’Astrologia.

– Campi clysteriorum, per Symphorien Champier.

– Il Tirapeti degli speziali.

– Il Baciaculo di Chirurgia.

– Justinianus, De Cagotis tollendis.

– Antidotarium animae.

– Merlinus Coccaius, De patria diabolorum.

Dei quali alcuni sono già stampati e gli altri in corso di stampa in questa nobile città di Tubinga.

CAPITOLO VIII

Come Pantagruele, stando a Parigi, ricevette una lettera dal padre, e quello che vi era scritto

Come potete immaginare, Pantagruele studiava in modo egregio e profittava di conseguenza, perché egli possedeva un intendimento a doppio risvolto e una memoria della capacità di dodici otri più qualche botte da olio; e a Parigi, dove tuttavia dimorava, ricevette un giorno dal padre una lettera che diceva così:

«Mio caro figlio,

«Fra tutti i doni, grazie e prerogative onde il sovrano artefice, Dio onnipotente, ha dotato ed ornato l’umana natura fin dal suo primo cominciamento, singolare ed eccellente sembra a me la facoltà per la quale essa può, nel suo stato mortale, conseguire una sorta di immortalità e perpetuare, nel corso effimero di una vita, il proprio nome e la propria semenza. E ciò per discendenza da noi generata in legittimo matrimonio: venendoci così in qualche modo restituito quello che ci fu tolto a causa del peccato dei nostri primi parenti ai quali fu detto che, per aver disobbedito al comandamento di Dio creatore, sarebbero morti e che, con la morte, la nobilissima forma in cui l’uomo era stato plasmato sarebbe tornata nel nulla.

«Mercé questa propagazione seminale perdura nei figli ciò che si estinse nei genitori, e nei nipoti ciò che venne meno nei figli, e così di tempo in tempo fino al giorno del giudizio finale, quando Cristo Gesù avrà restituito al Padre Celeste il suo regno pacificato, immune ormai da ogni pericolo e contaminazione di peccato; perché a quel tempo la terrestre vicenda del nascere e del perire sarà terminata e gli elementi saranno affrancati dalle loro incessanti trasmutazioni, dacché la pace tanto desiderata sarà piena e compiuta e tutte le cose saranno pervenute alla perfezione del loro ultimo fine.

«Dunque non è senza giusta cagione, e ragionevole, che io rendo grazie a Dio, mio salvatore, per avermi egli concesso di veder rifiorita la mia canuta vecchiezza nella tua rigogliosa gioventù; giacché, al momento che, piacendo a Lui che tutto regge e governa, la mia anima si partirà da questa umana dimora, non mi parrà di morire totalmente, bensì di passare da un luogo in un altro, stante che in te e per te io rimango in questo mondo sotto visibile aspetto, vivendo, vedendo e conversando fra persone onorate e vecchi amici, com’era mia consuetudine. La quale consuetudine, mercé l’aiuto e la grazia divina, è stata non già senza peccato (lo confesso, perché tutti pecchiamo e ci volgiamo di continuo a Dio perché cancelli le nostre colpe) ma senza disonore.

«Per la qual cosa, se mai accadesse che in te non rifulgano le qualità dell’animo mio così come perdura l’immagine del mio corpo, tu non potresti essere riguardato come la gemma e il custode dell’immortalità del nostro nome, e io ben poco avrei di che gioire, considerando come sia preservata e fiorente la parte infima di me che è il mio corpo e degenerante invece e imbastardita la parte migliore: l’anima intendo, cui tutto è dovuto se il nostro nome resterà imperituro e benedetto fra le genti. Né questo ti dico per diffidenza che io abbia della tua virtù, che già conosco per prova, bensì per incoraggiarti a migliorare e perfezionarti ognor più. E neppure, con ciò che al presente ti scrivo, intendo esortarti a vivere più nobilmente, quanto piuttosto a gioire di aver vissuto e di vivere così, e a riprendere lena e coraggio per gli anni a venire.

«Ad avviare e condurre a buon fine una simile impresa puoi ben rammentare che nulla ho risparmiato, che anzi in ciò ti ho assistito come se nulla al mondo avessi di più prezioso che di vederti un giorno uomo compiuto e perfetto, tanto in virtù, dignità e probità, quanto in ogni dottrina liberale e onorevole, e di lasciarti dopo la morte tal quale uno specchio raffigurante la persona di me tuo padre e, se non così eccellente di fatto come ti auguro, tale almeno e sicuramente nel desiderio.

«Ma ancorché mio padre Gargamagna, di buona memoria, avesse posto ogni cura nel farmi avanzare al possibile in ogni perfezione e dottrina di governo, e ancorché il mio lavoro e il mio studio corrispondessero assai bene e andassero persino al di là delle sue aspirazioni, i tempi tuttavia, come tu puoi comprendere, i tempi non erano così propizi né adatti alle buone lettere come lo sono oggidì, né io ho potuto avere tanti e tali precettori quali invece hai potuto avere tu.

«I tempi erano ancora tenebrosi e ancora pativano le afflizioni e le calamità della gotica barbarie che aveva fatto scempio di ogni buona letteratura. Ma oggi – bontà divina – è stata restituita alle lettere luce e dignità, ed io vedo in questo tale un avanzamento che ora a stento sarei ammesso alle prime classi degli scolaretti, io che nella mia età virile ero reputato, e non a torto, il più dotto del secolo. Né questo io dico a te per vana iattanza (benché potrei pur farlo scrivendoti, giusta l’autorità di Cicerone – De Senectute – e conforme la sentenza di Plutarco nel libro Sul lodarsi da se stesso senza invidia) bensì per accendere l’animo tuo a più alte ambizioni.

«Adesso tutte le discipline sono rimesse in onore, le lingue restituite: il Greco – senza il quale è vergogna che una persona possa chiamarsi dotta –, l’Ebraico, il Caldaico, il Latino; e sono in uso stampe mirabilmente eleganti e corrette che furono inventate ai miei tempi per ispirazione divina, così come, al contrario, per consiglio diabolico, le artiglierie63. Il mondo, oggidì, è pieno di gente colta, di precettori dottissimi, di grandissime biblioteche, e io penso che nemmeno ai tempi di Platone, di Cicerone o di Papiniano vi fossero tante opportunità di studio quante se ne trovano oggi e che d’ora in avanti non si darà più il caso di dover incontrare per strada o in conversazione persona che non siasi dirozzata nell’officina di Minerva. Io vedo i briganti, i carnefici, gli avventurieri, gli staffieri di oggi più dotti dei dottori e predicatori del mio tempo.

«E che più? Le donne e le fanciulle aspirano anch’esse a questo vanto, a questa manna celeste che è la buona dottrina; di guisa che io, all’età in cui mi trovo, ho dovuto acconciarmi ad apprendere la lingua dei Greci; non già ch’io l’avessi disprezzata, come Catone, ma perché non si dava, al tempo della mia giovinezza, alcuna opportunità di studiarla, e volentieri oggi mi diletto a leggere i Moralia di Plutarco, i bei Dialoghi di Platone, i Monumenti di Pausania, le Antichità di Ateneo, aspettando l’ora in cui piacerà a Dio mio signore di trarmi da questo asilo terreno chiamandomi a sé.

«Per cui, figlio mio, ti ammonisco a che tu impieghi la tua giovinezza a ben profittare e in dottrina e in virtù. Tu vivi a Parigi ed hai Epistemone per tuo precettore; l’uno potrà istruirti con i suoi insegnamenti a viva voce, l’altra con commendevoli esempi.

«Io intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente: in primo luogo il Greco, come prescrive Quintiliano; in secondo luogo il Latino; e poi l’Ebraico per le sacre scritture, e il Caldaico anche e l’Arabico. E che tu modelli il tuo stile sull’esempio di Platone quanto al Greco e di Cicerone quanto al Latino, e che non vi sia storia la quale tu non tenga a mente, al che ti aiuterà la Cosmografia di coloro che ne hanno scritto.

«Per quel che riguarda le arti liberali – geometria, aritmetica e musica – io ti ho aiutato a prendervi qualche piacere quando eri ancora bambino, in età di cinque o sei anni; non le trascurare e apprendi ciò che resta. Dell’astronomia dovrai conoscere tutte le leggi; e lascia pur perdere l’astrologia divinatoria e l’arte di Lullo64 come quelle che sono inganno e vanità. Del diritto civile voglio che tu sappia i testi a mente e me li esponga con argomentazioni filosofiche.

«Quanto ai fatti della natura dovrà guidarti la volontà di tutto conoscere: che non vi sia mare, fiume o fontana che tu non sappia i pesci che vi stanno; e così per gli uccelli dell’aria, gli alberi tutti e arbusti e frutici della foresta, tutte le erbe della terra, tutti i metalli nascosti nelle profondità degli abissi, tutte le pietre preziose d’Ostro e d’Oriente, e che nulla ti rimanga ignoto.

«Rivediti con cura i libri dei medici Greci, Arabi e Latini, senza disdegnare Talmudisti e Cabalisti; con frequenti anatomie procura di acquistare una perfetta conoscenza di quell’altro universo che è l’uomo; e in fine per qualche ora ogni giorno datti a leggere le Sacre Scritture: prima di tutto il Nuovo Testamento e le Lettere degli Apostoli, in Greco, e poi, in Ebraico, il Vecchio Testamento.

«E voglio poi che al più presto tu dia prova di quanto hai profittato, il che non in modo migliore potrai fare che cimentandoti pubblicamente in dissertazioni d’ogni disciplina, con tutti e contro tutti, e usando con persone dotte, a Parigi come altrove.

«Ma – poiché secondo il saggio Salomone Sapienza mai non alberga in cuore malvagio e Scienza senza Coscienza altro non è che rovina dell’anima – ti converrà servire il tuo Dio, amarlo e temerlo riponendo in lui ogni tuo pensiero e speranza; e con fede fatta carità tenerti a Lui così stretto che mai il peccato te ne separi. Guardati dalle lusinghe del mondo; non perdere il tuo cuore in cose vane perché questa vita è peritura, ma la parola di Dio dimora eterna. Servi il tuo prossimo e amalo come te stesso. Onora i precettori. Fuggi la compagnia di quelli ai quali non vorresti somigliare, e fa che non siano vane le grazie che Dio ti ha elargito. E quando capirai di aver conseguito tutto il sapere dei libri e dei maestri di costà, ritorna a me ch’io ti veda e possa darti la mia benedizione prima di morire.

«Figlio mio, la pace e la grazia del Signore siano sempre con te. Amen.

«Da Utopia, questo diciassettesimo giorno del mese di marzo,

«Tuo padre,

Gargantua».

Ricevuta questa lettera, Pantagruele prese nuovo coraggio e si buttò a studiare con più slancio e più profitto che mai, di sorta che a vederlo così infervorato a imparare sempre più avreste detto che il suo spirito fra i libri era come il fuoco in uno scopeto, tanto appariva infaticabile e crepitante.

CAPITOLO IX

Come Pantagruele incontrò Panurgo, che amò per tutta la vita

Passeggiava un giorno Pantagruele fuori città, conversando e filosofando coi suoi e con alcuni studenti, quando, nei pressi dell’Abbazia di Sant’Antonio, vide farglisi incontro un uomo di bella statura e di nobili lineamenti, ma così pieno di ferite, sgraffi e lividure, e così sbrindellato e sudicio da far pensare a un raccoglitore di mele del paese di Perche o addirittura a un vagabondo appena scampato alla furia dei cani.

«Guardate quell’uomo che viene dal ponte Charenton» disse subito Pantagruele. «Parola mia, quello non è nato straccione come sembra, anzi di ricca e nobilissima stirpe. Si capisce al solo portamento. Sono le avventure che capitano alle persone irrequiete e avide di conoscenza che l’hanno ridotto così». E come l’uomo si fu avvicinato, lo pregò di fermarsi e di rispondere alle sue domande. «Non ve ne pentirete» soggiunse, «amico mio, perché le strettezze in cui vi vedo mi ispirano una grande pietà e io ho un gran desiderio di aiutarvi quanto posso. Chi siete? Donde venite? Dove andate? Cosa cercate? Qual è il vostro nome? Parlate, amico mio».

Lo sconosciuto si fermò e gli rispose in tedesco:

«Juncker, Gott geb euch Glück unnd hail. Zuvor, lieber Juncker, ich las euch wissen, das da ihr mich von fragt, ist ein arm unnd erbarmglich ding, unnd wer vil darvon zu sagen, welches euch verdruslich zu haeren, unnd mir zu erzelen wer, vie vol, die Poeten unnd Orators vorzeiten haben gesagt in iren Sprüchen und Sententzen, das die Gedechtnus des Ellends unnd Armuot vorlangst erlitten ist ain grosser Lust»65.

Al che Pantagruele:

«Amico mio, questa vostra lingua bislacca io non la capisco. Perciò, se volete che v’intenda, spiegatevi altrimenti».

E l’«amico», di rimando:

«Al barildim gotfano dech min brin alabo dordin falbroth ringuam albaras. Nin porth zadilkin almucathim milko prim al elmin enthoth dal heben ensouim: kuth im al dim alkatim nim broth dechoth porth min michas im endoth, pruch dal maisoulum hol moth dansririm lupaldas im voldemoth. Nin hur diavolth mnarbothim del gousch pal frapin duch im scoth pruch galeth dal chinon, min foulthrich al conin butathen doth dal prim»66.

«Voi ci avete capito niente?» chiese Pantagruele guardandosi attorno.

«Io credo» disse Epistemone, «che sia la lingua degli Antipodi. Nemmeno il diavolo ci caverebbe le corna».

«Compare» disse allora Pantagruele, «io non so se vi capiscano i muri: noi no di certo».

E il viandante:

«Signor mio, voi vedete per essempio che la cornamusa non suona mai s’ela non a il ventre pieno; cosi io parimente non vi saprei contare le mie fortune, se prima il tribulato ventre non a la solita refectione, al quale è adviso che le mani et li denti habbiano perso il loro ordine naturale et del tuto annichillati».

«Come prima, peggio di prima» disse Epistemone.

«Lard» disse allora il viandante, «ghest tholb be sua virtiuss be intelligence ass yi body schall biss be naturall relvtht, tholb suld of me pety have, for nature hass ulss egualy maide; bot fortune sum exaltit hess, and oyis deprevit. Non ye less viois mou virtiuss deprevit and virtiuss men descrivis, for, anen ye lad end, iss non gud»67.

«Zuppa e pan bagnato», disse Pantagruele.

Al che lo sconosciuto:

«Jona andie, guaussa goussyetan behar da er remedio beharde versela ysser landa. Anbates oyto y es nausu eyn essassu gour ray proposian ordine den. Nonyssena bayta facheria egabeb genherassy badia sadassu nouraa ssia. Aran hondovan gualde cydassu nay dassuna. Estou oussyc eguinan soury hin er darstura eguy harm. Genicoa plasar vadu»68.

«Genicoa Genicoa!69 Volete forse dire che vi chiamate Genicoa?» disse Eudemone.

«Per San Tregnano!» esclamò a sua volta lo staffiere Carpalim. «Sapete che ero lì lì per capire? Per me questo qui è uno scozzese».

E Panurgo parlò per la sesta volta:

«Prug grest frins sorgdmand strochdt drhds pag brlelang Gravor Chavigny Pomardière rusth pkalhdracg Devinière près Nays. Bouille kalmuch monach drupp delmeupplist rincq dlrndodelb up drent loch minc stz rinquald de vins ders crodelis but jocststzampenards»70.

«Ma insomma, amico» disse Epistemone, «parlate cristiano o la vostra è la lingua di Pathelin?71 Ma no, ma no, ho capito: è la lingua del paese delle Lanterne».

Allora, con l’aria di scusarsi, Panurgo parlò in olandese:

«Heere, ie en spreeke anders geen taele, dan kersten taele: my dunct nochtans, al en seg ie u niet een woordt mynen nood verklaart ghenonch wat ie beglere; gheest my wyt bermherticheyt yet waer un ie ghevoed magh zunch»72.

«Buio pesto!» disse Pantagruele.

«Seignor» disse allora il viandante, «de tanto hablar yo soy cansado. Por que suplico a Vuestra Reverencia que mire a los preceptos evangelicos, para que ellos movant Vuestra Reverencia a lo que es de consciencia; y si ellos non bastarent para mover Vuestra Reverencia a piedad, yo supplico que mire a la piedad natural, la qual yo creo que le movra como es de razon, y con esto non digo mas»73.

«Amico» sospirò Pantagruele, «io non dubito affatto che voi sappiate parlare alla perfezione lingue diverse; ma diteci per piacere ciò che vi serve in una lingua che noi possiamo intendere».

«Myn Herre» ricominciò Panurgo per tutta risposta, «endog, jeg med inghen tunge ta lede, lygeson boeen, ocq uskuulig creatner! Myne Kleebon och my ne legoms magerhed udviser alligue klalig huuad tyng meg meest behoff girered somder sandeligh mad och drycke: hvuarpor forbarme teg omsyder offuermeg; oc befarlat gyffuc meg nogueth; aff hvylket ieg kand styre myne groeendes magher lygeruff son man Cerbero en soppe forsetthr. Soa shal tuloeffue lenge och lycksalight»74.

«Io credo» disse Epistemone, «che i Goti parlassero così. E se Dio lo volesse, anche noi potremmo parlare così, col culo».

Ma l’«amico» non si perse d’animo:

«Adoni» disse, «scholom lecha: im ischar harob hal habdeca, bemeherah thithen il kikar lehem, chancatbub: Laah al Adonia chonenral»75.

«Finalmente ho capito» esclamò Epistemone, «questo è ebraico della più bell’acqua, e di bella pronuncia, anche!»

Lo sconosciuto scosse la testa:

«Despota tinyn panagathe» disse, «diati sy mi uc artodotis? horas gar limo analiscomenon eme athlios. Ce en to metaxy eme uc eleis udamos, zetis de par emu ha u chre, ce homos philologi pantes homologusi tote logus te kerhemata peritta hyparchin, opote pragma afto pasi delon esti. Entha gar anankei monon logi isin, hina pragmata (hon peri amphisbetumen) me phosphoros epiphenete»76.

«Ma è chiaro!» gridò Carpalim. «Parla greco! Io l’ho capito benissimo. Com’è questa storia? Hai abitato da quelle parti?»

«Agonou dont oussys» replicò ancora Panurgo, «vou denaguez algaron, nou den farou zamist vou mariston ulbrou, fousquez vou brol tam bredaguezmoupreton den goul houst, daguez daguez nou croupys fost bardou noflist nou grou. Agou paston tol nalprissys hourtou los echatonous, prou dhouquys brol panygou den bascrou nou dous cagnous goulfren goul oust troppassou»77.

Questa volta fu Pantagruele a credere di averci capito qualcosa. «Dalla pronuncia» disse, «mi par proprio che sia la parlata del mio paese di Utopia». E stava per intraprendere una conversazione quando quello gli tolse la parola di bocca protestando altamente in latino:

«Jam toties vos, per sacra, perque deos deasque omnis obtestatus sum, ut, si qua vos pietas, permovet, egestatem meam solaremini, nec hilum proficio clamans et ejulans. Sinite, queso, sinite, viri impii, Quo me fata vocant abire, nec ultra vanis vestris interpellationibus obtundatis, memores veteris illius adagi, quo venter famelicus auriculis carere dicitur»78.

«Ma insomma, amico mio, proprio non sapete parlare in francese?» disse Pantagruele.

«Come no?» fu la risposta. «Lo parlo benissimo, grazie a Dio. Il francese è la mia lingua naturale e materna. Io, se non lo sapete, sono nato nel giardino di Francia, in Turenna appunto, e là ho vissuto la mia prima giovinezza».

«Ma allora, in nome di Dio» esclamò Pantagruele, «raccontate, diteci il vostro nome e di dove venite, perché, parola mia, sono talmente preso di simpatia per voi che, se vi piacerà, se sarete d’accordo, non vi allontanerete mai più dal mio fianco, e faremo una nuova coppia di amici per la vita, né più né meno di Acate ed Enea».

«Signore, il mio nome di battesimo, quello vero, è Panurgo, e al presente vengo dalla Turchia, dove fui condotto prigioniero quando, all’assedio di Mitilene79 andammo tutti alla malora, e volentieri vi racconterei le mie peripezie che sono ancor più straordinarie di quelle di Ulisse; ma poiché vi piace tenermi con voi – e io acconsento con gioia, né mai vi lascerò quand’anche vi piacesse di andare a tutti i diavoli – avremo tutto il comodo di parlarne a miglior tempo, perché, per adesso, io ho bisogno urgentissimo di mangiare: denti affilati, ventre vuoto, una fame che stride; insomma tutto a punto; e se vorrete mettermi alla prova, sarà uno spasso vedermi mandar giù. Date ordini in nome di Dio!»

Pantagruele allora comandò che lo scortassero alla sua dimora e là gli apparecchiassero ogni ben di Dio. Così fu fatto, e Panurgo desinò splendidamente, andò a letto con le galline e dormì fino all’indomani all’ora del pranzo, di modo che non gli ci vollero più di tre passi e un salto per rimettersi a tavola.

CAPITOLO X

Come Pantagruele fu invitato a dirimere una controversia meravigliosamente oscura e difficile e come giudicò con tal senso di giustizia che la sua sentenza fu dichiarata altamente ammirevole

Un giorno Pantagruele, non dimentico delle lettere e degli ammonimenti di suo padre, volle mettere alla prova il suo sapere, e fece affiggere nei crocicchi della città ben novemilasettecentosessantaquattro enunciati su tutto lo scibile, attinenti alle questioni più controverse di ciascuna scienza.

Per cominciare, in via della Paglia, si misurò con tutti i professori, studenti di filosofia ed altri oratori, e tutti li mise culo a terra.

