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Il portello si aprì. Sully lo guardò spalancarsi sulle fauci dello spazio che le attendeva là fuori, vuoto e senza fondo. Devi uscì per prima, poi fu il turno di Sully. Aggrappata al bordo del portello, si prese un momento per tirare il fiato e guardarsi intorno, prima di muovere il primo passo nel nulla. Da fuori l’Aether sembrava enorme, ma gran parte di essa era occupata dai serbatoi di riserva, dagli scudi antiradiazioni, dai pannelli solari e dagli elementi del sistema di propulsione... cose che da dentro l’equipaggio non vedeva mai. Sully si girò verso la centrifuga, così piccola rispetto al resto. Era incredibile pensare che ci avessero vissuto in sei per tutto quel tempo, così stretti in mezzo a tutto quello spazio. Si spinse oltre la serra, oltre le aree per il supporto vitale e oltre le postazioni per la ricerca, fino alla cupola, dove salutò col suo enorme guanto bianco le quattro facce premute contro il vetro.

«Fin qui tutto bene», disse poi nel microfono dentro il casco.

Si girò verso Devi, poco lontana, che non stava guardando l’Aether, ma le profondità dello spazio. E d’un tratto a Sully l’astronave non sembrò più così enorme. Sembrò microscopica. Nel suo orecchio, sentì la voce di Harper chiedere a Devi se fosse pronta a procedere.

«Pronta», rispose lei.

Devi e Sully fecero il giro dell’astronave, raggiungendo il punto in cui la base dell’antenna parabolica si connetteva allo scafo dell’Aether, ovvero di fronte all’impianto di propulsione e dietro i serbatoi. Il loro attrezzo per le riparazioni in remoto, un lungo braccio flessibile, si trovava all’altro capo dell’astronave, pronto a intervenire sui problemi extra veicolari sorti nelle parti in cui l’equipaggio viveva e lavorava, ma non era abbastanza lungo per arrivare fino all’antenna. Devi e Sully si mossero lentamente, arrampicandosi sullo scafo come su una montagna, legate all’Aether con dei cavi di acciaio che fluttuavano dietro di loro come ragnatele d’argento. Il resto dell’equipaggio seguiva le loro mosse dal ponte di comando grazie alle telecamere per l’attività extra veicolare montate sui caschi. Harper le guidava, suggerendo loro in che direzione andare quando le vedeva esitare, ma perlopiù restava in silenzio, rispettando i loro tempi.

Sully non aveva mai provato tanta ammirazione per lui come in quel momento, ora che l’unica cosa che la separava dal vuoto era un sottile cavo d’acciaio. L’ultimo comandante con cui era partita in missione non aveva fatto altro che darle ordini, come se lei fosse l’avatar di un videogame invece che un’esperta nel suo campo. Era successo quando viveva nella Stazione Spaziale Internazionale, durante la sua prima missione, una decina d’anni prima, subito dopo aver concluso il suo addestramento alla AsCan. Una missione di ricerca di dieci mesi. Era una novellina, non una stupida, eppure aveva tenuto la bocca chiusa. Allora le era già arrivata voce che il comitato di selezione dell’Aether aveva iniziato la ricerca dei candidati, e si diceva che stessero valutando praticamente chiunque si trovasse nello spazio in quel momento. Sully voleva disperatamente far parte della rosa dei prescelti.

Quel primo viaggio nello spazio le aveva fatto capire che avrebbe fatto di tutto pur di essere ammessa a bordo dell’Aether. Ormai erano anni che programmavano quella missione e stavano già costruendo l’astronave: la assemblavano nello spazio, mentre sulla Terra venivano costruiti i componenti mancanti. Se guardava fuori dell’ISS al momento giusto, Sully riusciva perfino a vederla, l’Aether, con lo scafo illuminato dal Sole, che brillava come una stella fabbricata dall’uomo. Al ritorno dal suo viaggio su Giove, l’Aether sarebbe diventata parte integrante dell’ISS. Non c’era astronauta che non avrebbe venduto l’anima al diavolo per un posto in quella missione... un posto nella storia, di fianco a Yuri Gagarin e a Neil Armstrong. Nessuno sapeva quando sarebbero iniziate le selezioni, né quando sarebbe stato effettuato il lancio, ma sia i novellini sia i veterani ne parlavano da anni.

