12

 

«La giornata ideale per una passeggiata, non trovi?» disse Devi con un sorriso. I riflessi dell’Aether si muovevano sulla visiera specchiata del casco, nascondendole il volto, ma Sully scorse comunque il luccichio dei denti bianchi. Il silenzio dello spazio intorno a loro era completo, come la quiete del mattino prima che gli uccellini inizino a cantare, prima che il Sole risvegli la Terra. Lì, però, non ci sarebbe stata nessun’alba, nessun mezzogiorno, nessun tramonto: solo quell’eterno momento di silenzio. Nessun prima, nessun dopo, soltanto un frammento di tempo infinito a cavallo tra la notte e il giorno.

Sully si sentiva in pace, sicura di sé. Spingeva in avanti il proprio corpo e la nuova antenna parabolica, sentiva le morbide vibrazioni del suo propulsore, ascoltava i messaggi radio di Devi e di Harper. La poppa dell’astronave si stava avvicinando, c’era quasi. L’installazione avrebbe richiesto ore, ma aveva tempo. E gli strumenti. E un piano, una partner, una squadra; perfino un cazzo di zaino propulsivo: sarebbe andato tutto bene. Vide Devi raggiungere il punto d’installazione e spostò il carico per prepararsi all’atterraggio. Devi era già pronta coi cavi, li agganciò non appena Sully fu abbastanza vicina, in modo che la parabola potesse fluttuare sopra l’astronave mentre loro riconfiguravano l’impianto elettrico e collegavano il palo di sostegno dell’antenna allo scafo dell’Aether. Il riflettore parabolico ondeggiava, come un lungo braccio con una zampa tonda che le salutava. Anche Devi e Sully fissarono i loro cavi al sito. Dal punto d’installazione usciva un groviglio di fili, come i serpenti sinuosi di una Medusa. Devi li prese e iniziò a connetterli e a staccarli, agendo meticolosamente e a volte seguendo l’intuito, per adattarli alla nuova antenna. Sully le passava gli attrezzi che le servivano, agganciando alla cintura quelli di cui non aveva bisogno.

Le ore passavano, mentre loro continuavano a lavorare in silenzio. Ogni tanto Devi chiedeva a Sully di passarle un attrezzo, ma nessuna delle due si perdeva in chiacchiere. Devi era concentrata, come doveva essere, e Sully era all’erta, come doveva essere. Tutto stava procedendo come da programma. Eppure c’era qualcosa che non tornava. Sully bevve un sorso d’acqua dalla cannuccia interna della tuta e ruotò la testa da una parte e dall’altra. «Aether, tempi?»

«Sei ore dall’inizio dell’operazione», rispose Harper. «State andando alla grande.»

«Siamo quasi pronte per la connessione», disse Devi. «Sully, potresti spostare il cavo d’antenna a dieci centimetri dal punto d’installazione?»

«Ricevuto», rispose Sully, e iniziò a tirare i fili per avvicinare la parabola. Quando fu abbastanza vicina li lasciò andare e prese il cavo d’antenna, avvicinandolo alla zona in cui stava lavorando Devi.

«Perfetto», disse lei. «Adesso tienilo così mentre lo aggancio.»

Passò un’altra ora prima che fosse ultimata la connessione elettrica e Sully iniziava a essere in ansia. Insieme, lei e Devi abbassarono ulteriormente l’antenna, Devi indirizzandola verso l’apertura, Sully controllando i movimenti complessivi, fino a quando il nuovo sistema non fu a posto, pronto per essere fissato, ovvero imbullonato allo scafo dell’Aether. Era quasi fatta. Sully bevve un altro sorso d’acqua e sfiorò la spalla di Devi col suo guanto gigante. «Ottimo lavoro», le disse.

Lei non rispose. Restò immobile, e la nuvola di apprensione che incombeva su Sully da quand’erano uscite si solidificò, condensandosi in vera paura.

«Ehi, tutto a posto?» Sully mantenne un tono di voce calmo, ma dentro di lei continuava a ripetere: No, no, no, come se stesse facendo scorrere i grani di un rosario.