Poi, alla Sorbona, tenne testa a tutti i teologi per sei settimane, dalle quattro del mattino alle sei di sera, salvo due ore di intervallo per mangiare e ristorarsi, con licenza altresì per i dottori sorbonicoli di sbevazzare e rinfrescarsi alle loro abituali baccanelle. E a queste dispute furono presenti quasi tutti i signori della Corte: referendari, presidenti, consiglieri, magistrati della camera dei conti, segretari, avvocati e altri, come pure gli scabini della città, medici e canonisti. E notate che la più parte di costoro mordevano il freno, ma nonostante tutti i loro ergo e sofismi e paralogismi, li fece tutti di sale e dimostrò loro solennemente ch’essi altro non erano che vitelli togati.

Per cui la sua fama prese il volo e dovunque era un gran dire del suo sapere meraviglioso. Ne parlavano persino le donnette: lavandaie, ruffiane, rosticciere, coltellinaie e altre ancora, le quali, al vederlo passare, dicevano «È lui!». E lui ne prendeva piacere come Demostene, il principe degli oratori greci, allorché una vecchietta accoccolata, segnandolo a dito, disse «Ecco, è quello là!».

Pendeva a quel tempo davanti alla corte una lite tra due gran signori: il signor de’ Baciaculi da una parte, querelante, e il signor de’ Fiutapeti, convenuto, dall’altra. E la loro controversia era così ardua e sottile in linea di diritto che, per la corte del Parlamento, era come sentir parlare ostrogoto. Ragion per cui, per ordine del re, furono convocati i quattro dignitari più dotti e più panciuti di tutti i parlamenti di Francia, nonché il Gran Consiglio al completo e i più famosi accademici delle università non soltanto francesi, ma anche di Inghilterra e d’Italia, come Giasone, Filippo Decio, Petrus de Petronibus e un mucchio di altri vecchi parrucconi80.

Così riuniti per quarantasei settimane, non erano riusciti a cogliere e tantomeno a definire il nocciolo della questione sì da poterne giudicare in un modo qualsiasi al lume del diritto, e n’erano talmente confusi e inveleniti che si cacavano sotto per la vergogna.

Ma un giorno ch’erano tutti là, filobrighimpastoiati di cervello, uno di loro chiamato Du Douhet, il più esperto e prudente di tutti, parlò così:

«Signori, è già gran tempo che siamo qui senza far altro che perdere il fiato e non riusciamo a toccar fondo né sponda di questa materia, che anzi quanto più cerchiamo di farvi luce tanto più oscura diventa. Ecco allora che cosa ho pensato. Voi tutti certamente avrete udito parlare di quel grande personaggio, chiamato Mastro Pantagruele, il quale nelle grandi dispute da lui pubblicamente e contro tutti sostenute, è stato riconosciuto uomo sapientissimo al di là di ogni possibilità del nostro tempo. Io sono dell’avviso di chiamarlo a noi, così che noi possiamo conferire con lui intorno a questo affare, perché, se non ne viene a capo lui, nessun altro mai vi riuscirà». Alla quale proposta, quei dottori e consiglieri unanimemente acconsentirono.

E infatti lo mandarono subito a cercare e lo pregarono di voler riordinare e setacciare ben bene tutto il dibattimento e riferirne a loro in quei termini ch’egli ritenesse conformi alla vera scienza del giure; e rimisero poi nelle sue mani i sacchi con tutte le carte – titoli ed atti – che, messi insieme, facevano il carico di quattro asini grandi e robusti.

Ma Pantagruele volle sapere se quei due messeri che avevano impiantato la lite fossero ancora in vita, e gli fu risposto che sì. «Allora» dichiarò, «a che diavolo serve tutto questo pattume di carte, duplicati, atti e contratti? Non è meglio sentir le loro ragioni dalla viva voce e dell’uno e dell’altro, invece di rompersi la testa a leggere tutte queste babbuinerie che non sono altro che inganni, arti diaboliche, cautele di Mastro Cipolla81 e travisamenti del diritto? Perché io sono certo che voi e tutti quelli che hanno avuto per le mani questo processo ci avete strologato sopra a più non posso et pro et contra, e quand’anche la controversia fosse chiara e patente e di facile soluzione, voi l’avete resa oscura con le sciocche e sragionevoli ragioni e le opinioni inette degli Accursio, dei Baldo, dei Bartolo, dei Castro, dei De Imola, degli Ippolito, dei Panormo, dei Bartacchino, degli Alessandro, dei Cursio e di tutti quegli altri vecchi mastini che non hanno mai capito una virgola di tutte le pandette, perché non hanno in testa una sola briciola di quel che serve alla intelligenza delle leggi.

«Giacché, come ormai è ben certo, essi non sapevano né di greco né di latino, ma soltanto di gotico e barbarico. Mentre che le leggi vengono a noi primamente dai Greci, come ne attesta Ulpiano, al libro II, De origine juris82, e tutte son piene di sentenze e vocaboli greci; e in secondo luogo sono redatte nello stile più elegante ed ornato che vanti la lingua latina, non facendo eccezione, a mio gusto, né per Sallustio o Varrone, o Cicerone, o Seneca, o Livio o Quintiliano. Come avrebbero dunque potuto, questi vecchi farnetici, comprendere il testo delle leggi, loro che non videro mai un libro di buona lingua latina, come appare chiaramente dal loro stile che è stile da spazzacamini, da cuochi e marmittoni e non certo da giureconsulti?

«Inoltre, visto che le leggi son tratte dall’essenza della filosofia morale e naturale, come avrebbero potuto intenderle questi matti che han studiato filosofia tanto quanto e non più, anzi di meno della mia mula? Quanto poi alle umane lettere e alla conoscenza della storia e delle antichità, essi n’erano onusti quanto un rospo è carico di penne e se ne giovavano quanto un crocefisso di un piffero83, mentre tutte le leggi ne son piene, né possono essere intese senza di quelle come un giorno dimostrerò più distesamente per iscritto.

«Conseguentemente, se volete ch’io prenda cognizione del processo, in primo luogo mi consentirete di dare alle fiamme tutte queste carte, e in secondo luogo farete comparire davanti a me personalmente i due gentiluomini e, quando li avrò ascoltati, vi dirò la mia opinione senza infingimenti o dissimulazioni».

Su questo alcuni avevano da ridire, perché come sapete, in tutte le adunanze son più i matti che i savi e sempre succede che i più han ragione dei meno come dice Tito Livio a proposito dei Cartaginesi84. Ma il detto Du Douhet tenne fronte con fermezza, sostenendo che Pantagruele aveva ben parlato e che tutti quei verbali, comparse, requisitorie, repliche, ricuse e controricuse e altrettali diavolerie non erano altro che sovversioni del diritto, buone soltanto a far durare eterne le liti, e che il diavolo avrebbe fatto una sola infornata di tutti loro se non avessero cambiato registro operando secondo l’evangelica e filosofica equità.

Conclusione: tutte le carte furono bruciate e i due gentiluomini convocati personalmente.

«Siete voi le parti in causa di questa grande controversia?» chiese loro Pantagruele.

«Sì, signore» risposero.

«Chi di voi è l’attore?»

«Sono io» disse il signor de’ Baciaculi.

«Ebbene, amico mio, esponetemi punto per punto l’affare, conforme verità, perché, ziocristo, se sgarrate una virgola dal vero, io vi stacco la testa dalle spalle, per dimostrarvi che in tribunale davanti alla Giustizia si deve dire la verità e nient’altro che la verità. E dunque guardatevi bene di nulla aggiungere e nulla togliere alla descrizione del vostro caso. Parlate».

CAPITOLO XI

Come il signor de’ Baciaculi e il signor de’ Fiutapeti si difesero senza avvocati davanti a Pantagruele

Allora il signor de’ Baciaculi esordì nel modo seguente:

«Signore, la verità vera è che una brava donna di casa mia portava a vendere delle uova al mercato...»

«Tenete pure in capo, Baciaculi» disse Pantagruele.

«Mille grazie, signore. Ma il fatto si è che proprio quel giorno, nemmeno a farlo apposta (avendo saputo che sui monti Rifei c’era stata quell’anno una gran carestia di patacche dovuta a una sedizione di frottole insorta fra gli Arruffoni e gli Accursieri a causa della ribellione degli Svizzeri che si erano radunati in numero di tre, sei, nove, dieci, per andare all’agucchianovo, il primo buco dell’anno, sì, quando si lascia la zuppa ai buoi e la chiave del carbone alle ragazze perché diano l’avena ai cani) un carlino e sei baiocchi se ne andavano chiotti chiotti verso lo Zenit.

«Naturalmente, tutta la notte, pinte alla mano, non si fece che spedire bolle su bolle, a piedi e a cavallo, per trattenere i battelli, perché quei ladroni dei sarti, con gli scampoli messi da parte, volevano fare nientemeno

una canna tirasassi

per riempire il mar di massi,

senza considerare che già per conto suo e conforme l’opinione dei fienaioli, era già bello e ingravidato di una pignattata di broccoli; benché i medici, esaminate le orine, andassero dicendo

non esser risultato

che al passo dell’ottarda

avesse mai mangiato

roncole con mostarda;

salvo che i Signori della Corte non ingiungessero al malfrancese di non andar più a racimolare dietro ai magnani con l’infuso di bemolle, tenuto conto che gli accattoni avevano già cominciato, con tanto di diapason,

a ballare il passamezzo,

un piede al fuoco,

la testa nel mezzo,

come diceva il buon Ragot85.

«Perché, voi lo sapete, o signori! È Dio che tutto modera e governa a piacer suo; e un carrettiere che volle aggiogare la matta fortuna, frusta e rifrusta, ci rimise lo sferzino. Questo avvenne al ritorno dalla Bicocca86, allorché Mastro Antito de’ Crescioni fu addottorato in filocrestozotica, come dicono i canonisti: Beati zotici quia ipsi scapuzzaverunt.

«Ma cos’è – per San Fiacre! – che fa sì alta la quaresima?

È che la Pentecoste

mai non viene che non mi coste.

Ma tira avanti contento

che poca pioggia abbatte gran vento.

«Sempreché, naturalmente, il sergente non mi abbia messo il segno al bersaglio così in alto che il cancelliere non se ne circumlecchi le dita con tutte le penne del maschio dell’oca che ci ha messo su; e noi vediamo chiaramente che ognuno se la prende con il proprio naso, salvo che non guardasse in prospettiva, con i suoi stessi occhi, verso il caminetto, nel punto dove pende l’insegna del vino da quaranta bretelle, ch’è il minimo indispensabile per venti calzette di quinquennalità. O almeno che alcuno non pensi di sciogliere il falcone prima dei gnocchi – e invece lo scappuccia – perché spesso si perde la memoria, se uno si mette i calzoni alla rovescia. Ecco! E che Dio protegga da ogni male Tebaldo Mitaine!»

«Calma calma!» disse Pantagruele. «Calma, amico mio. Una cosa alla volta e senza scaldarvi tanto. Ho capito il caso: proseguite».

«Veramente» riprese Baciaculi, «è giusto quel che si dice che qualche volta è bene avvisare la gente, perché uomo avvisato è mezzo salvato. Ma la brava donna di cui sopra, voi lo capite, mentre è là che snocciola i suoi pateravegloria, non può mica coprirsi di un falso rovescione montante in forza dei privilegi dell’università. Se mai dovrebbe scaldarsi ben bene il letto all’inglese, coprendolo con un sette di quadri e tirandogli una stoccata volante il più possibile accosto al cantone dove si vendono gli stracci vecchi che adoprano i pittori di Fiandra quando, a buon diritto, si affannano a mettere i ferri alle cicale; e allora io mi stupisco assai che la gente non faccia le uova, visto che è così bello covare».

A questo punto il signor de’ Fiutapeti voleva mettere bocca, ma Pantagruele lo redarguì:

«Per le trippe di Sant’Antonio!» gridò. «Chi ti ha detto di parlare? Io son qui che mi arrovello a capire la procedura della vostra contesa e tu, per giunta, mi vieni a frastornare il cervello. Fai silenzio. Silenzio dico, corpo del diavolo! Parlerai quanto ti pare, ma quando ti tocca. Avanti» disse poi al Baciaculi, «continuate con ordine e senza fretta».

«Avendo dunque considerato» riprese Baciaculi, «che la prammatica sanzione non ne faceva alcun cenno e che il Papa, di conseguenza, concedeva licenza a ciascuno di scoreggiare a suo talento, purché la fodera dei pantaloni non ne risultasse impressa e striata, quale che fosse la miseria del mondo, con divieto però di segnarsi con la mano sinistra del fottitoio, chiaro è che l’arcobaleno molato di fresco a Milano per fare uscire le allodole dal guscio, consentì alla brava donna di scalcagnare le sciatiche con la scusa della protesta dei piccoli pesci coglioni che, per allora, erano indispensabili per capire come si costruiscono i vecchi stivali.

«Pertanto, Giovanni La Vacca, riscosso il cugino Gervaso da un carico di fascine, lo sconsigliò di correre il rischio di riscaldare il ranno quando bolle, senza prima temprare la carta nell’allume, per poi finire come al solito a zitta gallina la volpe è vicina87, poiché:

Non de ponte vadit, qui cum sapientia cadit,

atteso che i signori della Camera dei Conti non si mettevano d’accordo sull’ammontare dei flauti alemanni usati per la costruzione degli Occhiali dei Principi88 ristampati ad Anversa.

«Ed ecco, o signori, il bel risultato di un rapporto monco: e io credo alla parte avversaria in sacer verbo dotis89, perché, volendo ottemperare al volere del re, io mi ero armato da capo a piedi di un panzerone a quadratini per andare a vedere in che modo i miei vendemmiatori avevano frastagliato i loro berretti per suonare meglio i corbelli, ed erano i tempi alquanto minacciosi della cacarella, per cui parecchi Guardianuvole90 erano stati esclusi dalla rassegna, sebbene i camini fossero abbastanza alti giusta le proporzioni delle pustole e malandre dell’amico Bautichon.

«Ragion per cui, in tutto il paese dell’Artois si ebbe l’annata grassa delle lumache, che non fu un ingrasso da poco per i signori portaceste, quando, senza nemmeno tirar fuori il coltello si mangiavano galligrù91 a panciasciolta. E dipendesse da me che tutti avessero una così bella voce! Ché allora si potrebbe giocare assai meglio a pallacorda, e tutte le piccole astuzie che si ricavano etimologizzando le ciabatte scenderebbero più agevolmente alla Senna, in servizio perpetuo al Ponte dei Mugnai, come a suo tempo fu decretato dal re dei Canariani il cui editto è ancora conservato nella cancelleria di qui.

«Per questo, signore, io faccio istanza a che, dalla signoria vostra, sia detto e dichiarato ciò che è di ragione sul caso in esame, con spese, danni e interessi».

Qui Baciaculi si tacque, e alla domanda di Pantagruele se avesse nulla da aggiungere rispose che no: che aveva già detto tutto il tu autem92 senza svariare di un ette, sul suo onore.

Pantagruele allora si volse al signor de’ Fiutapeti:

«A voi, dunque. Dite, dite pure. In breve se possibile, ma senza tralasciare nulla di essenziale. Parlate».

CAPITOLO XII

Come il signor de’ Fiutapeti perorò la sua causa davanti a Pantagruele

E allora il signor de’ Fiutapeti esordì nel modo seguente:

«Mio signore, signori, se la nequizia degli uomini apparisse al nostro giudizio così chiara e palese come una mosca nel latte, il mondo – questi quattro cornuti – non sarebbe così rosicchiato dai topi come invece è, e molte nobilissime orecchie date vigliaccamente in pasto ai cani sarebbero ancora in ascolto sopra la terra. Infatti, sebbene tutto ciò che ha detto la parte avversa sia barba autentica di primo pelo riguardo alla sostanza del factum – tuttavia, signori, sotto un tal vaso fiorito di bellissime rose, si celano capziosità ed inganni, astuzie e gherminelle.

«Dovrò dunque sopportare che, mentre mangio la mia zuppa in santa pace e in pari con tutti, senza sparlare né pensar male di alcuno, mi si venga a sfruconare e intronare il cervello suonandomi la chiaranzana e dicendo:

Chi zuppa e vino insieme manda giù

dopo che è morto non ci vede più?

«Santa madonna!, dico io, chi non ha visto le mille volte fior di capitani sul campo di battaglia, quando fioccano sventole di pan bagnato nell’acqua santa della confraternita, pizzicare il liuto, far trombetta di culo e saltellare sulla predella per bilanciarsi meglio con i loro scarpini tutti ben fibulati e frastagliati a barba di gambero? Ma adesso, con la smania dei lucchi di lana inglese, tutto il mondo è sossopra: chi si dà alla dissolutezza, chi pensa soltanto a coprirsi il muso contro la tramontana; e se la corte non corre ai ripari, sarà un brutto spigolare quest’anno. Ma la sagra dei càntari andrà ancor peggio.

«Se un povero impestato va a chiudersi nei forni per farsi alluminare la faccia di merda di vacca o va a comprarsi un paio di scarpe nuove da inverno, e ai gendarmi di passaggio o a quelli della ronda, mentre fanno baracca, gli piove addosso un decotto da clistere o la materia fecale d’una seggetta, si dovrà per questo far la tonsura alle zucche o cuocere a spezzatino le ciotole di ontano?

«Non di rado succede – ben lo sappiamo – che l’uomo propone e Dio dispone, e quando il sole è tramontato tutte le bestie sono all’ombra. Né io pretendo di essere creduto se non per testimonianza inoppugnabile di persone di specchiata onestà.

«Nel ’36 io avevo comperato un cortalto d’Alemagna – alto e corto, beninteso – nonché di buona lana e di color granato, con tanto di fideiussione dei battiloro; e tuttavia il notaio vi appose i suoi etcetera. Io non sono così buon sofista da addentare la luna, ma nel vaso del burro dove si tengono in conserva i ferri di Vulcano correva voce che il manzo salato avesse virtù di far trovare il vino a mezzanotte senza candela, fosse pure nascosto nel fondo di un sacco di carbone, calzato e bardato con frontale e batticulo, che è il minimo indispensabile per una buona fricassea di frattaglie, cioè a dire di testa di montone. Ed è proprio vero, come dice il proverbio, che è di buon augurio vedere le vacche nere nel bosco bruciato quando si prende a godere dei propri amori. Ho fatto chiedere ai signori teologi che cosa ne pensassero, e tutti, a conti fatti, conclusero in frisesomorum93 che non c’è niente di più bello che mietere d’estate in fondo a una cantina ben fornita di carta e inchiostro, di penne e coltellini di Lione sul Rodano; e patetì patatà. Perché non appena un’armatura comincia a sentir d’aglio, la ruggine le mangia fegato, e noi non facciamo che render la pariglia al torcicollo infiorando la siesta. E così il prezzo del sale va alle stelle.

«Signori, voi non dovete credere che al tempo nel quale la brava donna che ho detto invischiò il mestolone per elargir prebende alla memoria del sergente, o quando le budella del toro tergiversarono per le tasche degli usurai, non ci fosse niente di più efficace per guardarsi dai cannibali che por mano a una resta di cipolle intrecciata con trecento avemarie e aggiungervi un po’ di frattaglie di vitello di latte della miglior lega che abbiano gli alchimisti; o impiastrare e incalcinare ben bene le pantofole a buffi e sbuffi con salsa di tridenti; o smoccicarsi in qualche tana di talpa, salvando sempre le trippe. No no. Ché anzi, al trar dei dadi, se non esce più di una coppia d’assi o una pariglia di tre, allora incantucciate la dama nel letto, vezzeggiatela un po’, trallallera lallà, e bevete a tutta canna, depiscando ranoccis a pieni stivali, ovverossia cotúrnici calzari; e sarà una gran festa per le papere di nido che se la spassano a spegnere la candela con il naso in attesa di battere metalli e scaldare la cera ai bevitori.

«Ben vero che i quattro buoi dei quali è questione erano un tantinello corti di memoria; tuttavia, a cantarla chiara, essi non temevano il cormorano né tantomeno l’anitra savoiarda; e la buona gente del mio paese vi riponeva grandi speranze. Questi ragazzi, dicevano, diventeranno gran dottori in aritmetica, e così avremo sempre ragione noi; e se faremo le nostre fratte sopra i mulini a vento di cui parlava la parte avversa, non ci sarà barba di lupo che ci scappi. Ma il diavolo maggiore, morso dall’invidia, tanto fece che ci mise i tedeschi per didietro, che a bere, come al solito, facevano il diavolo a quattro: “Her dringue, dringue!”. E poi, al bigliardo, doppietto in buca. Perché non c’è alcun senso nel dire

su piccolo ponte galline di paglia

fossero pure galline crestate più delle bubbole di palude; a meno che non ti salti in mente di sacrificare l’inchiostro dei rulli passati di fresco su corsivi e capoversi, che per me fa lo stesso, purché la legatura non faccia i vermi. E dato anche il caso che, all’accoppiamento dei cani da corsa, i cazzabubboli avessero suonato il corno prima che il notaio tirasse fuori la sua cabala espositiva, non ne consegue per niente (salvo diverso avviso della corte) che sei babulche grandi di terra prativa diano tre botti di inchiostro genuino senza soffiar nel cantero; tanto più che in pieno mercato, ai funerali di re Carlo, ti portavi a casa la pelliccia con sei doppie e anche meno: parola mia di lana settembrina!

«E io vedo che in ogni cornamusa che si rispetti, quando si va alla caccia con lo zufolo e si fanno tre giri di granata nel caminetto insinuando la propria investitura, non si fa che giocar di reni per arieggiare il culo, caso mai soffrisse di riscaldo; e – vada la biglia dove andò il birillo –

non appena le lettere vedute

tutte le vacche gli furon rendute.