Fluttuando da un punto di riferimento all’altro, aggrappandosi agli appigli forniti da quella lattina gigante che per quasi due anni era stata la sua casa, Sully ripensò al giorno in cui, sette anni prima, era stato annunciato l’inizio delle selezioni per l’equipaggio dell’Aether. E poi a quando, sedici mesi dopo, le avevano offerto un posto a bordo, e la faccia di Jack quando glielo aveva detto. Non vivevano più insieme da un pezzo, ma fino a quel momento nessuno dei due aveva ancora pronunciato la parola divorzio. Non poteva ricordarsi dell’espressione di Lucy, perché non era stata lei a darle la notizia, bensì Jack. Avevano convenuto che sarebbe stato più facile se l’avesse saputo da lui, anche se entrambi conoscevano il vero motivo: Sully non sarebbe mai stata capace di dire alla sua unica figlia che aveva deciso di passare due anni lontano da lei. Ne valeva davvero la pena? Lo avrebbe fatto di nuovo? Tutto quel lavoro, tutti quei sacrifici e quell’addestramento infinito l’avevano portata lì, nell’angolo più solitario del sistema solare. Le venne quasi da ridere. Se solo avesse potuto mettere in guardia la Sully del passato, dirle come sarebbe andata a finire... Eppure, anche se lo avesse saputo, avrebbe fatto le stesse identiche scelte. Ripensò a quello che le aveva detto Ivanov: Non tutti hanno la vocazione. Là fuori, fluttuando in quel vuoto, Sully sentì una triste serenità: lei aveva seguito la sua. Non usciva dall’astronave da Callisto, ed era una giornata bellissima per fare una passeggiata, come tutti i giorni e tutte le notti passati sull’Aether. Sully scacciò via i ricordi e allontanò il pensiero del futuro. Nessuna di quelle cose contava più. C’erano solo il prossimo appiglio e quello dopo ancora.

«Prova all’altezza del quarto magazzino... dovrebbe esserci una scala sul lato più lontano rispetto a voi», disse Harper, che aveva scambiato la sua sosta per indecisione.

Sully si girò e guardò Devi, che stava procedendo lungo la fila di depositi dall’altra parte dell’astronave. «Ricevuto.» Proseguì lungo quelle capsule lisce e cilindriche contrassegnate da grandi numeri neri. Afferrò un gancio che sulle prime non aveva visto. Le due donne arrivarono a poppa, ovvero al punto in cui l’antenna parabolica era stata strappata via, nello stesso istante. Sully posò una mano sulla spalla di Devi, e lei rispose con un pollice verso l’alto.

«Fin qui tutto bene?»

«Fin qui tutto bene.»

Si legarono coi cavi e si misero al lavoro, valutando i danni e preparando la nuova installazione.

 

 

Sully richiuse il portellone alle loro spalle, poi aspettarono la pressurizzazione, prima di togliersi le tute. Erano rimaste fuori per più di cinque ore. Il resto della squadra si era raggruppato oltre la porta, in attesa. Il portellone interno scattò e Harper lo aprì. Sully entrò e raggiunse gli altri. Ivanov le strinse la mano. Thebes e Tal la abbracciarono. Il viso contratto di Harper si sciolse in un’espressione di sollievo, e Sully mise un braccio intorno alle spalle di Tal per non dover decidere se abbracciare Harper come avrebbe fatto con un amico o stringergli la mano come avrebbe fatto con un collega. Thebes sembrava non voler più lasciare Devi; la tenne stretta a lungo, come un padre che avesse rivisto la figlia dopo tanto tempo. Gli altri seguirono Harper fino alla cupola per discutere dell’uscita successiva e analizzare i filmati delle telecamere.

La missione era stata un successo, nel senso che Sully e Devi erano riuscite non solo a stabilire un piano concreto per la sostituzione dell’antenna parabolica, ma anche a eliminare i pezzi troppo danneggiati per essere riparati: li avevano gettati nella fascia degli asteroidi, dove sarebbero andati alla deriva per un milione di vite umane. La squadra non faceva che complimentarsi ed esultare mentre guardava le riprese a velocità doppia, fermandosi solo sui momenti più critici; tuttavia, non appena lo schermo si oscurò, anche l’umore si incupì. Il successo della seconda uscita, infatti, era molto meno scontato. Avrebbero dovuto improvvisare sul momento. A Houston non avevano fatto nessuna simulazione per prepararsi a una situazione simile. Iniziarono a dare voce ai propri dubbi, a proporre soluzioni, ma dopo qualche ora Harper pose fine alla discussione. Erano tutti esausti, il lavoro frenetico degli ultimi giorni iniziava a presentare loro il conto. «Sentite, prendiamoci un giorno. Per il secondo round mi servite tutti freschi e riposati. Andiamo a mangiare.»

Ivanov insistette per cucinare, cosa che non aveva mai fatto. Gli altri si sedettero al tavolo e lo osservarono mettere insieme uno stufato di pomodori, patate, cavolo riccio e salsiccia: l’aspetto era terribile, ma il sapore non era male. Tal si portò la scodella alla bocca per bere il resto del brodo rosso vivido, e quando la posò aveva un’ombra di arancione sopra il labbro. «Però, buono!» disse, e prese una seconda porzione.

«Una vecchia ricetta», rispose Ivanov con un’alzata di spalle, e quasi sorrise. Quasi.

Mentre mangiavano discussero ancora della seconda uscita. La nuova antenna parabolica, prelevata dal modulo lunare, era più piccola di quella originale, ma con qualche adattamento e un paio di aggiunte avevano escogitato un modo per farla funzionare. Thebes si sarebbe occupato di ricalibrare il sistema dall’interno, mentre Devi e Sully sarebbero uscite per l’installazione. La parte più insidiosa era trasportare l’antenna fuori dalla camera di compensazione e fino al punto di aggancio.