«Del resto analoga sentenza tale e quale fu resa alla Martingala l’anno diciassette per il malgoverno di Louzefougerouse, e la corte si compiacerà di tenerla presente. Né intendo con questo sostenere che non si possa spossessare, a giusto titolo e con tutta equità, coloro che bevono l’acqua benedetta come fosse taglia da tessitore, invece di farne supposte per chi non gioca se non a pigliatutto.

«Tunc, signori miei, quid juris pro minoribus? Poiché la consuetudine corrente in base alla legge salica è tale che il primo buttafuoco che scrocca la vacca e si soffia il naso in pieno concerto senza nemmeno solfeggiare i punti del crespino, è tenuto, in tempo di baldoria, a sublimare la pochezza del suo arnese intirizzito con le muffe raccolte per non morir di freddo alla messa di mezzanotte, così da poter dare la strappata a quei vinelli bianchi dell’Angiò che fanno lo sgambetto spalla a spalla alla moda di Bretagna. E concludendo come sopra detto con spese, danni e interessi».

Terminata che fu la perorazione del signor de’ Fiutapeti, Pantagruele si volse al signor de’ Baciaculi e gli chiese se avesse nulla da replicare.

«No, signore» fu la risposta, «perché io nulla ho detto che non fosse la verità; e, per Dio, poniam fine a questa lite, perché è da molto che siamo qui sulle spese».

CAPITOLO XIII

Come Pantagruele sentenziò nella lite fra i due signori

Udito questo, Pantagruele si alza, riunisce attorno a sé tutti gli astanti: dottori, presidenti, consiglieri, e dice loro:

«Signori, qui voi avete sentito, vivae vocis oraculo, la controversia di cui si tratta. Che ve ne pare?»

«Sentita, per la verità, l’abbiamo sentita benissimo» risposero quelli, «ma, accidenti a noi se l’abbiamo capita». E tutti furono concordi nel protestare di non averci capito nulla a cominciare dalla causa del contendere. Per cui pregavano, supplicavano Pantagruele di voler pronunciare senz’altro la sentenza: quella che a lui pareva meglio; e loro l’avrebbero accettata e ratificata uno ore e toto corde, ex nunc prout ex tunc.

«Ebbene» disse Pantagruele, «giacché così vi piace, così farò. E aggiungo che il caso a me non sembra poi tanto difficile quanto lo fate voi: molto più facile, direi, del vostro paragrafo Catone e di quanto non siano la legge Frater, la legge Gallus, la legge Quinque pedum, la Vinum, la Si dominus, la Mater, la Mulier Bona, la Si quis, la Pomponius, la Fundi, la Emptor, la Pretor, la Venditor e molte altre»94.

Detto questo, si mise a passeggiare per la sala immerso in profondissime cogitazioni, com’era facile vedere, perché, nell’angustia di dover rendere giustizia a tutti e due senza discriminazioni o favori di sorta, gemeva come un asino bardato troppo stretto. Poi tornò a sedersi e pronunciò la sentenza come segue:

«Vista, intesa e ponderata la controversia fra il signor de’ Baciaculi e il signor de’ Fiutapeti, la corte dice loro che:

«Considerata l’orripilazione del vespertillo nel mentre che declina bravamente dal solstizio d’estate

per far la corte a bolle di sapone

cui diede scacco un semplice pedone,

approfittando delle nefandezze e vessazioni dei lucìfugi nitticòraci appigionati al clima delle vie di Roma alla vista di un crocefisso che tendeva una balestra alle reni; dichiara il querelante aver agito in conformità della legge ristoppando il galeone benché la brava donna lo stesse gonfiando con un piede calzato e l’altro no, e rimborsandolo basso e duro nella propria coscienza di tante lappole quanti peli vi sono in diciassette vacche nonché sul tombolo del ricamatore.

«Similmente la corte dichiara infondata ogni imputazione nella quale si poteva supporre ch’egli fosse incorso riguardo al privilegio della scoviglia, e ciò per non essere in condizioni di stabbiare a piacere, data l’opposizione di un par di guanti profumati all’estratto di scoregge di candele di noce quali si usano dalla gente di Mirebalays, suo paese natale; sciogliendo poi la riserva delle boline con le palle di bronzo dei palafrenieri che le pasticciavano in modo riprovevole tra zuppe di legumi imbardellate a logoro con tutti i sonaglietti dello sparviero: quelli, si specifica, cuciti a punto d’Ungheria, che il cognato portava per memoria in una cesta limitrofa ricamata in rosso a tre scaglioni mozzi di canovaccio, proprio dalla parte del canile donde si tira al pappagallo detto vermiforme, con lo spazzolino.

«Ma quanto a ciò ch’egli contesta al convenuto, d’essere stato ciabattino, caseofago e impegolamummie (che risultò non vero sul bilancino, come bene argomentava or ora il convenuto medesimo), la corte lo condanna a tre bicchieri di latte cagliato, stagionato, drogato e diatronpapricato conforme l’usanza del paese, pagabili a mezzo agosto nel mese di maggio, in favore del detto convenuto, al quale è fatto obbligo di fornire fieno e stoppa all’imboccatura dei trabocchetti gutturali rimbirilardellati di gilverdoni regolarmente trivellati a rotelle.

«E amici come prima, senza spese, e non senza ragione».

Pronunciata la sentenza, le due parti se ne andarono contente, che fu una cosa quasi incredibile, giacché non era mai accaduto dal tempo delle grandi piogge, né più accadrà per tredici giubilei95, che le due parti di una contesa se ne escano da un tribunale egualmente soddisfatte di un verdetto senza appello.

Quanto ai consiglieri e agli altri dottori che assistevano, per tre ore restarono tutti là, in estasi, inebetiti: tutti rapiti nell’ammirazione della prudenza più che umana di Pantagruele, rivelatasi con tanta evidenza nella soluzione di una causa così spinosa ed ardua; e sarebbero ancora là, tutti quanti in deliquio a bocca aperta, se non si fosse provveduto, a forza di aceto e acqua di rose, a render loro i sensi e l’uso abituale dell’intelletto; di che Dio sia lodato dappertutto.

CAPITOLO XIV

Nel quale Panurgo racconta come sfuggì alle mani dei Turchi

Ben presto la sentenza di Pantagruele fu sulla bocca di tutti. La stamparono e ristamparono in gran copia; fu omologata e registrata presso gli archivi del Palazzo di Giustizia; e la gente ricordava Salomone, come aveva sciolto per intuizione la lite delle due meretrici, restituendo il figlio conteso alla madre vera. «Ma cos’era mai» dicevano, «la Sapienza di Salomone, al confronto di quel capolavoro di prudenza ch’era stato il verdetto del buon Pantagruele? Siamo ben fortunati di averlo qui fra noi nel nostro paese!». E volevano farlo referendario e presidente della corte.

Ma Pantagruele non ne volle sapere: ringraziò con bel garbo e rifiutò.

«C’è troppa soggezione in quegli uffici» disse. «Fa troppa fatica esercitarli serbandosi onesti, data la corruzione degli uomini. E se gli scanni vuoti dei cori angelici dovranno riempirsi da così fatti officiali96, allora, con buona pace di monsignor Cusano97, non vi sarà giudizio finale prima di trentasette giubilei, ve ne avverto per tempo. Ma se avete qualche barile di vino buono per me, questo lo accetterò ben volentieri». E ben volentieri lo accontentarono.

Il vino era il migliore della città e lui ne bevve un bel po’. Ma il povero Panurgo ne bevve molto di più perché era secco come un’aringa salata e si tirava dietro i piedi come un gatto mencio. E a qualcuno che a metà spianto di una bigoncia lo ammoniva ad andarci piano, a non bere così arrabbiato, rispose:

«Tu, per me, puoi anche andare al diavolo. Mi hai forse preso per uno di quei bevitorelli di Parigi che bevono quanto un fringuello e non prendono il sorsettino se non gli stuzzichi la coda come ai passerotti? Sentimi bene, compagno, guarda: se io salissi così bene come tiro giù, sarei già a cavalcioni della luna a far due chiacchiere con mastro Empedocle98. Ma io non so come diavolo sia: questo vino è buonissimo, una vera delizia, eppure più ne bevo e più mi va su la sete. Io credo che l’ombra di Pantagruele ingeneri assetati come la luna ingenera catarri»99.

Risero gli astanti a queste parole e Pantagruele, incuriosito, ne chiese a Panurgo la ragione.

«Signore» disse lui, «stavo spiegando a questa brava gente quanto sono infelici quei maledetti diavoli di Turchi che bevono acqua e sempre acqua: mai una goccia di vino, pena l’inferno. Se anche non ci fosse niente altro di storto nel Corano di Maometto, a me mi basterebbe questo per girare al largo». E qui Panurgo, lusingato dalla curiosità di Pantagruele, raccontò finalmente come fosse scampato dalle mani dei Turchi.

«Dovete dunque sapere» cominciò, «che quei figli di puttana mi avevano messo allo spiedo come un cappone per arrostirmi vivo. Prima però mi avevano infasciato di lardo senza economia come si fa con i conigli magri, perché ero tanto secco che la mia carne altrimenti sarebbe stata immangiabile.

«Eppure, mentre il rosticciere già cominciava a girare lo spiedo, io speravo; pensavo al buon San Lorenzo, e invocavo da Dio la Salvezza. “Aiutami Signore” gridavo, “allontana da me questo supplizio. Guarda come son ridotto per aver confessato la tua fede davanti a questi cani traditori. Aiutami, salvami, Signore Iddio!”». E la salvezza arrivò nel modo più impensato, perché per volontà di Dio o, chissà, di quel bravo Mercurio, tanto bravo che sprofondò Argo nel sonno nonostante i cento occhi che aveva, il rosticciere si addormentò.

«Lo spiedo improvvisamente si ferma. Mi volgo e vedo che l’aguzzino dorme. Allora, coi denti, afferro un tizzone dalla parte che ancora non ardeva e glielo butto in grembo; un altro, bene o male, riesco a infilarlo sotto il letto da campo ch’era lì vicino con sopra il pagliericcio di monsignore il rosticciere mio.

«Subito il fuoco divampa, e dalla paglia passa al letto e dal letto al solaio ch’era fatto di tavole d’abete al cul di lampa. Poi viene il meglio: il fuoco che avevo buttato addosso a qual maiale di un rosticciere gli aveva bruciato tutti i peli del pettignone e stava per attaccarglisi ai coglioni. Ma quello puzzava tanto di suo, soprattutto dal naso, che se ne accorse soltanto quando fu risvegliato dal bagliore dell’incendio. Allora si precipitò alla finestra come un caprone impazzito gridando “Dal baroth, dal baroth!” che vuol dire “Al fuoco al fuoco!”. Poi corse a me per gettarmi addirittura tra le fiamme e si affannava a tagliare i lacci che mi legavano allo schidione mani e piedi.

«Ma il padron di casa che aveva sentito quelle grida e l’odore del fumo giù dalla strada dove gironzolava con altri bascià e musaffì, accorse anche lui a precipizio per dare aiuto e mettere in salvo le masserizie. Per prima cosa, però, sfilò il mio spiedo e ne impalò d’un sol tratto il rosticciere, che ne morì per mancanza di tenuta o che so io. Perché lo spiedo, infilato da sotto l’ombelico, gli trapassò il terzo lobo del fegato e su su il diaframma, e attraverso la capsula del cuore gli sbucò fuori da sopra le spalle, tra gli spondili e l’omoplata sinistra100.

«Devo dire che, perduto il sostegno dello spiedo, io caddi a terra fra gli alari e mi feci male: non troppo però, perché le bande di lardone che avevo addosso smorzarono il colpo.

«Intanto il mio bascià, visto che non c’era rimedio, che la sua casa andava in cenere senza remissione e tutti i suoi beni erano perduti, si votava a tutti i diavoli. Per ben nove volte invocò a gran voce Graticolath, Rapallùs, Astaroth e Sgorbiath, e a sentirlo ebbi più di cinque soldi di paura. Perché pensavo: Adesso, se quelli vengono a pigliar su questo matto, sta a vedere che portano via anche me. Sono già mezzo arrostito e questi lardoni saranno la mia rovina. Perché, come assicura il filosofo Giamblico, e anche mastro Murmault nell’Apologia De bossutis et contrefactis pro magistros nostros101, certi diavoli vanno matti per il lardo, e io lo sapevo. Ma poi mi feci il segno della croce, gridando “Agyos athanatos, ho Theos! e non venne nessuno.

«Allora quel bascià della malora, visto che i diavoli non gli davano retta, voleva uccidersi con il mio schidione. Voleva infilarselo nel cuore e infatti se lo puntò contro il petto, ma non entrava perché era spuntato. Allora gli parlai in un orecchio. “Messer finocchio” gli dissi, “tu così perdi il tuo tempo: non riuscirai mai ad ammazzarti come si deve. Ti farai soltanto un bello sbrego e passerai tutta la vita a patire fra le mani dei barbieri; ma, se lo vuoi, ti ammazzo io pulito pulito, in modo che nemmeno te ne accorgi. Mi devi credere, perché ne ho già ammazzati degli altri che se ne sono trovati bene».

«“Oh, amico mio” gemette lui, “te ne prego, e se lo farai, guarda, questa è la mia borsa. Tienila, è tua. Ci sono dentro seicento serafini d’oro, qualche diamante e dei rubini purissimi!”».

«E dove sono, adesso?» chiese Epistemone.

«Se han continuato ad andare» disse Panurgo, «giuro per San Giovanni che sono molto lontani.

Mais où sont les neiges d’antan?102

«Villon, il poeta di Parigi, se l’è chiesto per tutta la vita senza venirne a capo».

«Continua, continua» disse Pantagruele. «Non interrompetelo che son curioso di sapere come finì di governare il suo bascià».

«Presto detto» riprese Panurgo. «E parola di galantuomo che non ci aggiungo una virgola. Lo bendai con un paio di vecchie mutande che trovai lì mezzo bruciate. Lo legai ben stretto mani e piedi con le mie corde, in modo che non potesse fare storie. Lo schidionai traverso il gargarozzo e lo appesi fermando lo spiedo a certi arpioni portaalabarde. Gli ravvivai sotto un bel fuoco e lasciai lì il mio milord a smaltire la sugna come un’aringa salata sotto il camino. Poi raccolsi la borsa dei serafini, un piccolo giavellotto che era appeso ad un arpione, e me ne andai di buon galoppo. E lo sa Dio se mi dava allo stomaco quella puzza di montone.

«Quando fui sulla strada, trovai una folla di gente che accorreva al fuoco portando acqua per spegnere l’incendio. A vedermi così mezzo arrostito, s’impietosirono, naturalmente, e mi rovesciarono addosso tutta l’acqua che avevano, che fu un bel rinfresco e un grandissimo sollievo. Poi mi offrirono qualcosa da mangiare, ma io non presi niente perché da bere c’era acqua soltanto, com’è la loro usanza. Ma insomma non mi fecero altro male, salvo un brutto, piccolo Turco con la gobba davanti che si sgranocchiava furtivamente i miei pendagli di lardo abbrustolito. Ma io, con quel mio giavellotto, gli diedi una tal botta sulle dita che gli passò la voglia di riprovarci. E ricordo una giovane Corinzia che rimase impressionata alla vista del mio povero baccello tutto appassito e come ritirato al fuoco, tanto che mi arrivava appena alle ginocchia. Ma notate che questa rosolatura mi guarì del tutto da una sciatica che mi faceva penare da più di sette anni proprio dalla parte dove mi ero strinato a causa del colpo di sonno del mio rosticciere.

«Ebbene, mentre la gente perdeva tempo a guardarmi e a far congetture, il fuoco trionfava, non chiedetemi come, e ormai ci saranno state più di duemila case che bruciavano; tanto che qualcuno se ne accorse e gridò: “Sangue di Maometto! La città è tutta in fiamme e noi stiamo qui a divertirci!”. Così ciascuno se ne andò per la sua ciascuinità, e io prendo la strada verso la porta.

«Arrivato in cima a una collinetta là nei pressi, mi volsi indietro come la moglie di Lot e vidi la città tutta un rogo come Sodoma e Gomorra; per cui mi sentii così bene che a momenti me la facevo sotto dalla gioia. Ma Dio mi punì».

«E come?» chiese Pantagruele.

«Così» disse Panurgo, «che mentre me ne sto lì a godermi come una festa il bellissimo falò, pigliandomene gioco e dicendo “Povere pulci, poveri sorci, avrete un cattivo inverno! Il vostro pagliericcio ha preso fuoco”, sbucano da non so dove più di sei, anzi più di tredici volte cento cani, grossi e piccini, che uscivano insieme dalla città fuggendo il fuoco. Non feci a tempo a vederli, si può dire, che già mi erano addosso a causa dell’odore della mia porca carne abbrustolita. E mi avrebbero divorato in un batter d’occhio, vi dico io, se il mio angelo custode non mi avesse ispirato un rimedio eccellente contro il mal di denti».

«Ma perché mai» lo interruppe Pantagruele, «avevi paura del mal di denti? Non eri già guarito dai tuoi reumi?»

«Pasqua di Dio!» rispose Panurgo. «C’è forse un mal di denti peggiore di quello di mille cani che ti azzannano il culo? Ma subito mi rammentai delle mie fasce di lardo e le gettai. I cani, naturalmente, presero ad azzuffarsi fra di loro disputandosi il festino. E poiché loro si disinteressavano di me mi guardai bene dal distrarli e mi misi la strada fra le gambe. Insomma, la scampai, contento e tutto intero. E viva sempre l’arrosto e chi lo fa».

CAPITOLO XV

Dove Panurgo illustra un modo nuovissimo di costruire le mura di Parigi

Un giorno Pantagruele, per svagarsi un po’ dallo studio, se ne andò con Panurgo fuori città, verso il sobborgo Saint-Marcel con l’idea di arrivare alla Folie Gobelin103. Panurgo aveva con sé, sotto il mantello, la fiasca del vino e un pezzo di prosciutto, senza le quali cose mai non sortiva di casa, perché quelle, diceva, erano la sua guardia del corpo; né voleva saperne di portare la spada; e una volta che Pantagruele gliene voleva affibbiare una, la rifiutò dicendo che gli avrebbe infiammato la milza.

«D’accordo» disse Pantagruele, «ma se ti assalgono, come ti difendi?»

«A gran colpi di tacco sul terreno» rispose, «purché siano vietati i colpi di stocco. Io non mi batto: me la batto».

Al ritorno, Panurgo osservava con commiserazione le mura di Parigi.

«Guardate che belle mura!» disse. «Come son fatte proprio a modino per custodire gli anitroccoli in muta. Dico, per la mia barba!, roba assolutamente da far pietà per una città come questa. Una vacca, con un mezzo peto, ne butterebbe giù più di sei braccia».

«Lo sai, amico» disse Pantagruele, «cosa rispose Agesilao quando gli chiesero come mai la grande Sparta non era cinta di mura? “Ecco le nostre mura” disse – mostrando gli uomini della città così forti e così bene armati; con ciò volendo significare che le vere mura son le mura d’ossa, e che non v’è cittadella o città meglio difesa di quella che si affida al valore dei cittadini e di tutti gli abitanti. Per cui questa nostra città è così forte per la moltitudine di gente guerriera che c’è dentro che non si cura di erigere altre mura. D’altronde, chi volesse fortificarla come Strasburgo, Orléans o Ferrara, non sarebbe possibile, tanto sarebbero eccessivi il costo e la spesa».

«Sì» disse Panurgo. «Ma per me è sempre meglio avere un qualche paranaso di pietra quando si è assaliti; se non altro per chiedere chi è. Quanto poi alle spese così grandi che voi dite che ci vogliono per tirar su le mura, be’, se i signori magistrati della città si degnassero di allungarmi qualche bottiglia di quello buono, glielo spiego io come devono fare per costruirle con quattro soldi. È un sistema nuovo».

«E quale?» chiese Pantagruele.

«Però non dovete mica dirlo a nessuno se ve lo insegno», disse Panurgo.

«Non avete notato che le passerine delle donne di questo paese costano meno delle pietre? È con quelle che si dovrebbero costruire le mura, disponendole in bella simmetria a regola d’architettura: in basso, al contrafforte, le più grosse, poi, salendo e incurvando a schiena d’asino, le mediane, e in alto le più piccole. E poi, tra l’una e l’altra, a incastro come lardelli, tanti bei cazziritti, che si trovano a iosa nelle braghette dei reverendi claustrali, da rifinire a punta di diamante a imitazione della grande torre di Bourges. Non c’è metallo al mondo che regga la botta meglio di quelli. Che se poi venissero a fargli il solletico con le cogliumbrine, li vedreste subito pisciar giù di quel succo benedetto del malfrancese a pronta presa da restarci secchi, fitto come pioggia. E notate che anche il fulmine si guarderebbe bene dal caderci su. Lo sapete perché? Ma perché son tutti benedetti e consacrati!

«Intendiamoci, c’è un inconveniente: uno solo ma c’è».

«Oh oh, ah ah!» disse Pantagruele. «E quale?»

«È che le mosche ne son tante ghiotte che ci si butterebbero sopra e con le loro porcherie guasterebbero tutto il capodopera. Ma c’è anche il rimedio: grandi code di volpe e bischeracci d’asino di quelli di Provenza grandi e grossi. Non c’è moscarola più adatta. Non la sapete la bella parabola che si legge nel De compotationibus mendicantium di Frate Lubino? Intanto che andiamo a cena ve la racconto.

«Al tempo che le bestie parlavano (facciamo tre giorni fa) un povero leone che passeggiava per la foresta recitando le sue divozioni, si trovò a passare sotto un albero dove un carbonaio era salito a far legna. Questa carogna d’un carbonaio, come vede il leone, gli scaglia addosso la scure e gli fa una gran ferita a una coscia. Per cui il leone, zoppicando zoppicando, tanto vagò e frugò per la foresta in cerca di aiuto, che incontrò un carpentiere brav’uomo, il quale, esaminata la piaga con cura, la pulì del suo meglio, la riempì di muschio e gli raccomandò – intanto che lui si allontanava in cerca dell’erba millefoglie – di tener lontane le mosche che non andassero a fargli le porcherie sulla ferita.

«Così ristabilito, il leone riprese a passeggiare per la foresta. Ma c’era lì nei pressi, venuta anche lei nel bosco a far legna, una vecchia gualercia, di quelle che non muoiono mai, che alla vista del leone cadde all’indietro per la paura lunga e distesa in modo che il vento le rovesciò le vesti, sottana e camicia, fin sopra le spalle. Il leone, impietosito, corse a lei per vedere se s’era fatta del male, e osservando la sua come si chiama, esclamò: “Oh povera donna, chi è che ti ha fatto questa brutta ferita?”. E mentre così diceva vide una volpe.

«“Pst pst, volpe, comare volpe” chiamò, “qua, vieni qua, presto, vieni a vedere”.

«E come la volpe fu lì anche lei: “Guarda” le disse, “come hanno ferito sconciamente questa brava donna fra le gambe; qui c’è soluzione di continuità manifesta104. Cribbio se è grande la piaga! Dal culo all’ombelico, saranno quattro o cinque spanne e anche più: un colpo di scure, non c’è dubbio, e dev’essere una piaga vecchia. Qui bisogna evitare che vi si attacchino le mosche. Perciò, amica mia, smoscala e tienila netta di dentro e di fuori. Tu hai una coda lunga e forte: smosca, amica mia, smosca, mi raccomando. Intanto io vado a cercare il muschio da metterci dentro, perché è nostro dovere aiutarci l’un l’altro. Smosca forte, smosca bene, perché una piaga come questa ha da essere smoscata di continuo. Altrimenti la persona ne soffre. Dacci sotto, piccola comare: dacci sotto forte e pulito. Dio ti ha servito bene quanto a coda: te l’ha fatta ben grande e grossa in proporzione. Perciò dacci dentro, smosca e non ti stancare. Un buon dismoscatore che smoschettando di continuo smosca le mosche con la sua moscarola, non sarà mai moscato dalle mosche. Dunque coraggio, fregnoncella. Smosca babbioncina mia, che io vado e torno”.

«Se ne va dunque il leone a cercare il suo muschio; ma non senza voltarsi a pochi passi di là per esortare ancora la volpe a far le cose a dovere: “Smosca sempre, comare, mi raccomando: smosca e non ti scoraggiare, che poi ti nominiamo smoschettiera della regina Maria o di Don Pedro di Castiglia”».

«E bisogna dire che la povera volpe ce la metteva tutta, smoscando di gran lena, di qua e di là, di su e di giù, di dentro e di fuori. Ma la vecchia porcona cacciava peti e scoregge così fetide ch’eran peggio del fetore di cento diavoli insieme; per cui la volpe non sapeva più da che parte voltarsi per scansare la puzza. E gira e rigira, s’accorse che c’era sul didietro un altro pertugio, non tanto grande come quello davanti, dal quale però veniva fuori – proprio da lì – quel vento pestilenziale.

«Finalmente torna il leone, carico di muschio che pareva un pagliaio, e cominciò a ficcar dentro roba con un bastone che aveva raccolto per via. Ma metti e metti, ne avrà cacciato dentro almeno sedici balle e mezzo senza venirne a capo. E non finiva mai di stupirsi. “Diavolo” diceva, “è ben profonda questa piaga: ce ne starebbero dentro due carrettate e anche più”.

«Ma la volpe lo ammonì: “Compare leone, amico mio, risparmia un po’ di quel muschio, perché qui sotto c’è un altro piccolo pertugio che puzza più di cinquecento satanassi. Son qui più morta che viva, tanto puzza”.

«Insomma» concluse Panurgo, «sarebbe facilissimo difendere dalle mosche le nostre mura; basta metterci un servizio di smoscatori a giornata».

«Ma tu» gli chiese Pantagruele, «come fai a sapere che a Parigi le passerine delle donne sono così a buon mercato? Io so che in questa città c’è una gran quantità di donne di tutta ierecondia, caste e illibate».

«Et ubi prenus?105» disse Panurgo. «Non è mica una mia opinione. Io parlo di fatti certi e garantiti. Non faccio per vantarmi, ma io da solo ne ho già farcite quattrocentodiciassette, e notate che son qui da appena nove giorni. Ma non basta: proprio questa mattina ho incontrato un brav’uomo che, dentro una bisaccia come quella di Esopetto106, portava due bambinelle di due o tre anni al massimo, una davanti e l’altra dietro. Mi ha chiesto l’elemosina, ma io gli ho risposto che avevo più coglioni che bisanti. Poi gli ho fatto una domanda: “Ditemi, buon uomo, sono vergini queste due bambinelle?” – “Fratello”, mi ha riposto, “io le porto così da due anni. Quella davanti l’ho sempre sotto gli occhi e credo di poterla garantire, benché non ci metterei la mano sul fuoco. Quanto a quella di dietro non ne so niente”».

«Sei proprio un simpatico compagno» disse Pantagruele. «Ti voglio vestito con la mia livrea».

E lo fece vestire con eleganza secondo la moda del tempo; salvo che lui la braghetta la volle lunga tre piedi e quadrata invece che tonda. Così fu fatto e gli stava assai bene. E spesso diceva che la gente non aveva ancora capito il vantaggio e la comodità delle braghette grandi ed ariose, ma che col tempo l’avrebbero capito, essendo che ogni cosa è inventata quando i tempi sono maturi.

«Dio salvi dal male» diceva, «il caposcarico ch’ebbe salva la vita dalla braghetta lunga! Dio guardi dal male colui cui la braghetta lunga fruttò in un giorno centosessantanovemila scudi! Dio guardi dal male colui che con le sue braghette lunghe salvò dalla morte per fame un’intiera città! E, perdio, appena mi avanza tempo, dovrò scrivere un bel libro sui Benefici delle braghette lunghe».

Di fatti, egli compose sull’argomento un grosso e bellissimo libro con le figure. Ma ancora, ch’io sappia, non è stato stampato.

CAPITOLO XVI

Sui costumi e le attitudini di Panurgo

Panurgo era di media statura, non troppo grande né troppo piccolo: naso un po’ aquilino a manico di rasoio, l’età sui trentacinque, di bella e garbata figura, ma un po’ libertino e soggetto per natura a un male che a quel tempo si chiamava

Mancanza di denari, dolore senza pari.

Però conosceva sessantatre modi di procurarselo ogni volta che gli bisognasse, il più comune e più onorevole dei quali era il latrocinio. Era facinoroso, impostore, bevone, vagabondo, arraffone se altri mai a Parigi, e insomma una lega buona da indorare come una daga di piombo. Per il resto, il miglior figliuolo del mondo; e sempre macchinava qualcosa contro i sergenti e contro la ronda.

Certe sere riuniva tre o quattro zoticoni, li faceva bere come templari e li conduceva sotto Santa Genoveffa o nei pressi del collegio di Navarra fino al sommo dell’erta; e nel momento in cui veniva su la ronda (cosa che avvertiva posando la spada sul selciato e l’orecchio sulla spada così da sentirne le vibrazioni, segno certo che la ronda era vicina) in quel momento dunque, lui e i suoi compari prendevano una carretta piena di immondizie o di sabbia o di sassi e le davano la spinta precipitandola a forza giù per la china; così stendevano a terra come porcelli quei poveracci e poi fuggivano dalla parte opposta; giacché, in meno di due giorni, lui già conosceva tutte le strade, stradette, vicoli e crocevia di Parigi meglio delle sue tasche.

Altre volte, in qualche bella piazza sulla strada della ronda, seminava un cordone di polvere da sparo e quando quelli arrivavano vi dava fuoco, poi si divertiva a vedere con quale buona grazia i gendarmi scappavano credendo di avere alle calcagna il fuoco di Sant’Antonio.

Quanto poi ai magistri in artibus, ovverossia teologi, questi li perseguitava più degli altri e mai non ne incontrava uno che non gli giocasse qualche tiro, ora mettendogli uno stronzo nel cappuccio, ora attaccandogli alla schiena orecchie di lepre o code di volpe, o qualche altro accidente.

Un giorno che tutti costoro dovevano riunirsi alla Sorbona per esaminare gli articoli di fede, lui impastò una specie di tartara borbonese con molto aglio, assa foetida, galbanum, castoreum107 e stronzi belli caldi; la stemperò in liquame di bubboni cancerosi e, di prima mattina, ne unse teologalmente tutta la graticciata della Sorbona108, sì che neppure il diavolo avrebbe potuto resistervi. E tutta quella brava gente si mise a vomitare come se dovesse cacciar fuori le budella. Dieci o dodici ne morirono di peste, quattordici si presero la lebbra, diciotto la rogna, e più di ventisette il malfrancese. Ma lui non se ne dava pensiero per niente; e portava di solito un frustino sotto il gabbano, col quale fustigava senza remissione, ogni volta che li incontrasse, i paggi che recavano vino ai loro padroni, per farli andare più svelti.

Nel suo gabbano aveva più di ventisei piccole sacche, guaine e ripostigli sempre pieni:

in uno, un piccolo dado di piombo e un temperino tagliaborse affilatissimo come l’ago di un pellicciaio;

in un altro, una fiala di agresto che schizzava negli occhi di quelli che incontrava;

in un altro, tanti capolini di lappola cui attaccava piccole piume d’oca o di cappone e che gettava addosso ai galantuomini, sul vestito o sul berretto, cui restavano attaccati, non di rado a guisa di corna, che i malcapitati si portavano in giro per tutta la città e talvolta per tutta la vita.

Anche alle donne certe volte ne attaccava sul didietro, combinati a forma di bischero.

In un’altra saccoccia teneva una quantità di involtini di pulci e pidocchi che raccattava dai pezzenti di Sant’Innocenzo e che, con apposite cannucce o calami di penna d’oca, gettava sui colletti delle dame più infiocchettate che incontrava: persino in chiesa, perché lui non si metteva mai nel coro, ma giù nella navata tra le donne, tanto alla Messa che a Vespero o al Sermone.

Poi c’era la tasca degli ami e degli uncini con i quali agganciava insieme uomini e donne riuniti in crocchio e soprattutto le donne vestite di ermisino o taffettà leggero, che si strappava meglio quando quelle facevano per andarsene;

in un’altra aveva l’acciarino, con tutto un armamentario di esche, zolfanelli, pietre focaie eccetera;

in un’altra, due o tre specchietti ustorî, coi quali non di rado si divertiva a tormentare uomini e donne fintanto che non perdessero il contegno e non dessero in escandescenze, magari in chiesa, poiché diceva che fra donna folle alla messa e donna molle alla fessa c’era di mezzo soltanto un’antistrofe;

in un’altra ancora portava una ricca provvigione d’aghi e di filo con cui combinava mille piccole diavolerie.

Una volta, mentre usciva dal Palazzo di Giustizia, notò nella Gran Sala il cordigliere che si apprestava a celebrare la Messa dei Signori Consiglieri, e si offrì di assisterlo nella vestizione. Ma, mentre lo vestiva, gli cucì il camice alla sottana e alla camicia. Poi, quando i signori Consiglieri vennero a sedersi per ascoltare la messa, se ne andò. E al momento dell’Ite, Missa est, quando il povero frate voleva togliersi i paramenti, insieme al camice tirò su sottana e camicia che vi erano ben cucite e si scoprì fino alle spalle mostrando a tutti il suo ruspone che era certamente d’ordine maggiore.

Il frate continuava a tirare, ma più tirava e più metteva in mostra, finché uno di quei signori della corte disse: «Ehi, fratacchione, vuoi forse fare l’offertorio e darci da baciare il tuo culo? Ma che te lo baci il fuoco di Sant’Antonio!». E da quella volta fu stabilito che i bravi reverendi padri non si svestissero più davanti a tutti, bensì nella loro sacrestia e mai in presenza di donne, per non indurle in peccato di concupiscenza.

Ma la gente voleva sapere perché mai questi frati avessero i genitali così lunghi, e Panurgo rispose al quesito con chiarezza esemplare, dicendo:

«Le orecchie degli asini sono così lunghe perché le loro madri non gli mettono la cuffia in testa: come dice De Alliaco109 nelle sue Supposizioni. A egual ragione, la coglia di questi poveri piissimi padri è così lunga perché le loro brache non hanno il fondo, per cui il loro povero membro si allunga liberamente a briglia sciolta e gli va a sbatacchiare fra le ginocchia tal quale alle donne i rosari che portano alla cintura. Che poi, oltre che lungo, l’abbiano anche grosso in proporzione, ciò dipende dal fatto che in quel continuo sbatacchiamento, gli umori del corpo calano giù dentro il membro di cui sopra, stante che, secondo i legisti, agitazione e commozione continua sono cause di attrazione».

Item, un’altra saccoccia aveva Panurgo, piena di allume di piuma110, di cui aspergeva la schiena delle donne che gli si mostravano più scontrose; e si vedevan talune spogliarsi davanti a tutta la gente, altre saltare come galletti sui carboni ardenti o come palle sui tamburelli; altre correre all’impazzata per le strade e lui dietro; e a quelle che gettavano le vesti lui metteva indosso il suo mantello, come persona premurosa e gentile.

Item, in un’altra tasca aveva un’ampolla d’olio rancido, e quando s’imbatteva in qualche donna o uomo particolarmente ben vestiti, ne ungeva e imbrattava le parti più belle dell’abito, facendo sembiante di accarezzarle per ammirazione: «Ma guarda che bel panno» diceva, «questo sì che è un bel satin, e che bel taffettà, signora. Dio vi conceda tutto ciò che il vostro nobile cuore desidera! Vestito bello, amante novello: Dio vi conservi a lui e lui a voi!». Così dicendo, posava la mano sul collarino, sì che la macchia vi restava così fortemente impressa – in corpo, anima e reputazione – che neppure il diavolo l’avrebbe più cancellata. E alla fine accompagnava la dama per qualche passo con tutta sollecitudine: «Attenzione» diceva, «fate attenzione signora a non cadere, che qui c’è una gran buca».

Un’ennesima tasca era piena di polvere impalpabile di euforbia e dentro vi teneva un moccichino ricamato che aveva rubato alla bella lingerista del Tribunale, togliendole un pidocchio dal seno nell’atto stesso in cui ve lo metteva. E raro accadeva che, trovandosi in compagnia di qualche gentildonna non fosse tentato di allungare le mani. «Ma questo ricamo» chiedeva, frugandole addosso, «è di Fiandra o di Hainault?». Poi tirava fuori il moccichino, dicendo: «Guardate, guardate qui, questo dev’essere pizzo di Fottignano o di Fottarabia», e glielo sventolava ben bene sotto il naso facendola starnutare per quattro ore di seguito. E intanto spetezzava come un ronzino. E se le donne, ridendo, gli dicevano «Ma come! Voi spetezzate, Panurgo?», «Niente affatto» rispondeva lui, «non faccio che intonare il contrappunto alla musica del vostro naso».

Né mancava la tasca per le pinze, il grimaldello e altri ferri del genere, con i quali non c’era serratura di porta o di scrigno che potesse resistergli. E infine la tasca di bussolotti con cui faceva giochi strabilianti, poiché aveva dita sagaci, degne di Minerva e di Aracne, e a suo tempo aveva fatto anche il ciarlatano spacciando polveri di Pimperimpara; e quando cambiava uno scudo o qualche altra moneta, fosse pure quell’altro un Mastro Mosca, re di lestofanti, non c’era caso che non facesse sparire cinque o sei denari sotto gli occhi di tutti, in modo aperto e manifesto, senza violenza o lesione alcuna; e già era tanto se il defraudato ne sentiva il vento.

CAPITOLO XVII

In che modo Panurgo lucrava le indulgenze e maritava le vecchie, e come profondeva le sue sostanze nelle più strane liti

Un giorno trovai Panurgo un po’ avvilito, taciturno. Subito pensai che fosse a corto di denaro, e gli dissi:

«Panurgo, a giudicare dalla vostra faccia, si direbbe che siete ammalato, e credo anche di conoscere il vostro male: flusso di borsa; ma non datevi pena; ho qui cinque o sei scudi e un po’ di spiccioli che non conobbero mai padre né madre e che, all’occorrenza, vi saranno fedeli come il morbo di Fracastoro».

«Merda al denaro!» rispose. «Un giorno o l’altro ne avrò anche di troppo. Ho una pietra filosofale che attira i soldi come la calamita il ferro. Perché non venite con me a fare il giro dei perdoni?»

«Veramente» dissi, «io non sono gran che perdonevole in questo mondo e non so se lo sarò nell’altro. Ma andiamo pure, in nome di Dio, che fino a un denaro ci sto: non un soldo di più».

«Ma allora prestatemi un denaro a interesse».

«Questo no: piuttosto ve lo regalo; e senza rimpianti».

«Grates vobis dominos»111 rispose.

E così ce ne andammo cominciando dalla chiesa di San Gervasio, dove lucrai le indulgenze soltanto al primo ceppo, perché in queste cose io mi contento di poco. Poi recitai i miei piccoli suffragi e le orazioni di Santa Brigida. Ma lui le prese a tutti i ceppi, e ogni volta porgeva denaro ai collettori.

Di là passammo a Notre-Dame, a San Giovanni, a Sant’Antonio e a tutte le chiese dov’erano i ceppi dei perdoni. Per parte mia non intendevo acquistarne uno di più, ma lui si fermava a tutti i ceppi, baciava le reliquie e dava soldi. In breve, compiuto il giro, mi portò a bere all’osteria del Castello e mi mostrò dieci o dodici taschini zeppi di moneta.

«Buon Dio!» esclamai, facendomi un gran segno di croce. «Ma dove li avete presi tanti quattrini in così poco tempo?». Lui mi spiegò, tranquillo, che li aveva presi su dai bossoli delle indulgenze. «Perché» diceva, «nel porgere il primo denaro, l’ho fatto con tale eleganza da far credere di aver dato almeno un doblone. Poi, con una mano, ho preso una doppia di resto e con l’altra tre o quattro tornesi; e così in tutte le chiese dove siamo stati».

«Ho capito» dissi, «ma voi vi dannerete come un serpente: siete ladro e sacrilego».

«Certamente, a pensarla come voi» replicò. «Ma io la penso diversamente; perché i cosi, i perdonieri, quando vi danno a baciare le reliquie e vi dicono Centuplum accipies, è come se dicessero “va’ contento: dammi uno e piglia cento”; perché vedete, quell’accipies è detto alla maniera degli ebrei, che usano il futuro per l’imperativo, come ben si riscontra nella legge: Dominus deum tuum adorabis et illi soli servies: Diliges proximum tuum; e così via. Perciò, quando il perdonigero mi dice Centuplum accipies, vuoi dire Centuplum accipe; e io accipio: piglio su. Che è poi l’interpretazione che si trova nelle chiose del rabbino Kimy e del rabbino Ezra e di tutti i Massoreti; et dixit Bartolus se non bastasse112. Inoltre, vi dirò che papa Sisto, siccome lo avevo guarito da un bubbone canceroso che lo tormentava orribilmente e minacciava di azzopparlo per tutta la vita, mi assegnò a suo tempo cinquecento lire di rendita sul suo patrimonio e tesoro ecclesiastico. Per cui io mi pago di mia mano su questo tesoro ecclesiastico, perché è il modo più sicuro.

«Eh, amico mio» diceva poi, «se tu sapessi che mare di delizia è stata per me quella crociata, non finiresti mai di meravigliarti. Mi fruttò qualcosa come seimila fiorini e passa».

«E dove diavolo sono andati» dissi io, «che adesso non hai più il becco di un quattrino?»

«Donde erano venuti» rispose. «Han cambiato di padrone, ecco tutto. Però ne ho spesi più di tremila a maritare le vecchie. Non le giovani, che di mariti ne trovano anche troppi: le vecchie, le vecchie sempiterne senza più un dente in gola, poverette. Queste brave donne – mi dicevo – hanno impiegato assai bene il loro tempo in gioventù giocando a sottocoda e a sbatticulo con chiunque capitasse, finché non c’è stato più un cane che volesse saperne; e, perdio, voglio farle sbrigliare ancora una volta prima che tirino le cuoia. E allora, cento fiorini di dote a una, centoventi a un’altra, e anche centocinquanta, a seconda che erano brutte, orribili o abbominevoli; perché naturalmente quanto più erano orrende ed esecrabili tanto più bisognava largheggiare; altrimenti neppure il diavolo se le sarebbe messe sotto. Poi ti istruivo un qualche portaceste grande e grosso e combinavo io stesso il matrimonio. Ma prima di mostrargli la vecchia gli mostravo i fiorini. Guarda – gli dicevo – cosa ti tocca, compare, se ti va di scovolarci dentro bene a fondo. A queste parole, quei poveri diavoli s’imbufalivano come vecchi muli. Io poi li invitavo a banchetto e li facevo bere ben bene; mentre le vecchie le impinzavo di droghe in modo da tirarle su e farle andare in fregola. E devo dire che tutti quei marcantoni fecero fronte alla bisogna da bravi ragazzi; salvo che a quelle orribilmente brutte e disfatte gli facevo coprire la faccia con un sacco.

«Molti quattrini poi mi sono andati in processi».

«E quali processi» gli chiesi, «se non possiedi né terre né case?»