Finita la cena Tal, Thebes e Harper pulirono, mentre Ivanov si mise a giocare a un videogame. Sully e Devi per poco non si erano addormentate con la testa nel piatto, perciò andarono a letto. Nel bel mezzo della notte, Sully si svegliò di soprassalto sentendo Devi che piangeva nel suo scomparto. Aprì la tendina e andò subito da lei. Un incubo. Quando la svegliò, Sully rimase sconvolta dal profondo terrore negli occhi di Devi. «Che succede? Un brutto sogno? Sei al sicuro, Devi, sei al sicuro.»

Lei si aggrappò disperatamente alla maglietta di Sully, come se stesse annegando. Ci mise un po’ a capire che era sveglia. Alla fine si appoggiò di nuovo sul cuscino sudato, col respiro affannoso e coi muscoli contratti.

«Cos’hai sognato?» chiese Sully.

Devi si appoggiò a lei. «Che fallivamo.»

«Come?»

«Che perdevamo l’antenna. Mi scappava di mano e iniziava a fluttuare verso il Sole. E poi... poi anche noi iniziavamo a fluttuare verso il Sole. Ed era tutta colpa mia.»

Sully iniziò ad accarezzarle i capelli, come avrebbe fatto una volta con Lucy, passandoci le dita a pettine e sciogliendo delicatamente i nodi. Sotto le sue mani, Devi tirò su col naso, il petto scosso dai singhiozzi trattenuti. Sully immaginò il sogno di Devi ed ebbe paura anche lei. Non solo di fallire, o di morire senza aver avuto l’occasione di tornare a casa, di scoprire cosa fosse successo alla Terra e ai loro cari, ma perché sarebbe stata colpa sua. In quel momento si rese conto della responsabilità che era ricaduta sulle loro spalle.

Devi si rimise a dormire, ma Sully restò con lei, lasciando che le appoggiasse la testa sulla spalla. Dopo un po’ iniziò a sentire male al braccio, ma non si alzò, restò lì ad aspettare e a pensare, fino a quando sulla Terra in miniatura non sorse l’alba artificiale. A quel punto uscì e tornò nel suo scompartimento, trascinando i piedi, scalza e senza pantaloni, i capelli lunghi sciolti ma ancora segnati dalla treccia del giorno prima. Entrò, si cambiò la biancheria e infilò la tuta, legando le maniche intorno alla vita. Quindi si sedette sul letto, aprì la tendina e si fece la treccia guardando le luci che piano piano iniziavano a emanare un fioco bagliore, per poi intensificarsi fino a brillare.

 

 

La giornata fu interamente dedicata ai preparativi. Thebes controllò le tute e gli attrezzi per l’attività extra veicolare, in cerca di strappi o malfunzionamenti e, mentre Harper e Tal predisponevano l’antenna per il trasporto, Ivanov visitò Sully e Devi, per assicurarsi che fossero in forma per il secondo round. Oltre a essere astrogeologo, infatti, Ivanov era il medico di bordo dell’Aether. Erano anni che non praticava, e il suo modo di trattare i pazienti lasciava molto a desiderare, ma i suoi prelievi erano veloci e indolori. La seconda uscita sarebbe durata almeno otto ore, forse di più: circa il doppio di quella precedente. Dopo che Ivanov ebbe finito, Sully uscì dal suo laboratorio e andò verso il ponte di comando, dove Harper e Tal stavano riguardando le immagini della prima uscita. «Ehi, ragazzi, non sarete mica preoccupati?»

«Certo che no!» Harper tossì.

Tal serrò le labbra mentre scuoteva la testa con una sicurezza teatrale, le braccia incrociate davanti al petto. Stava scherzando, ovvio. Erano tutti preoccupati da morire.

«Bene, nemmeno io!» Sully fluttuò verso la cupola e guardò fuori, verso Marte, che era ancora un puntino sperduto tra le stelle. Harper e Tal intanto continuarono con le ricognizioni, guardando lo stesso spezzone di video decine di volte, finché non erano soddisfatti e passavano al successivo. Sully restò nella cupola, in perfetta sintonia con l’oscurità oltre il vetro, con quel mondo estremo in cui si sarebbe inoltrata per la seconda volta. Un mondo pericoloso, bellissimo e ignoto. Sapeva di essere pronta: Ivanov le aveva dato l’okay da un punto di vista medico, il percorso era marchiato a fuoco nella sua mente, eppure sentiva dentro di sé una nota stonata. Il sogno di Devi... Paura. Una paura profonda, che affondava le radici in quella parte di lei in cui la ragione non attecchiva. Qualcun altro avrebbe potuto chiamarla intuizione, ma non Sully. Lei la etichettò come nervosismo, si allontanò dalla finestra e tornò dagli altri, al loro piano.