«Devi sapere» disse, «amico mio, che le damigelle di quella città, per istigazione dei diavoli d’inferno, avevano inventato certi colletti o pettorine montanti, aperte sul didietro ma chiuse ben bene sul davanti e così alte che gli coprivano i seni in modo tale da non poterci ficcare nemmeno un dito, per cui i poveri amanti, dolenti e contemplativi, erano molto infelici. Così un bel giorno di martedì io presentai istanza alla corte contro le dette damigelle, e costituendomi parte lesa, dimostrai il gran danno che me ne veniva e protestai che per le stesse identiche ragioni avrei cucito anch’io la mia braghetta sul didietro, salvo che la corte non avesse regolato la materia con equità. Per farla breve, le damigelle si costituirono in sindacato, esibirono i loro argomenti e nominarono un avvocato difensore; ma io le perseguii con tale accanimento che, per decreto della corte, fu bandito l’uso delle pettorine, fatta eccezione per quelle aperte un po’ sul davanti. Ma lo so io quello che mi è costato.

«Un altro processo ben disgustoso e fetido lo ebbi con Mastro Nettacessi e i suoi sergenti per fargli perdere il vizio di leggere a notte e clandestinamente (invece che di giorno, davanti a tutti i teologi, nella gran sala della Sorbona, come dev’essere) la Botte del Bottino e il Quartarolo del Digesto. Ma qui fui condannato alle spese per un errore di forma dell’usciere.

«Un’altra volta sporsi querela alla concelleria della corte contro le mule dei signori Presidenti nonché Consiglieri ed altri Uffiziali, per obbligarli, quando le lasciano a rodersi il freno nella bassa corte, a munirle di un bel bavaglino così che non insozzino tutto il selciato con la bava e i paggi possano giocare ai dadi o a rinnegabio con tutto comodo, senza imbrattarsi i calzoni alle ginocchia. Qui la sentenza mi dette ragione; ma mi costò un sacco di soldi. E adesso aggiungete a queste spese quel che mi costano le merende che mi tocca di offrire ai paggi un giorno dopo l’altro».

«E a quale scopo?» gli chiesi.

«Amico» rispose, «tu non hai un passatempo al mondo. Io invece ne ho tanti che nemmeno il Re. E se tu volessi allearti con me, noi due insieme faremmo il diavolo a quattro».

«No no, per Santa Forcola!» esclamai. «Perché a te un giorno o l’altro ti impiccano».

«E te? A te, un giorno o l’altro ti metteranno sotto terra. Cos’è più dignitoso, l’aria o la terra? Cristo Gesù non fu forse appeso in aria? E così, mentre i paggi si ingozzano, io sto di guardia alle mule e a qualcuno taglio lo staffile dalla parte del montatoio in modo che tenga appena per un capello. E quando il Consigliere panciuto e tronfio, o altri che sia, prende lo slancio per salire, sbatte la pancia a terra come un maiale, lì davanti a tutti, con una offerta di risate per più di cento franchi. Ma quello che mi fa ridere ancor più è che questi signori, quando arrivano a casa, se la pigliano coi paggi; e giù una serqua di legnate come se battessero segale acerba. Ragion per cui non ho proprio motivo di rimpiangere i soldi spesi per la merenda». In conclusione, come ho detto, egli aveva sessantatre modi di far quattrini; ma ne conosceva duecentoquattordici per dissiparli, senza tener conto delle vettovaglie per la cambusa del sottonaso.

CAPITOLO XVIII

Come fu che un sapientone d’Inghilterra, volendo cimentarsi con Pantagruele, fu sconfitto da Panurgo

Proprio in quei giorni un dotto uomo chiamato Thaumaste, attratto dal gran parlare che si faceva del sapere incomparabile di Pantagruele, venne dall’Inghilterra col solo intento di vederlo e conoscerlo ed accertarsi per prova se il suo sapere era pari alla di lui rinomanza. Difatti, appena giunto a Parigi si recò alla dimora di Pantagruele che alloggiava nel palazzo di San Dionigi e che, in quel momento, passeggiava per il giardino filosofando con Panurgo alla maniera dei peripatetici. Al primo sguardo trasalì di spavento nel vederlo così grande e così grosso, poi, come d’uso, lo salutò cortesemente con queste parole:

«Dice Platone, principe dei filosofi, che se l’immagine della sapienza fosse corporea e visibile agli umani, tutti sarebbero mossi ad ammirarla. Ed è ben vero. Poiché la sola eco di essa effusa nell’aria, se perviene all’orecchio di quegli studiosi che l’amano e son chiamati filosofi, non li lascia più dormire né più concede loro tregua alcuna, tanto li sprona e invoglia ad accorrere là dove possano mirare di persona quegli del quale è fama che la sapienza abbia in lui stabilito il suo tempio e i suoi oracoli.

«E ciò fu reso a noi esemplarmente manifesto:

dalla regina di Saba, che venne dai confini estremi d’Oriente e del Mare Persiano per ammirare l’ordine della casa del saggio Salomone ed ascoltare i suoi detti;

da Anacarsi, che dalla Scizia si condusse fino ad Atene per conoscere Solone;

da Pitagora, che si recò a visitare i vaticinatori di Menfi;

da Platone, che visitò i magi d’Egitto e Archita di Taranto;

da Apollonio di Tiana che andò fino ai monti del Caucaso, attraversò il paese degli Sciti, dei Massageti, degli Indiani, navigò il gran fiume Fisone, fino alla terra dei Brahmani, per conoscere Hiarca, e poi passò in Babilonia, Caldea, Media, Assiria, Partia, Fenicia, Arabia, Palestina, Alessandria, fino all’Etiopia, per visitare i Gimnosofisti113.

«Un pari esempio abbiamo in Tito Livio, dacché, per vederlo e sentirlo, molti studiosi giunsero a Roma dalle più remote frontiere di Francia e di Spagna.

«Io non oso annoverarmi nel numero e nell’ordine di uomini tanto eccellenti; ma intendo essere considerato persona dedita agli studi e amante delle buone lettere e di chi le coltiva.

«Difatti, come mi giunse voce del tuo inestimabile sapere, ho lasciato il mio paese, i miei familiari, la casa, e mi sono condotto fin qua senza dare alcun peso alla lunghezza del cammino, ai disagi del mare, alla novità delle contrade, ansioso soltanto di vederti e ragionare con te su alcuni passi di filosofia, di geomanzia, di cabala che mi paiono oscuri e mi lasciano dubitoso e irrequieto. I quali se tu mi saprai chiarire, io mi rendo sin da ora tuo schiavo giacché non ho altro dono che io stimi adeguato a tua ricompensa.

«Io li stenderò per iscritto e domani li farò conoscere a tutte le persone dotte della città, così che ne possiamo discutere pubblicamente davanti a loro.

«Ma ecco come io intendo che ne discutiamo. Io non voglio argomentare pro et contra come si usa dagli sciocchi sofisti di questa e di altre città; né intendo disputare per declamazione al modo degli accademici, o per numeri come Pitagora, o come pretendeva di fare Pico della Mirandola in Roma: io intendo che si discuta per segni, senza parlare, poiché gli argomenti sono così ardui che le parole umane non sarebbero sufficienti a dispiegarli come io penso che si debba.

«Perciò, piaccia alla Tua Magnificenza di non mancare all’incontro, che avverrà nella grande Sala di Navarra, domani, all’ora settima del mattino».

A queste parole Pantagruele rispose con dignità e modestia:

«Signore, per quanto è in mio potere, di tutte le grazie che Dio mi ha elargito, mai a nessuno io vorrei togliere di aver parte, poiché ogni bene ne viene da lui ed egli si compiace di vederlo moltiplicato e condiviso fra persone condegne, atte a ricevere questa manna celeste dell’onesto sapere. E poiché fra costoro, come ben m’avvedo, tu occupi oggigiorno il primo posto, io ti notifico che in qualsiasi momento mi troverai pronto ad ottemperare a ogni tua richiesta secondo le mie deboli forze, sebbene io debba apprendere da te più di quanto tu non debba da me. Ma, conforme il tuo dire, noi ragioneremo insieme di codesti tuoi dubbi e passi oscuri e ne ricercheremo la soluzione fino al fondo di quel pozzo senza fondo, dove, diceva Eraclito, si nasconde la verità114.

«E lodo assai il modo di argomentare da te proposto, cioè per segni e senza parole, poiché così facendo tu ed io ci comprenderemo e non ci toccherà di sopportare i battimani di quei babbioni di sofisti, allorché, argomentando, si viene al punto chiave della questione.

«Domani dunque io non mancherò di trovarmi là dove hai detto e nell’ora da te stabilita, ma chiedo che non siavi tra noi animosità né contesa e che il nostro argomentare non miri agli onori e agli applausi degli uomini, bensì soltanto alla ricerca della verità».

Al che Thaumaste rispose:

«Signore, io prego Dio a che ti conservi nella sua grazia e rendo lode alla Tua alta magnificenza per essersi degnata di condiscendere alla mia infima pochezza. Ed ora addio, fino a domani».

«Addio» disse Pantagruele.

E voi, signori che leggete questo scritto, credetemi: mai due persone al mondo furon prese in un vortice di sì elevati pensieri come lo furono da quel momento all’indomani tanto Thaumaste quanto Pantagruele. Infatti, il dotto Thaumaste confidò al portiere del Palazzo di Cluny, dov’era alloggiato, di non aver mai sofferto una sete paragonabile all’arsura di quella notte.

«Io son d’avviso» diceva, «che Pantagruele mi abbia preso alla gola. Provvedete per il bere, ve ne prego, e fate in modo che non manchi acqua di fonte per rinfrescarmi il palato».

Pantagruele, dal canto suo, rischiò addirittura di rimetterci il senno, perché, quanto è lunga la notte, non fece che fantasticare su:

il libro di Beda, De Numeris et signis;

il libro di Platino, De Innumerabilibus;

il libro di Proclo, De Magia;

i libri di Artemidoro, Perì Onirocriticon;

di Anassagora, Perì Semion;

di Ynario, Perì Aphaton115;

i libri di Filistione;

di Ipponace, Perì Anecphoneton116;

e un’infinità di altri. Tanto che Panurgo gli disse:

«Signore, lasciate perdere codesti pensieri e andate a dormire, perché io vi vedo talmente esagitato nell’animo che, se non la smettete, vi piglierete di certo una svampata di febbre per eccesso di pensamento. Fatevi prima venticinque o trenta delle vostre bevute, andate a letto, dormite e non pensateci più, che domattina me la vedo io: argomento io, rispondo io a messer l’Inglese, e se non lo riduco ad metam non loqui, se non gli tappo la bocca, dite pure corna di me».

«Sì, certo» disse Pantagruele. «Ma tu, Panurgo, amico mio, non consideri che costui è prodigiosamente sapiente: Come potrai, tu, reggere il confronto?»

«Lo reggerò benissimo» disse Panurgo. «Ve ne prego, non parliamone più e lasciate fare a me. Esiste forse un uomo che ne sappia di più dei cugini di Belzebù?»

«No assolutamente. Salvo che non sia per singolare grazia divina».

«E tuttavia», incalzò Panurgo, «ho avuto da discutere con loro mille volte, e sempre li ho fatti di sale e li ho messi culo a terra. Perciò state tranquillo che domani, a questo Inglese stronfione, gli faccio cacare aceto davanti a tutti».

Così Panurgo trascorse la notte a bevazzare coi paggi e a giocarsi tutte le stringhe dei suoi pantaloni a Primus et Secundus nonché alla Verghetta, e quando giunse l’ora condusse il suo signore Pantagruele al luogo stabilito; e potete star certi che non vi fu parigino grande o piccolo che non fosse già là, poiché tutti pensavano che se pure in altra occasione Pantagruele aveva messo a tacere quegli imbroglioni e becchi gialli dei sorbonicoli, questa volta avrebbe trovato pane per i suoi denti. «Questo Inglese» dicevano, «è anche lui un diavolo dalle corna dure. Vedremo chi la vincerà».

Formatasi dunque questa grande adunanza, Thaumaste aspettava; e come Pantagruele e Panurgo fecero il loro ingresso nella sala, studentelli, baccellieri e delegati esplosero in un gran battimani com’è loro stupido costume. Ma Pantagruele, con voce di tuono, li azzittì:

«Silenzio, bricconi! Silenzio, per tutti i diavoli! Se continuate a intronarmi il cervello, vi taglio la testa uno per uno».

A queste parole, tutti rimasero a bocca aperta come tante papere; né avrebbero osato tossire nemmeno a ficcargli in gola quindici libbre di piume. E venne loro una tal sete al suono soltanto di quella voce che cacciavano fuori mezzo piede di lingua come se Pantagruele gli avesse messo il sale nella strozza.

Allora Panurgo esordì dicendo all’Inglese:

«Signore, sei tu venuto qui per sostenere a ogni costo le tue proposizioni, oppure per apprendere e conoscere il vero?»

«Signore» fu la risposta, «null’altro mi muove in verità se non il nobile desiderio di veder bene addentro ai punti oscuri che mi tennero in grave perplessità per tutta la vita, mai non avendo trovato libro o persona che mi chiarisse in modo soddisfacente i dubbi che ho proposto. Quanto poi al contendere per partito preso, non è mia intenzione di farlo: è cosa troppo vile e la lascio a quei marrani di sofisti sorbilloni, sorbonagri, sorbonigeri, sorbonicoli, sorboniformi, sorcoidanzoni, sorbottoni e sorrecchioni117 i quali nelle loro dispute non cercano per nulla la verità, ma solamente prevaricazione e contesa».

«Dunque» disse Panurgo, «se io, che sono umile discepolo del mio signore Messer Pantagruele, potrò accontentarti e darti soddisfazione in tutto e per tutto, sarebbe cosa indegna importunare il mio maestro; per cui sarà più conveniente che egli sieda fra noi quale giudice delle nostre argomentazioni, salvo ad accontentarti per soprammercato lui di persona, se a te parrà che io non abbia soddisfatto appieno il tuo desiderio di conoscenza».

«Veramente ben detto» disse Thaumaste.

«Comincia dunque».

E notate che Panurgo aveva attaccato al fondo della sua lunga braghetta un bel fiocco di seta, rosso, bianco, verde e blu, e dentro vi aveva messo una grossa melarancia.

CAPITOLO XIX

Come Panurgo fece abbassar la cresta all’Inglese che argomentava per gesti

Ed ecco che, mentre tutti erano là con le orecchie tese e in perfetto silenzio, l’Inglese levò in aria le mani una per volta e – le dita serrate a culo di gallina, come dicono a Chinon – le batté quattro volte unghia contr’unghia; quindi le aperse e poi, così di piatto, colpì l’una con l’altra con fragore. Fatto questo, ricompose le dita a culo di gallina e le batté per due volte; poi per quattro volte ancora avendole riaperte. Infine, esibite le mani ben distese, le ricongiunse in atto di preghiera.

Prontamente Panurgo levò la mano destra, ne infilò il pollice nella narice destra, tenendo tese ed unite le altre dita in posizione parallela alla pinna del naso; chiuse l’occhio sinistro e sogguardò col destro, forte aggrottando palpebra e sopracciglio. Poi levò la mano sinistra con il pollice eretto e le altre dita tese ed unite esattamente a specchio della mano opposta, ad un cubito e mezzo di distanza. Fatto questo, abbassò così messe le mani fino a terra per poi riportarle a mezz’aria, come mirando dritto al naso dell’Inglese.

«E se Mercurio...» disse costui.

Ma Panurgo gli tagliò la parola in bocca: «Eh no! Tu hai parlato mascherina!»

L’Inglese allora formò questo segno: alzò la mano sinistra bene aperta e poi la serrò a pugno con il pollice teso alla punta del naso. Subito dopo alzò la destra, anch’essa bene aperta, e bene aperta l’abbassò, premendone il pollice alle pieghe del mignolo chiuso della mano sinistra e pian piano muovendone le altre dita nell’aria. Poi, a vicenda, fece con la destra ciò che aveva fatto con la sinistra e con la sinistra ciò che aveva fatto con la destra.

Per nulla impressionato, Panurgo ribaltò in aria la sua trismegista braghetta con la mano sinistra e con la destra ne tirò fuori un pezzo di costola bovina bianca e due pezzi di legno di egual forma, l’uno di nero ebano, l’altro di legno del Brasile, incarnato; li assestò fra le dita in giusta simmetria e schioccandoli insieme ne traeva un suono simile a quello che fanno i lebbrosi di Bretagna con i loro crepitacoli, ma più echeggiante e armonioso. Frattanto, con la lingua contratta nella bocca, gorgheggiava allegramente senza mai distogliere lo sguardo dall’Inglese.

I teologi, i medici e i cerusici pensarono che, con questo segno, egli volesse dare addirittura del lebbroso a Thaumaste.

I Consiglieri, i legisti e i canonisti pensavano invece che egli intendesse annettere allo stato di lebbroso una sorta di umana felicità, come un tempo aveva detto il Signore.

L’Inglese non se ne spaventò e, alzate ambo le mani, le dispose in modo che – il mignolo disteso e chiuse a pugno le tre dita maestre –il pollice facesse capolino fra l’indice ed il medio. Così le presentava a Panurgo. Poi le congiunse facendo sì che il pollice sinistro toccasse il pollice destro e il mignolo destro il sinistro.

Allora Panurgo, senza batter ciglio, alzò le mani. Con la sinistra – la punta dell’indice unita a quella del pollice – formò una specie di anello, e dentro vi passava a più riprese l’indice teso della destra, le cui restanti dita teneva strette a pugno. Poi schiuse l’indice e il medio della mano destra, divaricandoli il più possibile e puntandoli così contro Thaumaste. Quindi, accostato all’angolo dell’occhio sinistro il pollice della mano sinistra, teneva questa spiegata come ala di uccello o come pinna di pesce, agitandola con grazia di qua e di là per poi fare lo stesso con l’altra mano all’angolo dell’occhio destro.

Qui Thaumaste cominciava a tremare e impallidire, e tuttavia rispose – prima di destra poi di sinistra – schioccando il dito medio contro il muscolo della palma a pie’ del pollice, per poi ficcare l’indice della mano destra nell’occhiello formato dalla sinistra, ma passando da sotto e non da sopra, al contrario di Panurgo.

Panurgo, allora, batté forte le mani palma a palma e poi vi soffiò su. Fatto questo, cacciò di nuovo l’indice della destra nell’occhiello formato dalla sinistra, dentro e fuori più volte. Poi, proteso il mento, folgorava Thaumaste con lo sguardo.

Gli astanti, che di tutti quei segni non capivano niente, compresero però che qui Panurgo sfidava Thaumaste a spiegarsi più chiaro.

Infatti Thaumaste già grondava sudore e aveva tutto l’aspetto di un uomo rapito in altissima contemplazione. Poi parve riprendersi: giustappose le unghie d’ambo le mani con le dita piegate a semicerchio, levando alte le braccia il più possibile perché ognuno vedesse questo segno.

Per tutta risposta, Panurgo, premendo il pollice destro sotto la mascella, introdusse il mignolo della stessa mano nell’occhiello dell’altra, e intanto batteva ed arrotava i denti emettendo suoni assai carezzevoli.

Affranto ed ansimante, Thaumaste si levò, ma nel levarsi gli scappò una gran loffia da fornaio con susseguente fuoruscita di merda. Poi pisciò aceto ben forte e puzzava come tutti i diavoli. Insomma se la fece nei calzoni per eccesso d’angustia, e l’udienza cominciò a tapparsi il naso.

Lui tuttavia levò la mano destra facendo pepe con le dita, e mise al petto la sinistra bene aperta.

Al che Panurgo tirò su la sua lunga braghetta con il fiocco e la distese per un cubito e mezzo, reggendola con la mano sinistra. Con la destra prese la melarancia e, lanciatala in aria sette volte, all’ottava la fece sparire dentro il pugno che tenne fermo in alto. Poi prese a sventolare la sua bella braghetta come invitando Thaumaste ad ammirarla.

A tal vista Thaumaste gonfiò le gote come uno zampognaro e soffiava e soffiava quasi avesse a gonfiare una vescica di maiale.

Panurgo allora si mise l’indice della mano destra nel buco del sedere e cominciò ad aspirare con la bocca come quando si mangiano le ostriche dal guscio o si tira su il brodo dal cucchiaio. Poi dischiuse la bocca e vi batté col palmo della mano libera producendo un suono cavernoso come venisse su dal diaframma attraverso il condotto della trachea: questo per sedici volte.

Ma poiché Thaumaste continuava a soffiare come un’oca spaventata, Panurgo si cacciò in bocca l’indice destro stringendolo forte con le labbra. Poi lo tirava fuori facendo un bello schiocco come quando i monelli sparano pallottole di rapa con i loro schioppetti di sambuco: questo per nove volte.

Allora Thaumaste parlò: «Ecco, o signori, il gran segreto! Lui vi ha affondato le mani fino al gomito!». Ed estrasse un pugnale che aveva, tenendolo alto con la punta all’ingiù.

Dopo di che Panurgo mise mano di nuovo alla sua bella braghetta sbatacchiandola forte fra le cosce. Poi, intrecciate a pettine le mani, se le mise in testa, cacciando fuori tutta la lingua e roteando gli occhi nelle orbite come una capra che stia per morire.

«Adesso capisco» disse Thaumaste. «Ma che cosa capisco?». E il suo segno fu che questa volta si mise il pugnale al petto dalla parte del manico, con la punta a toccare il palmo della mano, piegando appena l’estremità delle dita.

Allora Panurgo chinò la testa sul lato sinistro e ficcò il dito medio nell’orecchio destro col pollice all’insù; incrociò le mani sul petto e tossì cinque volte, battendo a terra il piede destro al quinto colpo di tosse. Poi levò il braccio sinistro e chiudendone a pugno le dita – il pollice alla fronte – si percorse il petto sei volte con la mano destra.

Ma Thaumaste, tuttavia insoddisfatto, alzò la mano sinistra chiusa a pugno, col pollice premuto contro la punta del naso.

Per cui Panurgo, con i due medi agli angoli della bocca, aprì e stirò le labbra fino a mostrare tutti i denti, mentre coi pollici dilatava all’ingiù a dismisura le palpebre degli occhi, esibendo agli astanti una smorfia che parve a tutti bruttissima.

CAPITOLO XX

Dove Thaumaste illustra la virtù e il sapere di Panurgo

Allora Thaumaste si alzò e, togliendosi di capo il berretto, ringraziò a parte Panurgo con voce sommessa, poi si rivolse all’udienza a voce alta perché tutti sentissero:

«Signori, lasciate che in questo momento io ripeta il detto evangelico Et ecce plus quam Salomon hic118, poiché avete qui davanti a voi un tesoro incomparabile. Ed è monsignor Pantagruele, la cui rinomanza mi ha condotto fin qua dalle estreme contrade d’Inghilterra per discutere con lui di alcuni problemi, sia di magia, di alchimia, di cabala, di geomanzia, di astrologia, sia di filosofia, che occupavano l’animo mio. Ma debbo pur dirvi che adesso ho in gran dispetto la Fama, la quale mi pare sia invidiosa di lui, dacché non ne proclama se non la millesima parte del suo merito vero.

«Voi stessi avete visto come un suo semplice discepolo mi abbia soddisfatto, mi abbia detto più di quanto non chiedessi e mi abbia chiarito e risolto per soprammercato altri dubbi di rilevanza incalcolabile. Nel far questo, posso assicurarvi, egli mi ha mostrato la vera scaturigine e il fondo dell’abisso dell’universalità del sapere, su argomenti, vi dico, sui quali io non pensavo potesse esservi al mondo chi ne conoscesse i pur minimi ed elementari principi; e ciò disputando per segni, senza pronunziare nemmeno una mezza parola119.

«Ma io avrò cura di mettere per iscritto ciò che abbiamo detto e dimostrato affinché non si pensi che sia stata una ciancia o una baia e perché ognuno ne tragga profitto come ho fatto io.

«Ora potete ben giudicare che cosa avrebbe potuto dire il maestro, se il suo discepolo ha potuto, lui solo, far prova di sì alto valore; imperocché Non est discipulus super magistrum.

«In ogni caso sia lode a Dio. Io vi ringrazio con tutta umiltà per l’onore che avete reso a questo confronto. E che Dio ve ne rimeriti in eterno».

Eguali ringraziamenti rese Pantagruele a tutta l’adunanza e, partendosi di là, volle con sé Thaumaste a desinare; e vi assicuro che bevvero, come tutte le anime buone il giorno dei morti, a pancia sciolta ovverossia sbottonata (perché a quel tempo si usava sbottonare il panciotto come oggi il colletto) fino a chiedersi l’un l’altro «Donde vieni?».

Madonna santa, come tiravano alla botte! Fiaschi ad andare, bottiglie a tornare e tutti a chiamare:

«Tira!»

«Dai!»

«Porta!»

«Mesci!»

«Paggio, del vino!»

«Versa, versa, per tutti i diavoli!»

Non ce ne fu uno che non ne bevesse le sue venti o trenta moggia, e sapete come? Sicut terra sine aqua; perché faceva caldo e avevano una bella sete.

Quanto poi all’esposizione delle tesi proposte da Thaumaste e al significato dei segni adibiti nella discussione, io ve li esporrei secondo le loro intime correlazioni; ma mi è stato detto che Thaumaste li ha ordinati in un grosso libro stampato a Londra, nel quale tutto è chiarito e nulla tralasciato. Per questo e per il momento, io me ne discarico120.

CAPITOLO XXI

Come Panurgo si innamorò di una gran dama di Parigi

Panurgo cominciò ad acquistare reputazione nella città di Parigi in seguito alla disputa ch’egli aveva sostenuto contro l’Inglese; e da allora prese ad ostentare ancor più la sua lunga braghetta cui fece applicare bei ricami a ritaglio all’uso romano. Tutti lo lodavano pubblicamente e su di lui fu composta una canzone che i ragazzetti cantavano andando a comperare la mostarda. Egli era bene accolto in tutte le compagnie di dame e damigelle e ne inorgoglì a tal punto che concepì il disegno di mettersi sotto una delle grandi dame della città.

Difatti, lasciando perdere tutti i preamboli e le lunghe dichiarazioni che fanno per solito quegli amanti da quaresima, lagnosi e contemplativi, che non toccano mai carne, un giorno le parlò così:

«Signora, sarebbe cosa assai profittevole a tutta la repubblica, dilettevole a voi, confacente al vostro lignaggio ed a me necessaria che voi vi faceste coprire dalla mia razza, ovverossia da me. E dovete credermi, perché l’esperienza ve lo proverà».

La dama, a queste parole, replicò con tale indignazione da far correre chiunque per più di cento leghe:

«Miserabile matto, chi vi autorizza a tenermi simili discorsi? A chi credete di parlare? Fuori di qui! E guardatevi bene dal comparirmi davanti un’altra volta, che già manca poco ch’io non vi faccia tagliare braccia e gambe».

«Ma» disse lui, «a me, veramente, m’importerebbe ben poco di aver tagliate braccia e gambe, purché facessimo insieme, voi ed io, un quartirolo di baldoria; perché vedete» e mostrava la sua lunga braghetta, «c’è qui mastro Pannocchia che vi suonerà una gagliarda da farvela sentire fin nel midollo delle ossa. È così galante e così abile, prima di entrare nel vivo, a trovar fuori tutti i cavilli della procedura e tutte le ragnatele del passetto che dopo di lui non c’è più nulla da spolverare».

«Via di qua» sibilò la gran dama, «via di qua, lazzarone! Altrimenti chiamo gente e vi faccio legnare di santa ragione».

«Mannò!» disse lui. «Voi non siete così cattiva come volete far credere. Non può il vostro aspetto essere tanto ingannevole. Io dico che dovrà vedersi la terra scagliata nell’alto dei cieli e gli altissimi cieli sprofondati nell’abisso, e sovvertito ogni ordine della Natura prima che una sì gran bellezza ed eleganza possa accogliere in sé una goccia soltanto di fiele e di malizia. Si dice, è vero, che, per quanto si sia cercato,

mai si vide gran beltà

che alla prima te la dà;

ma questo è detto per le beltà volgari. La vostra invece è così eccellente, singolare e celeste, ch’io non dubito averla madre Natura posta in voi come modello per mostrarci a qual grado di perfezione possa giungere quando dispiega nell’opera tutta la sua potenza e il suo sapere. Tutto in voi non è che miele e zucchero e manna celeste. È a voi che Paride avrebbe dovuto assegnare l’aureo pomo: non a Venere, non a Giunone, né a Minerva, giacché mai non vi fu tanta magnificenza in Giunone, tanta prudenza in Minerva o in Venere tanta grazia quanta in voi se ne ammira.

«O dèi tutti del cielo, ben felice colui al quale farete la grazia di poter stringere al petto una tal donna, di baciarla e di sfregolarsi il lardo secolei! Perdio! Di chi sarà se non mia tanta ventura? Io già lo vedo, lo vedo! Essa mi ama alla follia. Lo so, lo sento, a ciò mi destinarono le stelle:

ragion per cui

bruciam le tappe,

apri le gambe,

stringi le chiappe».

E tentò di abbrancarla. Ma la donna fece finta di volersi affacciare alla finestra per chiamare i vicini a soccorso e Panurgo se la filò senza aspettare di vederci chiaro.

«Signora» le disse fuggendo, «aspettatemi qui. Ci vado io a chiamarli. Non datevi pena».

Così se ne andò senza troppo angustiarsi per lo smacco subìto, né perse l’appetito per questo.

Il giorno dopo si fece trovare in chiesa nell’ora in cui sapeva che lei andava alla messa. All’entrata le porse l’acqua benedetta con un profondo inchino, poi, con molta familiarità, andò ad inginocchiarsi accanto a lei.

«Signora» le disse, «io sono innamorato di voi a tal punto che non riesco più né a cacare né a pisciare. Io non so come voi la intendiate, ma, se dovessi ammalarmi, come la mettiamo?»

«Non lo so e non me ne importa» disse lei. «Andate, andate via, e lasciatemi pregare in pace».

«Ma» disse lui, «non conoscete il proverbio A pellebotte il mazzo conta

«No. Cosa vuol dire?»

«Vuol dire che a belle potte il cazzo monta. Ed ora pregate Dio che mi conceda ciò che il vostro nobile cuore desidera, e donatemi di grazia questo vostro rosario».

«Prendete» disse lei, «e non importunatemi più».

E voleva sfilare dalla cintura il suo prezioso rosario ch’era di cedro con grossi paternostri d’oro. Ma Panurgo trasse fuori il suo coltello, lo recise con bel garbo e lo intascò di volo per andarselo a vendere al mercato.

«Volete il mio coltello?» disse alzandosi.

«No no» disse lei.

«Se vi servisse» insistette Panurgo, «è sempre ai vostri ordini: corpo e beni, trippe e budella».

Ma già in cuor suo la dama era pentita di aver ceduto così il suo rosario, perché recitarlo in chiesa era uno dei suoi modi preferiti di darsi un contegno. E pensava: «Questo parolaio dev’essere uno scervellato di un qualche paese straniero. Che dirà mio marito? Certamente si adirerà. Ma gli dirò che un furfante me l’ha strappato in chiesa a tradimento. Vedrà il pezzetto di nastro che mi è rimasto attaccato alla cintura e mi crederà facilmente».

Dopo desinare, Panurgo andò a trovarla recando nella manica una gran borsa piena di bottoni di ferro e di gettoni; e cominciò a dirle: «Chi di noi due ama l’altro di più? Voi o io?»

«Quanto a me» disse la dama, «non vi odio perché amo tutti, conforme il comandamento di Dio».

«Ma, a proposito» disse lui, «non siete innamorata di me?»

«Vi ho già detto le mille volte» rispose lei, «di non farmi mai più simili discorsi. Se ne parlate ancora vi faccio vedere che cosa succede a chi attenta all’onore di una dama del mio rango. Adesso levatevi di torno e rendetemi il mio rosario prima che mio marito me ne chieda conto».

«Il vostro rosario? Ma non c’è ragione al mondo! Perzio, voglio darvi ben altro! Che ne direste di una corona tutta in oro smaltato a grosse sfere o a nodi d’amore? Oppure di massicce pepite, o tutta di grani d’ebano e giacinti, o di granate grandi e sfaccettate, inframezzate di fini turchesi, o magari di topazi e zaffiri alternati, o addirittura di splendidi balasci coi padrenostri di grossi diamanti d’acqua purissima a ventotto faccette?... No no: son cose troppo vili. Io so di un rosario di smeraldi con grani d’ambra grigia ben lavorati a sfera e una perla persiana nel fermaglio grossa quanto un’arancia. Non costa più di venticinquemila ducati e io voglio farvene dono, perché, sapete, non è il contante che mi manca». E, nel dir questo faceva suonare i suoi gettoni nella borsa come fossero marenghi. «Volete una pezza di velluto violetto cremisi tinto in grana, una pezza di raso broccato o cremisino? Volete collane, ori, nastri, ciondoli, anelli? Non avete che da fare un cenno. Fino a cinquantamila ducati non è niente per me».

«No, vi ringrazio» disse la donna che pure aveva l’acquolina in bocca, «non voglio niente da voi».

«Per Dio!» disse lui. «Ma c’è ben qualcosa che voglio io, da voi: qualcosa che nulla vi costa e nulla vi toglie. Vedete?» e agitava la sua lunga braghetta. «Qui c’è un pellegrino che vi chiede alloggio».

Poi voleva abbracciarla, ma lei si mise a gridare, benché non tanto forte.

Panurgo allora la smise di fare la commedia, e disse:

«Voi dunque non volete proprio lasciarvi fare nemmeno un po’? Allora merda a voi! Non siete degna, voi, di tanto bene e di sì grande onore. Ma vi giuro, perdio, che vi farò montare dai cani».

E detto questo scappò di galoppo per paura delle legnate, le quali egli temeva per inclinazione naturale.

CAPITOLO XXII

Come Panurgo giocò alla dama parigina un tiro che non le recò vantaggio

Ora notate che l’indomani era la festa del Corpus Domini, giorno nel quale tutte le donne sfoggiano i loro abbigliamenti più fastosi, e quella mattina la dama che sapete indossava un bellissimo mantello di raso chèrmisi e una sottana di velluto bianco di gran prezzo.

Ma fin dalla sera prima Panurgo s’era dato un gran da fare e tanto aveva cercato finché era riuscito a trovare una cagna in calore; l’aveva legata con la sua cintura, l’aveva portata nella sua stanza e qui l’aveva fatta mangiare e impinzata ben bene per tutta la notte.

Al mattino l’uccise; ne prese quella parte fessa che ben sanno i negromanti greci e che portò via con sé ben nascosta, ridotta in minuscoli pezzettini; andò dove la donna doveva recarsi per seguire la processione come si usa in quella solennità, e quando essa entrò le porse l’acqua benedetta salutandola con grande cortesia; le lasciò il tempo di recitare i suoi pissi pissi, poi andò a sedersi accanto a lei nello stesso banco e le porse un biglietto con su scritto un rondò che suonava così:

RONDÒ

Quella volta che a voi, bella signora,

dissi il mio caso, mi gridaste: «fora!»,

e foste si villana ch’ìo ne andai

(benché alcun male non v’avessi fatto

con vil pensiero, con parola od atto)

senza speranza di tornar più mai.

Perché, se proprio del mio cuor mendico

v’era in uggia il lamento e il troppo ardore,

senza sgolar non mi diceste: «Amico,

levatevi dai piedi per favore,

per questa volta»?

Torto non faccio alla beltà sovrana

vostra né al vostro onore se rammento

a voi che mi son preso la quartana

per amor vostro, e di ciò mi lamento.

Né altro chiedo con questo rondò

che di potervi cavalcare un po’

per questa volta.

E mentre lei svolgeva il foglio per vedere di che si trattasse, lui, con mano pronta e leggera, le sparse addosso qua e là, nelle pieghe delle maniche e del mantello, la droga che aveva con sé. E intanto l’ammoinava con parabole:

«Signora, non sempre i poveri innamorati se la passano bene. Quanto a me, posso soltanto sperare che le mie male notti, i travagli e le pene terribili che mi tocca di patire a causa dell’amore che ho per voi, mi valgano a sconto di altrettante pene del purgatorio».

Non ancora Panurgo aveva finito di parlare che già tutti i cani presenti in chiesa erano accorsi all’odore di quella droga ch’egli aveva sparso sugli abiti della signora: piccoli e grandi, grassi e sparuti, tutti erano là col bischero di fuori che l’annusavano e le pisciavano addosso d’ogni parte: il più turpe oltraggio del mondo.

Panurgo, sulle prime fece le viste di volerli scacciare, poi prese congedo e s’intanò in una cappella laterale per godersi il seguito, ché questi cani senza creanza erano tanto indaffarati a spìscettare e a pomiciare con le vesti della donna che un grosso levriere arrivò a pisciarle sulla testa, mentre gli altri gliela facevano sulle maniche, sul davanti, sul didietro, e i bassotti sulle scarpe; tanto che tutte le donne ch’erano accorse e le stavano intorno avevano un bel da fare a proteggerla.

Panurgo intanto se la rideva e andava insinuando nell’orecchio di alcuni signori della città che, secondo lui, quella signora era in calore, oppure era stata coperta di fresco da un levriere.

E quando vide che tutti i cani ringhiavano e guaivano a dovere come fanno intorno ad una cagna quand’è in calda, si allontanò di là per andare a cercare Pantagruele.

Per la strada, a ogni cane che incontrava gli dava una pedata, gridando: «Poltrone, perché non vai a nozze anche tu con i tuoi compagni? Avanti, per tutti i diavoli, avanti!». E, giunto a casa, disse a Pantagruele:

«Maestro, ve ne prego, venite a vedere tutti i cani di Francia che hanno preso in mezzo una bella signora e la vogliono immanicare».

Pantagruele acconsentì di buon grado, vide il mistero121 e trovò ch’era molto bello e del tutto insolito.

Ma il meglio venne alla processione, ché là si vide la donna dibattersi fra gli assalti di una turba di seicentomilaquattordici cani, senza contare gli ultimi arrivati che seguivano in coda fiutando l’orma e sostando a pisciare su ogni cosa ch’ella avesse sfiorato con il suo mantello.

E tutti lungo la strada si fermavano ad ammirare lo spettacolo, affascinati dalla furia di quei cani che assediavano la donna e le saltavano addosso fino al collo. Scarmigliata e con le belle vesti ridotte a un mucchio di fetidi stracci, essa non trovò di meglio che fuggirsene a casa. E i cani a inseguirla, e lei a rimpiattarsi, e le fantesche a ridere.

Come fu entrata ed ebbe chiusa la porta, i cani vi accorrevano ormai da mezza lega all’intorno, e tanto pisciarono su quella porta che ne nacque un ruscello nel quale avrebbero potuto navigare le anitre. Ed è appunto il ruscello che ora passa da San Vittore122 e che fornisce lo scarlatto alla tintoria di Gobelin grazie alla virtù specifica di quelle orine di cane, come ben predicava in pubblico Mastro nostro Oribus123.

Così, che Dio vi aiuti! Un mulino vi avrebbe potuto macinare; non così grande però come quello di Bazacle a Tolosa124.

CAPITOLO XXIII

Come Pantagruele partì da Parigi, avendo udito che i Dipsodi avevano invaso il paese degli Amauroti; e la ragione per cui in Francia le leghe sono così corte

Poco tempo dopo Pantagruele venne a sapere che suo padre Gargantua, preso in un sortilegio di Morgana, era andato a finire di volo nel paese delle Fate, come già nei tempi antichi Enoch ed Elia125, e che i Dipsodi, avuto sentore di questa traslazione, erano usciti dai loro confini, avevano devastato una grande regione del paese di Utopia e stringevano d’assedio la capitale degli Amauroti. Per cui, data l’urgenza del caso, partì da Parigi senza salutare nessuno e prese la via di Rouen.

Strada facendo, notò che le leghe di Francia erano troppo corte rispetto a quelle di altri paesi e ne chiese la ragione a Panurgo, che gliene espose la storia tal quale la racconta il monaco Mastro nostro Marotto del Lago nelle sue Gesta del Re di Canaria.

«Nei tempi andati» disse, «i paesi non erano divisi in leghe, miglia, stadi o parasanghe, finché a Re Faramondo non venne in testa di misurarli, e lo fece così: scelse in Parigi cento bei giovani, gagliardi, buontemponi e intraprendenti, e cento belle ragazze di Picardia, e li fece trattar bene e mangiar meglio per otto giorni di fila; poi li chiamò a sé, assegnò a ciascun giovane la sua ganza con un bel mucchio di soldi per le spese e li spedì lontano per vie diverse, chi di qua chi di là, con l’intesa che ovunque si fermassero per biscottarsi la ragazza, piantassero lì una pietra, ché questa, appunto, avrebbe segnato una lega. Partirono dunque quei bravi in grande allegria, e poiché erano bene in forze e senza pensieri, si fermavano a ogni fossatello o cavedagna per giocare a pimpompetto; ed ecco perché le leghe di Francia sono tanto corte. Ma poi, cammina e cammina, si sentivano stanchi e spompati come poveri cristi, con lo stoppino in secca, perché l’olio della lucerna era finito; e non razzolavano più tanto spesso, accontentandosi (gli uomini, ben s’intende) di una stracca e spregevole ripassata al giorno, massimo due. Ed ecco la ragione che fa così lunghe le leghe di Bretagna, delle Lande, di Allemagna e di altri paesi più lontani. Altri tirano in campo altre ragioni, ma questa, a me, mi sembra la più seria». Sulla quale opinione Pantagruele convenne di buon grado.

Partiti da Rouen, arrivarono a Honfleur, dove Pantagruele, Panurgo, Epistemone, Eustene e Carpalim decisero di mettersi per mare, e là, mentre aspettavano il vento propizio e ristoppavano la nave, Pantagruele ricevette da una dama di Parigi, sua donna da gran tempo, un messaggio sigillato su cui era scritto

Al più amato dalle dame, al meno leale dei prodi,

P.N.T.G.R.L.

CAPITOLO XXIV

Lettera che il messaggero di una dama di Parigi portò a Pantagruele e spiegazione di un motto inciso in un anello d’oro

Stupito alla lettura di quell’indirizzo, Pantagruele volle sapere dal messaggero chi lo avesse mandato, poi aprì la lettera e non vi trovò nulla di scritto, ma soltanto un anello d’oro con un diamante piatto. Allora chiamò Panurgo e sottopose il caso al suo giudizio. Panurgo sentenziò che certamente la lettera era scritta, ma con uno di quegli artifizi che rendono invisibile la scrittura: forse con sali di ammoniaca sciolti nell’acqua; e per accertarsene la mise vicino al fuoco.

Poi la mise nell’acqua per vedere se non fosse scritta con succo di titimaglio; ma niente.

Allora l’accostò a una candela per provare se invece non fosse scritta con liquore di cipolla bianca.

Poi ne stropicciò un cantuccio con olio di noce, pensando che forse era scritta con lisciva di cenere di fico.

Un altro cantuccio lo strofinò con latte di donna primipara, nel caso si trattasse di sangue di rospo.

Poi si rammentò di un altro inchiostro invisibile, una specie di rugiada che si trova nei frutti di alcachingi e vi passò un po’ di cenere di nido di rondini.

Poi provò con il cerume delle orecchie che rivela l’inchiostro di fiele di corvo.

Poi si rammentò dell’olio di catapuzia e la mise a bagno nell’aceto. Poi la unse con dello strutto di pipistrello, nel dubbio che fosse scritta con lo sperma di balena chiamato ambra grigia.

Poi la immerse pian piano in un catino d’acqua fresca per vedere se fosse scritta con allume di piuma. E, non essendo venuto a capo di nulla, chiamò il messaggero e gli disse:

«Amico, la dama che ti manda non ti ha consegnato per caso anche un bastone da portare?». Perché gli era passato per la mente che potesse esserci di mezzo l’ingegnoso espediente di cui parla Aulo Gellio126. E siccome il messaggero gli rispose che no, lui fu sul punto di fargli radere i capelli per accertare se la dama gli avesse fatto scrivere qualcosa a inchiostro sulla testa rapata. Ma poi desistette, considerando che il messaggero aveva i capelli molto lunghi e che i capelli non possono crescere così tanto in così breve tempo. E disse a Pantagruele:

«Virtù di Dio, maestro, io non so più che cosa fare né cosa dire. Le ho provate tutte: buona parte delle ricette di Messer Francesco di Nianto da Firenze, nel suo libro Sul modo di leggere le scritture invisibili; poi quelle di Zoroastro nel Perì Grammaton acriton; poi di Calpurnio Basso nel De litteris illegibilibus; e non ho cavato un ragno da un buco. Qui c’è soltanto l’anello. Vediamo un po’». Di fatti lo guardarono ben bene e trovarono che all’interno c’era scritto in ebraico:

LAMAH HAZABTHANI.

Per cui chiamarono a consulto Epistemone, il quale spiegò che quelle erano le ultime parole di Cristo sulla croce127: «Perché mi hai abbandonato?».

A Panurgo per capire tutto, non occorreva niente di più.

«Vedete» disse, «vedete questo diamante? Questo è un diamante falso: “Di’-amante falso, perché mi ha abbandonato?”. Questo voleva dire la dama! Tutto chiaro».

Sciolto così l’enimma, Pantagruele si ricordò che nel partirsene, non aveva preso congedo dalla sua donna e se ne contristò, e aveva una gran voglia di tornare a Parigi per far pace con lei. Ma Epistemone gli richiamò alla mente la dipartita di Enea da Didone e il detto di Eraclide Tarentino che «Quando la nave è agli ormeggi e la necessità incalza, meglio è tagliare la cima che perdere tempo a salpare l’ancora». Così egli doveva, adesso, deporre ogni altra cura e accorrere in difesa della sua città natale ch’era in grave pericolo.

Di fatto, non passò un’ora che si levò il vento di nord-nord-ovest al quale spiegarono tutte le vele prendendo il largo; e in pochi giorni, passando per Porto Santo e per Madera, fecero scalo alle Canarie.

Partiti di là, passarono per Capo Bianco, per il Senegal, per Capo Verde, la Gambia, il Capo Sagres, il Melli, doppiarono il Capo di Buona Speranza e fecero scalo nel regno di Melindo.

Poi ripresero il mare facendo vela al vento di tramontana. Passarono per Medèn, per Utì e Udém; doppiarono Galasìm e le isole delle Fate, costeggiarono il regno di Acoria e finalmente giunsero al porto di Utopia, che distava tre leghe poco più dalla città degli Amauroti.

A terra, si rinfrancarono un po’. Poi Pantagruele chiamò a sé i compagni e disse loro: «Ragazzi, la città non è molto distante da qui, e prima di muovere un passo è bene metterci d’accordo su ciò che intendiamo fare, per non somigliare agli Ateniesi che mai si consultavano se non a fatto compiuto. Siete voi decisi a vivere e morire con me?»

«Sì, signore» risposero tutti. «E contate pure su di noi come se fossimo le vostre dita».

«Orbene» disse lui, «c’è un solo punto che mi tiene l’animo sospeso e perplesso; ed è che noi non sappiamo in che ordine e in che numero siano i nemici che stringono d’assedio la città; ché, se lo sapessi, muoverei all’attacco con maggior sicurezza. Perciò dobbiamo concertarci sul modo di venirlo a conoscere».

Anche su questa proposta l’assenso fu unanime. «Lasciateci andare a vedere» dissero tutti, «e aspettateci qui. Prima di sera avrete notizie sicure».

«Io» disse Panurgo, «e non c’è sentinella o pattuglia che tenga, mi impegno a entrare nel loro campo, a banchettare con loro, ad andare a puttane a loro spese, a ispezionare le artiglierie e le tende di tutti i capitani, e anche a confessare i peccatori128, senza farmi riconoscere né prendere in castagna. Nemmeno il diavolo può insegnarmi qualche astuzia che io già non sappia, perché io sono della stirpe di Zopiro»129.

«Io» disse Epistemone, «conosco tutti gli accorgimenti e gli stratagemmi dei grandi capitani ed eroi del tempo antico e tutte le astuzie e gli accorgimenti dell’arte militare. Io ci vado, e quand’anche fossi scoperto e riconosciuto, me la caverò dando a credere di voi tutto quello che mi piacerà, perché io sono della stirpe di Sinone»130.

«Io» disse Eustene, «passerò attraverso le loro trincee ad onta delle pattuglie e delle sentinelle, perché io gli cammino sulla pancia e gli rompo braccia e gambe. Perché io sono della stirpe di Ercole».

«Quanto a me» disse Carpalim, «sono abbastanza lesto e leggero per attraversare le loro trincee e tutto il campo prima che mi scorgano. E non temo né dardo, né saetta, né cavallo veloce, fosse pure il Pegaso di Perseo, o il Pacoletto131. E davanti a loro me la filo sano e salvo, a colpo sicuro. Insomma, se passano gli uccelli, passo anch’io, e mi impegno a camminare sulle spighe di grano e sopra l’erba dei prati senza piegarne le cime132, come la vergine Camilla; perché io sono della sua stirpe».

CAPITOLO XXV

Come Panurgo, Carpalim, Eustene ed Epistemone, compagni di Pantagruele, sconfissero molto abilmente i seicentosessanta cavalieri

Mentre così parlava Carpalim, avvistarono seicentosessanta cavalieri ben montati su corsieri veloci che accorrevano al porto per vedere cosa portasse quella nave appena giunta all’approdo; e correvano briglia sciolta per catturare, potendo, i nuovi arrivati.

«Ragazzi, nemici in vista» disse Pantagruele. «Presto. Voi ritiratevi sulla nave, che a quelli penso io. Ve li ammazzerò come bestie, fossero pure dieci volte tanti. Voi ritiratevi e divertitevi a guardare».

«No no, signore» disse Panurgo. «Quello che dite non è ragionevole. Al contrario, ritiratevi voi sulla nave, voi e gli altri. Quelli me li lavoro io da solo. Non c’è tempo da perdere, affrettatevi».

E gli altri:

«Ben detto! Ritiratevi voi, signore. Noi restiamo qui con Panurgo, e vedrete di che cosa siamo capaci».

«Sta bene» disse Pantagruele. «Farò come dite voi. Ma se aveste a trovarvi in difficoltà, contate su di me».

Allora Panurgo prese due grossi canapi di bordo e ne fissò i capi all’argano sulla tolda; poi li svolse a terra formando due cerchi di grandezza diversa, uno dentro l’altro, e disse a Epistemone:

«Voi, signore, salite a bordo, e quando vi do la voce girate l’argano a tutta forza. E voi due» disse agli altri, «farete finta di arrendervi. Offritevi francamente ai nemici e obbediteli in tutto. Ma state attenti a non entrare nel giro di queste corde. Tenetevi sempre all’esterno».

Poi tirò fuori dal carico di bordo un fascio di paglia e un barile di polvere da cannone, ne cosparse le funi e se ne stette lì presso, una granata alla mano.

Ed ecco arrivare i cavalieri con tale impeto che i primi quasi andavano a dar di cozzo contro la nave. E poiché il terreno era viscido, ne andarono a gambe all’aria più di quarantaquattro: loro e i cavalli.

Gli altri, pensando che i primi avessero incontrato resistenza, si fecero sotto. Ma Panurgo li apostrofò con buona grazia:

«Signori, temo che qualcuno si sia fatto male. Perdonateci. Non è colpa nostra. È la lubricità dell’acqua marina, sempre così untuosa. Noi, lo vedete, ci rendiamo a discrezione».

Lo stesso dissero gli altri due lì accanto, ed anche Epistemone su dalla tolda. Intanto Panurgo prendeva le distanze e come vide che tutti i nemici erano dentro al giro dei cavi e che i suoi compagni, con l’aria di far largo ai cavalieri, se n’erano allontanati, mentre quelli vi si affollavano dentro per spiar da vicino la nave ed il carico, diede la voce a Epistemone:

«Tira, tira!»

E quello cominciò a tirare dando la volta al molinello, sì che le corde si aggrovigliavano ai piedi dei cavalli, che rovinarono a terra insieme ai cavalieri. I quali, vista la trappola, trassero le spade per tagliare le funi. Ma Panurgo diede fuoco alle polveri e li fece abbrustolire come anime dannate.

Uomini e cavalli, nessuno si salvò, ad eccezione di un tale che era montato su di un cavallo berbero e che riuscì a filarsela. Ma Carpalim, velocissimo, appena se ne accorse, lo inseguì e lo raggiunse allegramente in meno di cento passi; saltò in groppa al cavallo, abbrancò il fuggiasco da dietro e lo portò sulla nave.

Fatta piazza pulita dei nemici, Pantagruele ne gioì moltissimo, e non finiva di lodare l’abilità dei compagni, e volle che riposassero e mangiassero allegramente in riva al mare.

Là brindarono distesi a pancia sotto, e il prigioniero con loro in grande familiarità. Senonché il povero diavolo non era del tutto sicuro che Pantagruele non mangiasse anche lui bell’e intero: cosa altrettanto facile per Pantagruele, con quella gola che non finiva mai, quanto per voi ingoiare una ciliegia; ché, nella sua bocca, il meschino non avrebbe fatto maggiore ingombro di un chicco di miglio nella bocca di un asino.

CAPITOLO XXVI

Come Pantagruele e i suoi compagni erano stanchi di mangiare carne salata e come Carpalim andò a caccia di selvaggina

Il banchetto era appena cominciato che Carpalim saltò su a dire:

«Per Santa Cotica, possibile che non si trovi mai il verso di mangiare un po’ di selvaggina? Questa carne salata mi mette una sete da morire. Adesso vado a prendere una coscia di quei cavalli là che abbiamo messo al fuoco, che ormai saranno cotti».

Ma mentre si alzava con questa idea, scorse ai margini del bosco un bellissimo capriolo che era uscito dal folto alla vista del falò di Panurgo, penso io. E subito gli fu addosso con la rapidità del fulmine, non senza aver preso a volo sul tragitto:

quattro grandi ottarde,

sette galline prataiole,

ventisei pernici grigie,

trentadue rosse,

sei fagiani,

nove beccacce,

diciannove chiurli133,

trentadue ramieri134,

e uccidendo inoltre con i piedi dieci o dodici fra conigli e leprotti abbastanza cresciuti per schivare le trappole,

diciotto coppie di gallinelle,

quindici cinghialetti,

due tassi,

tre grosse volpi.

Ucciso dunque il capriolo con una gran sciabolata sulla testa, se lo mise in spalla, raccolse leprotti, cinghialetti, beccacce e prataiole e appena fu abbastanza vicino per essere udito dai compagni:

«Aceto, aceto!» gridò. «Aceto, Panurgo, amico mio!»

Per cui il buon Pantagruele pensò che avesse male al cuore e ordinò che gli portassero l’aceto. Ma Panurgo comprese immediatamente che c’era selvaggina nel carniere. E infatti fece notare a Pantagruele che Carpalim portava a tracolla un bel capriolo, e un trofeo di leprotti alla cintura.

Senza por tempo in mezzo, Epistemone allestì nove spiedi di legno all’uso antico; Eustene diede una mano a sventrare, spennare e scorticare; Panurgo raccattò fra i morti due selle da battaglia e le dispose in modo che fungessero da alari; il prigioniero fu nominato rosticciere e, con i resti del fuoco che aveva arrostito i nemici, misero ad arrostire la cacciagione. Poi tavola magna senza economia di aceto, e peste a quell’uno che si mostrasse sobrio.

Ed era una festa vederli sbasoffiare così.

«Piacesse a Dio» disse Pantagruele, «che ognuno di voi avesse al mento due paia di sonaglietti da falcone sagro e io i bei campanoni degli orologi di Rennes, di Poitiers, di Tours e di Cambrai, per vedere che bella mattinata sapremmo suonare al ritmo della battiguancia!»

«Sì» disse Panurgo, «ma adesso è meglio pensare un po’ ai casi nostri per vedere in che modo possiamo metter sotto i nemici».

«Giusto» disse Pantagruele. E si volse al prigioniero.

«Amico» gli disse, «adesso devi tirar fuori la verità senza mentire in nulla, se non vuoi essere scorticato vivo. Perché io sono quello che mangia i bambini. Perciò dovrai raccontarci tutto sulle posizioni, il numero dei nemici e la roccaforte dell’armata».

«Sappiate, signore, in tutta verità» rispose il prigioniero, «che nell’armata ci sono: trecento giganti tutti armati di pietre da taglio, prodigiosamente grandi anche se non proprio come voi, eccetto uno, chiamato Lupomannaro, tutto armato di incudini ciclopiche; centosessantatremila fantaccini tutti armati di pelle di folletti, gente forte ed intrepida; undicimilaquattrocento uomini d’arme; tremilaseicento doppi cannoni; spingarde senza numero; novantaquattromila pionieri; centocinquantamila puttane belle come dee...»

«Hanno pensato anche a me» interloquì Panurgo.

«Di queste» soggiunse il prigioniero, «alcune sono del paese delle Amazzoni, altre di Lione, di Parigi, della Turenna, dell’Angiò, del Poitou, di Normandia, di Allemagna; insomma di tutti i paesi e di tutte le lingue».

«Bene» disse Pantagruele. «Ma c’è anche il re?»

«Sì, signore: il re in persona. Noi lo chiamiamo Anarca, re dei Dipsodi, che è come dire re degli assetati, perché voi non avrete mai visto gente tanto tormentata dalla sete e tanto amante del bere. La sua tenda è guardata dai giganti».

«Basta così» disse Pantagruele. «A voi, ragazzi. Siete decisi a seguirmi?»

«Dio confonda in eterno chi non vi segue!» disse Panurgo. «Ho già pensato al modo di servirveli tutti bell’e morti come maiali, che non deve mancarne nemmeno un garretto nella cambusa del diavolo. Ma c’è un problemino che mi angustia un po’».

«E quale?» disse Pantagruele.

«È che non so come farò a far gustare il mio catorzolo a tutto quel ben di Dio di puttane in questo dopopranzo, in modo che non ne scappi una prima che l’abbia stesa come tutte le altre».

Rise Pantagruele, ma Carpalim protestò:

«Per tutti i diavoli di Casa del Diavolo, dovrò pure imbottirne qualcheduna anch’io!»

«E io» disse Eustene, «che non ho mai drizzato da quando partimmo da Rouen, salvo che la lancetta mi segna sempre le dieci o le undici e ce l’ho duro e forte come cento diavoli?»

«Va bene» disse Panurgo, «a te ti lascio le più grasse e pasciute».

«Come sarebbe?» disse Epistemone. «Tutti a cavallo e io a tirar l’asino per la cavezza? Il diavolo si porti chi ci sta. La regola è il diritto di guerra: qui potest capere capiat».

«Va be’» disse Panurgo. «Tu attacca pure il tuo asino al chiodo e ognuno cavalchi come può».

A questi ragionari, Pantagruele taceva e rideva. Poi disse loro:

«Badate, ragazzi, di non fare i conti senza l’oste. Ho una gran paura che prima di sera mi toccherà di vedervi in condizioni tali da non aver più estro per cavalcare nemmeno una scopa, e che toccherà a voi di essere cavalcati a gran colpi di picca e di lancia».

«E io vi dico» replicò Epistemone, «che ve li servo arrosto, lessi, in fricassea o in polpette. Non sono poi tanti come l’esercito di Serse che aveva trecentomila combattenti, se vogliam credere a Erodoto e a Pompeo Trogo135; e tuttavia Temistocle con poca gente li sconfisse. Non datevi pensiero, perdio!»

«Merda merda!» disse Panurgo. «Basterà la mia braghetta a spazzar via tutti gli uomini, e San Frugone che ci sta dentro a sfruconare tutte le donne».

«Su dunque, ragazzi!» disse Pantagruele. «Coraggio e in marcia».

CAPITOLO XXVII

Come Pantagruele eresse un trofeo in memoria delle prodezze dei suoi e Panurgo un altro in memoria dei leprotti. Come dai peti di Pantagruele si generarono migliaia di piccoli uomini e dalle sue loffie altrettante piccolissime donne, e come Panurgo ruppe un grosso bastone su due bicchieri

«Ma prima che ce ne andiamo» disse poi Pantagruele, «io voglio erigere qui, in questo luogo, un degno trofeo della vostra prodezza».

Allora tutti insieme e in grande allegria, cantando villanelle e barcarole, drizzarono un grosso tronco al quale appesero: una sella da battaglia, un frontale da cavallo, bardature, staffili, speroni, un giaco, un’armatura d’acciaio, una scure, uno stocco, una manopola, una mazza, due bracciali, tre schinieri, una gorgiera e ogni altra cosa che si addica a un arco di trionfo o trofeo.

Poi, a perenne memoria della gesta, Pantagruele vi iscrisse un canto di guerra e di vittoria che suonava così:

Come già un tempo Fabio e i due Scipioni,

qui, di senno e virtù non d’arme onusti,

quattro animosi, impavidi campioni

fecero di seicento piattoloni

tutti in arnese, ribaldi e stronfioni,

un sol falò come di secchi arbusti,

mostrando a duchi e re quanto più vaglia

l’ingegno che la forza anco in battaglia.

Ché la vittoria,

per legge notoria,

è data da Dio,

per cui solo al pio

e non al più forte

l’assegna la sorte.

Mentre Pantagruele era intento a comporre questi versi, Panurgo, dal canto suo, inalberò su di un palo le corna del capriolo, la pelle e il piede destro del medesimo; poi le orecchie di tre leprotti, il lombo di un coniglio, le mandibole di una lepre, le ali di due ottarde, i piedi di quattro ramieri, una fiasca di aceto, un corno portasale, gli schidioni di legno, un lordatoio, un pentolaccio tutto sforacchiato, una brocca dove facevano la salsa, una saliera di coccio, una ciotola di Beauvais. E, a imitazione del peana di Pantagruele, vi iscrisse quel che segue:

Qui, quattro bettolanti e gran campioni,

che aveano all’otre dichiarato guerra,

se ne stettero un giorno, culo a terra,

bevendo a volontà come carpioni.

Qui mastro lepre, fagiani e palombi,

monsignor capriolo, tassi, aironi

persero petti, torsi, cosce e lombi,

fegato ed animelle, ali e rognoni.

Aceto, sale e vino, a farla corta,

per seguirli si presero una storta.

Contro il calore

il bevitore

non ha migliore

schermo o riparo

se non il bevere

a colme pevere

e del più raro.

Ma il salmì di leprotti è gran disgrazia

se dell’aceto non avrai memoria,

ché il valor del leprotto, anima e grazia,

star nell’aceto è norma perentoria.

«Su, ragazzi» disse allora Pantagruele. «Ci siamo divertiti anche troppo qui a sbasoffiare, perché ben di rado si è visto che chi grandeggia a banchetto grandeggi anche in battaglia. Qui fa mestieri d’ombra di stendardi, fumo di cavalli e battìo di corazze. Non c’è tempo da perdere».

«Per me» rise Epistemone, «qui fa mestieri d’ombra di cucina, fumo di frittelle e battìo di boccali».

«Per me» fece eco Panurgo, «qui fa mestieri d’ombra di cortine, fumo di tettine e battìo di coglioni». Poi fece un salto, un peto e un fischio e gridò allegramente.

«Viva sempre Pantagruele».

Ammirato, Pantagruele volle fare altrettanto; ma il peto che sfornò fu tale che la terra ne tremò per nove leghe all’intorno; e dal vento di quell’aria corrotta si generarono istantaneamente più di cinquantatremila omiciattoli nani e scontraffatti; poi da un loffia che mandò di scorta, una turba si generò egualmente numerosa di donnettine rattrappite come se ne vedono in tutti i cantoni, le quali mai non crescono se non verso il basso come la coda delle vacche, o solo giro giro come le rape del Limosino136.

«E che!» fece Panurgo. «I vostri peti sono tanto fecondi? Perdio! Ecco qua delle bellissime ciabatte d’uomini e delle belle vesce di donne. Io dico che bisogna sposarli insieme, e vedrete che metteranno al mondo dei bellissimi tafani».

Così fece Pantagruele e li chiamò Pigmei, inviandoli a vivere in un’isola lì vicino, dove da allora si sono moltiplicati come conigli, nonostante le gru che fan loro la guerra di continuo e dalle quali si difendono coraggiosamente137; perché quei bravi mezzi tappi d’uomini, che in Scozia son chiamati ‘manici di striglia’, son corrivi alla collera. E la ragione naturale sta in ciò, che essi hanno il cuore vicino alla merda.

Panurgo intanto, presi due bicchieri ch’erano lì, di uguale grandezza, e riempitili d’acqua fino all’orlo, li pose su due sgabelli uguali che collocò alla distanza di cinque piedi uno dall’altro, poi prese un’asta di giavellotto lunga cinque piedi e mezzo e la posò sui due bicchieri per modo che le estremità ne toccassero l’orlo di misura.

Fatto questo, prese un grosso piolo e disse a Pantagruele e agli altri compagni:

«Signori, adesso considerate come noi facilmente avremo ragione dei nostri nemici: poiché, come io spezzerò questo legno senza rompere né incrinare i due bicchieri e – notate – senza che ne debordi una sola goccia d’acqua, allo stesso modo noi romperemo la testa dei nostri bravi Dipsodi, senza subire una ferita né perdita alcuna dei nostri beni. Ma perché non pensiate che ci sia un qualche incantesimo, prendete» disse ad Eustene, porgendogli il piolo, «date una botta con questo a metà del bastone e a tutta forza». Così fece Eustene, e l’asta si spezzò di netto, giusto nel mezzo e senza che una goccia d’acqua sortisse dai bicchieri.

«E ne so di ben altre» concluse Panurgo. «Ma insomma, andiamo tranquilli».

CAPITOLO XXVIII

Come Pantagruele sconfisse Dipsodi e giganti in maniera molto strana

Dopo tutti questi discorsi, Pantagruele chiamò a sé il prigioniero e lo rimise in libertà.

«Vattene dal tuo re là dove tiene il campo» gli disse. «Raccontagli quello che hai veduto e digli che si prepari a festeggiare il mio arrivo domani verso mezzogiorno, perché non appena saranno giunte qui le mie galee – che sarà domattina al più tardi – gli dimostrerò con diciotto centinaia di migliaia di combattenti e settemila giganti, tutti più grandi di me come mi vedi, che ha commesso una follia oltre che un’ingiustizia a invadere il mio paese». E dava a credere così di avere un’armata sul mare.

Ma il prigioniero protestò che voleva rendersi suo schiavo, che era contento di non ritornare mai più da quelli là, bensì piuttosto di combattere al suo fianco contro di loro; e che in nome di Dio accogliesse la sua preghiera.

Lungi dall’esaudirlo, Pantagruele gli ingiunse di partire senza indugio, e che andasse là dove gli aveva detto. In più gli affidò un vasetto pieno di euforbio e di grani di coccognidio macerati in acquavite a mo’ di conserva138, perché lo consegnasse al suo re con queste parole: «Se riuscirai a mangiarne un’oncia senza bere, potrai resistere a Pantagruele senza paura».

Il prigioniero allora lo pregò a mani giunte che al momento della battaglia avesse pietà di lui. Ma Pantagruele gli disse:

«Dopo che avrai ragguagliato di tutto il tuo re, io non ti dico come certi ipocriti Aiutati che Dio t’aiuta, perché è vero il contrario: Aiutati che il diavolo ti romperà il collo; ma io ti dico: Riponi in Dio la tua speranza ed egli non ti abbandonerà; perché, quanto a me, sebbene io sia così forte come puoi vedere e abbia ai miei ordini una miriade di armati, con tutto ciò io non mi affido né alla forza né all’abilità, bensì al volere di Dio, il quale mai non abbandona coloro che in lui solo ripongono la speranza e ogni loro pensiero».

A queste parole il prigioniero lo supplicò di volergli fare condizioni ragionevoli per il riscatto. Ma Pantagruele rispose che non era suo intendimento saccheggiare il paese o taglieggiare le persone, bensì arricchirle e restituirle a piena libertà. E soggiunse:

«Va’ dunque nella pace del Dio vivente e guardati dalle cattive compagnie, che mal non te ne incolga».

Partito il prigioniero, Pantagruele riunì i suoi compagni e disse loro:

«Ragazzi, io ho fatto credere al prigioniero che abbiamo un’armata sul mare e che non andremo all’attacco prima di domani sul mezzogiorno; così loro, temendo l’arrivo di una moltitudine di armati, questa notte non penseranno ad altro che a fortificarsi e ad ordinar le difese, ma intanto il mio piano è di attaccarli sull’ora del primo sonno».

Ma è tempo di lasciare Pantagruele con i suoi apostoli e di occuparci di re Anarca e della sua armata.

Appena arrivato, il prigioniero si recò dal re e gli raccontò come fosse arrivato dal mare un grande gigante chiamato Pantagruele il quale aveva debellato e arrostito senza pietà tutti i seicentosessanta cavalieri, meno uno che era lui, unico sopravvissuto per recarne notizia; che inoltre questo gigante l’aveva incaricato di dirgli che gli apprestasse da mangiare per l’indomani verso mezzodì perché era deciso a portare l’attacco giusto a quell’ora. Poi gli consegnò il vasetto con dentro quel che sapete.

E non appena il re n’ebbe ingoiato un cucchiaino, gli venne un tal bruciore alla gola e una tale ulcerazione all’epiglottide che gli si spellò tutta la lingua; e per quanti rimedi gli apprestassero non trovava altro sollievo che nel bere senza remissione, perché se appena allontanava il boccale dalle labbra la lingua gli andava in fiamme; per cui si dissero che non c’era altro da fare e si diedero ad ingozzarlo di vino con un imbuto.

Sbalorditi, i suoi capitani, pascià e soldati di guardia, vollero gustare anch’essi di quella mistura per vedere se fosse davvero così terribilmente infiammatoria, e ci cascarono tutti come il re; per cui si misero a bere con tanto impegno che ben presto si sparse per il campo la voce del ritorno del prigioniero; e che l’indomani vi sarebbe stato l’assalto; e che già il re, i capitani e l’intero corpo di guardia del padiglione reale si preparavano alla battaglia bevendo a tutta canna. Per la qual cosa tutti i soldati dell’armata si diedero anch’essi a bere, trincare e tracannare; e tanto bevvero e ribevvero che caddero a terra nel più grande disordine, qua e là per il campo, addormentati come tanti maiali, nessuno escluso.

Lasciamoli dunque dormire e torniamo al buon Pantagruele per vedere come seppe condursi nell’impresa.

Partendosi dal luogo del trofeo, egli aveva divelto e impugnato come bordone l’albero maestro della nave, aveva sistemato nella coffa i duecentotrentasette barili di vino bianco d’Angiò che ancora restavano della provvista fatta a Rouen, si era attaccato alla cintura il battello tutto pieno di sale, che reggeva con la stessa facilità con cui le donne dei lanzichenecchi portano i loro cestelli, e così si era messo in cammino con i compagni.

Come furono in vista del campo nemico, Panurgo gli disse:

«Signore, volete che facciamo una cosa ben fatta? Tirate giù dalla coffa quel vino bianco d’Angiò e facciamoci qui una bevuta seria, alla bretone».

Pantagruele accondiscese di buon grado e bevvero tutti così pulito che dei duecentotrentasette carratelli non ne restò una goccia, salvo una borraccia di cuoio bollito di Tours che Panurgo riempì per sé – perché, diceva, era il suo Vade mecum – e qualche po’ di feccia buona da farne aceto.

Com’ebbero finito di tirare all’ultima botticella, Panurgo propinò a Pantagruele un accidente di droga composta di lithontripon, nefrocatarticon, cotognata alla cantaride139 e altre spezie diuretiche.

Fatto questo, Pantagruele ordinò a Carpalim di entrare nella città.

«Salirai per le mura come un topo e come tu solo sai fare» gli disse, «e da lassù inciterai i cittadini alla sortita, e che diano addosso al nemico senza indugio e con tutte le forze. Poi scenderai e con una torcia darai fuoco a tutte le tende e i padiglioni del campo. Poi ti metterai a gridare con tutta la tua potentissima voce, più forte anche di Stentore quando si fece udire tra il frastuono dei Greci e dei Troiani in battaglia. Quindi fuggirai dal campo».

«D’accordo» disse Carpalim, «ma non sarebbe bene che inchiodassi tutte le loro artiglierie?»

«No» disse Pantagruele. «Invece darai fuoco alle polveri».

Senza oltre discutere, Carpalim partì immediatamente e fece come Pantagruele aveva stabilito, sì che tutti i combattenti ch’erano dentro la città ne sortirono.

Poi, com’ebbe terminato di mettere a fuoco tende e padiglioni, e passando come di volo sulla distesa dei nemici senza che se ne accorgessero, tanto russavano immersi nel più profondo letargo, Carpalim raggiunse lo schieramento delle artiglierie e appiccò il fuoco alle munizioni. Qui se la vide brutta perché il fuoco divampò così subitaneo che per poco non arrostiva anche lui, e se non fosse stato per la sua meravigliosa celerità sarebbe finito in fricassea come un maiale. Ma lui se la filò così veloce che neppure un quadrello di balestra avrebbe potuto raggiungerlo.

Poi, superate le trincee, si mise ad urlare in modo così selvaggio da far credere che si fossero scatenati tutti i diavoli dell’Inferno, e a quel rumore i nemici si ridestarono. Ma sapete come? Storditi come frati al primo tocco di Mattutino, che nel paese di Lucon si chiama grattacoglioni140.

Frattanto Pantagruele andava seminando a piene mani il sale che portava alla cintura dentro la barca, e come quelli dormivano a bocca aperta e spalancata, gliene riempì il gargarozzo così bene che i poveretti tossivano come volpi gridando «Pantagruele Pantagruele!» e imprecando a lui che gli attizzava il fuoco nella strozza141.

D’improvviso, a causa delle droghe che Panurgo gli aveva propinato, a Pantagruele venne da pisciare, e pisciò in mezzo al campo così bene e sì copiosamente che li sommerse tutti quanti, e vi fu un suo diluvio personale per dieci leghe all’intorno. Narra inoltre la storia che, se la grande giumenta di suo padre fosse stata là e avesse pisciato anche lei, vi sarebbe stato un diluvio più importante di quello di Deucalione, perché essa non faceva pisciata che non generasse un fiume più grande del Rodano e del Danubio.

A tal vista, quelli che erano usciti dalla città credettero a un massacro generale. «Guardate il sangue come scorre» dicevano. Ma si ingannavano, scambiando per sangue dei nemici il piscio di Pantagruele che vedevano soltanto baluginare ai riflessi del rogo dei padiglioni e di un debole chiarore di luna.

Dal canto loro, i nemici, finalmente svegli, vedendo da un lato l’incendio e dall’altro l’inondazione non sapevano cosa dire o pensare. Alcuni dicevano ch’era il Giudizio finale, cioè la fine del mondo, col fuoco che lo consuma come dev’essere; altri che Nettuno, Prometeo, Tritone e tutti gli dèi marini li perseguitavano, perché di fatto l’acqua era salata e quindi marina.

Ma adesso chi potrà degnamente narrare come seppe condursi Pantagruele a petto dei trecento giganti? O mia Musa, mia Calliope, mia Talia, ispiratemi voi e rinfrancate i miei spiriti, perché qui siamo giunti al ponte dell’asino dell’Arte Poetica, al trabocchetto che non puoi schivare, alla vera difficoltà di descrivere l’orrenda battaglia che ne seguì.

Avessi almeno qui davanti a me una brocca del vino più sincero che mai bevessero coloro che leggeranno questa storia, la più veridica mai scritta!

CAPITOLO XXIX

Come Pantagruele sbaragliò i trecento giganti corazzati di pietre da taglio e il loro capitano Lupomannaro

I giganti, vedendo il campo tutto allagato, presero in spalla il loro re Anarca e, al meglio che poterono, lo portarono all’asciutto fuor della mischia, similmente ad Enea con Anchise suo padre all’incendio di Troia.

Ma Panurgo li scorse e disse a Pantagruele:

«Signore, ecco i giganti che vengono fuori. Dategli addosso con il vostro abete, a tutta forza, come si usava nella vecchia scherma, perché questo è il momento di far vedere che siete uomo dabbene. Noi per parte nostra non vi abbandoneremo e state pur certo che io da solo ne stendo più d’uno. Non ci credete? Vi siete forse scordato di Davide e Golia? E perché io, che di tipi come Davide, che allora era soltanto un moccioso piscialetto, ne farei fuori almeno dodici, non dovrei esser buono a sbaragliare una dozzina di quelli là? E questo sacramentaccio di Eustene che è forte come quattro buoi, credete forse che si risparmierà? Fatevi coraggio, signore, e dateci dentro per dritto e per traverso, di punta e di taglio».

«Quanto al coraggio» disse Pantagruele, «ne ho per più di cinquanta franchi. E con ciò? Nemmeno Ercole si arrischiava a misurarsi con più di un mostro per volta».

«Voi così mi cacate nel naso» disse Panurgo. «Paragonarvi a Ercole! Voi! Ma c’è più forza nei vostri denti e più senno nel vostro culo che in tutto Ercole intero, compresa l’anima. Non lo sapete che

l’uomo altrettanto vale

quanto se stesso stima?»

Mentre così parlavano, ecco farsi avanti, con tutti i suoi trecento, Lupomannaro; il quale, vedendo Pantagruele tutto solo, e stimandolo non più che un mezzo catorzolo d’uomo, pensò di avere partita facile, per cui, tutto impettorito come un tacchino si volse ai suoi compari con disprezzo e arroganza.

«Statemi bene a sentire» disse, «puttanieri da campagna che non siete altro: se uno di voi soltanto si azzarda a immischiarsi in questa battaglia, giuro per Macometto che lo scortico vivo. Qui basto io e me la vedo da solo. Voi tiratevi da parte e divertitevi a guardare».

Cosi fecero i giganti, e si riunirono non lontano dov’era buona scorta di bottiglie, insieme al loro re; e con essi Panurgo e i suoi compagni.

La bocca storta, le dita rattrappite, la voce cavernosa, Panurgo si fingeva impestato fradicio, ma subito attaccò discorso e disse loro:

«Rinnegobio, compagni! Tra noi, qui, non c’è guerra. Perciò lasciateci mangiare insieme a voi, e che i nostri padroni se le suonino fra loro».

Il re e i giganti non fecero storie e banchettarono tutti insieme, e Panurgo intanto li intratteneva con le Favole di Turpino, i Miracoli di San Nicola e il racconto della Cicogna.

Lupomannaro dunque si fece avanti con una mazza tutta di acciaio – acciaio calibiano142, badate bene – del peso di settecento quintali e due quarti, con in testa tredici punte di diamante, la più piccola delle quali era grossa come la campana più grande di Nostra Signora di Parigi, salvo forse la differenza dello spessore di un’unghia, o forse – perché mi piace di essere preciso – di uno di quei bistorini che son chiamati mozzaorecchi: insomma la differenza di un niente, non so se per eccesso o per difetto. Inoltre questa mazza era fatata, cioè infrangibile, mentre, al contrario, mandava in pezzi tutto ciò che toccava.

Ma nel mentre che Lupomannaro avanzava fierissimamente, Pantagruele, levati gli occhi al cielo, faceva voti a Dio con tutto il cuore.

«Signore Iddio» pregava, «Tu che sei sempre stato il mio protettore e salvatore, adesso vedi l’angustia in cui mi trovo. Niente altro mi condusse qui se non l’istinto naturale da te infuso negli uomini di preservare e difendere se stessi, le mogli e i figli, la patria e il focolare, tutto ciò insomma che non sia cosa propriamente tua, cioè la fede; ché per questo tu non chiedi nulla a nessuno, salvo la confessione cattolica e l’osservanza della tua parola; perché anzi ci vieti di prendere le armi a tua difesa, essendo Tu quel Dio onnipotente che in ogni Sua faccenda e ovunque sia in gioco la Sua causa, può difendersi da sé assai meglio di quanto noi non possiamo immaginare: Tu che hai migliaia di centinaia di milioni di angeli, l’ultimo dei quali può distruggere da solo l’intera umanità o ribaltare il cielo e la terra a suo piacere, come ben vide e sperimentò l’esercito di Sennacherib. Dunque, se a te piacerà di venirmi in aiuto in questo momento, così come io ripongo in te ogni fiducia e speranza, ti faccio voto che per tutte le contrade di questo paese di Utopia come altrove, dovunque io abbia potere e autorità, farò che si predichi il tuo santo Evangelo, puramente, semplicemente e interamente, sì che gli abusi e le frodi di tutti quei pappalardi e falsi profeti che con le loro istituzioni profane e i turpi travisamenti del tuo verbo divino hanno avvelenato il mondo saranno spazzati via intorno a me».

Allora fu udita dal cielo una voce che diceva: «Hoc fac et vinces», che vuoi dire «Fa’ questo e vincerai».

Rinfrancato, Pantagruele, vedendo Lupomannaro farglisi incontro a gola spalancata, gli andò incontro anche lui arditamente, gridando con quanta voce aveva «A morte, ribaldo, a morte», allo scopo di mettergli paura con il suo terribile grido, come insegna la disciplina dei Lacedemoni. Poi pescando a piene mani nel barcone che aveva alla cintura, gli buttò in faccia più di diciotto barili e mezzo di sale, tanto da riempirgli la gola e il naso, gli occhi e la bocca.

Lupomannaro allora s’infuriò e gli menò un colpo da spaccargli la testa. Ma Pantagruele che fu sempre valente, pronto allo scarto e dotato di un grande colpo d’occhio, arretrò di un passo sul piede sinistro; non così prestamente però da evitare che il colpo cadesse sul barcone, che finì a terra in quattromila ottantasette pezzi, insieme al sale che ancora vi restava.

Ciò vedendo, Pantagruele spiegò bravamente le braccia e, come insegna la scherma di scure, colpì l’avversario di stoccata col grosso dell’albero sotto la mammella e, raddoppiando il colpo a sinistra di taglio, gli suonò una gran botta tra capo e collo; poi avanzò sul piede destro e manovrando di punta gli tirò un’imbroccata ai coglioni. Ma nell’urto si ruppe la coffa insieme ai tre o quattro barili di vin bianco che c’erano ancora, per cui Lupomannaro credette che gli avesse sfondato la vescica e che quel fiotto di vino fosse l’urina sua che se ne usciva.

Di ciò non contento, Pantagruele tentò di replicare l’allungo, ma Lupomannaro, levando alta la mazza, gli era già sopra per scaricargliela addosso con tutta la sua forza. Difatti diede giù così forte che lo avrebbe spaccato in due dalla testa ai rognoni se Dio non l’avesse protetto, ché il colpo, per via dello scarto di Pantagruele, lo mancò di misura sulla destra e la mazza sprofondò nel terreno per più di sessanta piedi attraverso un macigno di basalto dal quale sprigionò una fiammata più grande di novemila botti e sei barili.

Pantagruele, visto che quello, adesso, si gingillava a disincagliare la mazza dalla roccia, gli si fece addosso mirando a staccargli la testa d’un colpo, ma sfortunatamente l’albero che impugnava andò a sfiorare il manico del maglio di Lupomannaro (che era fatato, come sapete) e quindi gli si ruppe in mano come creta a tre dita dall’impugnatura. Per cui Pantagruele rimase lì sbigottito come un fonditore di campane, e chiamò:

«Panurgo, Panurgo, dove sei?»

«Per Dio!» disse allora Panurgo al re e ai giganti. «Se non andiamo a separarli, quei due va a finire che si fanno del male». Ma i giganti se la spassavano meglio che a nozze, e come Carpalim fece l’atto di alzarsi per portare soccorso al suo signore, un gigante lo rimise giù.

«Per Golfarino nipote di Macone!» ringhiò. «Se alzi il culo da qui, io ti infilo nel fondo delle mie chiappe come una supposta. Tanto più che sono costipato di ventre e non riesco a cagare se non digrigno i denti».

Pantagruele, perduto il bastone, lo riprese per l’altro capo e si diede a menare alla cieca sul gigante, ma non gli faceva più danno di quanto ne fareste voi con un buffetto sull’incudine di un magnano. E già Lupomannaro tirava su la mazza, già l’aveva alzata e la brandiva per colpire. Ma Pantagruele, sempre lesto a scansarsi, schivava tutti i colpi, finché, al momento giusto, mentre Lupomannaro lo minacciava gridando «Miserabile canaglia, adesso ti riduco in pesto da polpette, così la finirai di mettere il sale nella gola della brava gente!», gli sferrò nel ventre una pedata talmente portentosa che lo mandò gambe all’aria, per poi tirarselo dietro così a scuoiaculo per più di un tiro di balestra.

«Ohi Macone, Macone, Macone!» gridava Lupomannaro gettando sangue dalla bocca. E a quella voce tutti i giganti si levarono per correre in suo aiuto. Né li trattenne il consiglio di Panurgo che li esortava a non andare, perché – diceva – il suo padrone era matto e tirava botte da orbo per dritto e per traverso, e certamente anche loro ne avrebbero toccate di brutte; ma i giganti, vedendo che Pantagruele era senz’armi, non gli diedero retta.

Allora, come li vide avvicinarsi, Pantagruele afferrò Lupomannaro per i piedi, lo brandì come una mazza e con quello, ch’era tutto corazzato di incudini, picchiava su quegli altri corazzati soltanto di macigni, e così li sbatteva giù come fa il muratore con le tegole, sì che nessuno gli si parava davanti che non finisse subito a terra. E al diroccare di quegli arnesi di pietra vi fu un così orrendo fracasso che mi venne in mente la torre di burro di Santo Stefano di Bourges, quando si sciolse al sorgere del sole143.

Frattanto Panurgo, Eustene e Carpalim andavano qua e là per il campo a sgozzettare quelli che già erano a terra, e state certi che non ne scampò nemmeno uno. E Pantagruele, a vederlo, sembrava un falciatore che, con la falce (ch’era Lupomannaro) tagliasse l’erba d’un prato (ch’erano i giganti). Ma in quella giostra Lupomannaro ci rimise la testa. E fu nel mentre che Pantagruele era occupato a squinternare un gigante chiamato Sfrattabiroldi, tutto bardato in alta uniforme di pietre arenarie, di cui una scheggia trapassò la gola a Epistemone da parte a parte, staccando la testa anche a lui; laddove gli altri giganti erano armati alla leggera, chi di lastroni di tufo, chi d’ardesia.

Finalmente, quando vide ch’erano morti tutti, Pantagruele ruotò alto nell’aria il gran corpaccio di Lupomannaro, come fosse una fionda, e lo scagliò lontano il più possibile al di là dei bastioni, tanto che andò a cadere a pancia sotto come un rospo in mezzo alla piazza grande della città, e nel cadere uccise d’un sol colpo un gatto bruciato, una gatta bagnata, un’anitra petaiola e un’ochetta imbrigliata.