Alla radio si sentì un’interferenza sulla frequenza dell’Aether, seguita da una serie d’imprecazioni malamente soffocata da una mano posata sul microfono.

«Devi? Che succede?» Senza lasciare la presa sulla parabola, Sully si avvicinò, in modo da poter vedere oltre la visiera di Devi.

Un’altra interferenza.

«Qui risulta un problema di anidride carbonica nella tuta di Devi... Devi, stai bene?» chiese Thebes, dall’interno dell’Aether. «Il tasso di ossigeno sta scendendo...»

Sully guardò oltre il riflesso dell’astronave nella visiera specchiata di Devi ed ebbe conferma che qualcosa non andava. Devi aveva l’aria disorientata, gli occhi erano persi nel vuoto e lei sembrava combattere per restare vigile.

«Che succede? Rispondete.»

Le due donne si guardarono per un lunghissimo momento. Con un grande sforzo, Devi disse: «È il filtro. Il depuratore d’idrossido di litio... è fuori uso. Non me ne sono accorta perché...» Fece un respiro più profondo che poté, ma non trovò abbastanza ossigeno per riempire i polmoni. Stava soffocando. «Me ne sarei dovuta accorgere.»

«Tornate dentro!» disse Harper, quasi gridando.

«Non c’è tempo.» Le braccia di Devi iniziarono a essere scosse da un tremito convulso; l’attrezzo che lei teneva in mano le sfuggì dal guanto e volò lontano, verso il vuoto. Successe così in fretta che Sully non ebbe nemmeno il tempo di reagire prima che Devi perdesse i sensi e cominciasse a oscillare sul cavo come un albero nel vento. Sully era pietrificata, le mani ancora strette intorno al palo di sostegno dell’antenna parabolica.

«Devi. Devi.» Sully guardò oltre i riflessi della visiera di Devi: il suo viso era rilassato come non era da mesi; pareva addormentata, rapita da sogni magnifici. Niente più incubi. Niente più paura né tristezza. Il resto dell’equipaggio controllò i parametri vitali e rimase in un silenzio sconcertato. Sully l’aveva capito molto prima che Thebes glielo confermasse.

«Sully... se n’è andata. Aveva ragione, era già troppo tardi. Tu non potevi... Sully, tu non avresti potuto fare nulla comunque.»

Sully percepì appena le parole che seguirono, le domande ansiose che arrivarono dall’astronave, da Thebes, da Harper, non ne capiva il senso. Parole senza significato. Continuava a fissare dentro il casco di Devi, a guardare la sua amica che sognava. Il suo istinto le faceva tenere le mani strette sul palo di sostegno, per tenere fissa l’antenna parabolica, ma nella sua testa non c’era spazio per nient’altro. Lo shock la scosse come un’onda, schiacciò i suoi pensieri e attutì le voci e, quando la risacca passò, le voci erano cessate e Sully non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Minuti? Ore? Non importava. Aveva del lavoro da fare. Doveva finire. «Aether.»

«Sullivan», rispose subito Harper.

«Ditemi...» Si fermò e deglutì. Bevve un sorso d’acqua. Deglutì ancora. «Ditemi cosa devo fare.»

Sentì un sospiro di sollievo e Thebes che mormorava qualcosa che lei non capì.

«Hai il trapano?» chiese Harper.

Sully controllò la cintura. «Sì.»

«E i bulloni?»

Aprì la tasca con gli attrezzi e rovistò con la mano libera. «Sì.»

«Bene, allora procedi come da programma. I primi due bulloni saranno i più difficili perché dovrai continuare a tenere il palo di sostegno con una mano, ma dopo potrai lasciarlo andare e usare tutte e due le mani. Ricevuto?»

Lei non riusciva a muoversi. «Penso che...»

«No, Sully. Adesso non devi pensare. Un bullone alla volta, solo questo.»

E lei lo fece. Quando ebbe finito, staccò Devi dai cavi, senza chiedere il permesso ad Harper. Era quello che avrebbe desiderato la sua amica... quello che avrebbe desiderato chiunque di loro.

Sully la osservò fluttuare via, diventare sempre più piccola, minuscola come una stella, e poi scomparire del tutto. Avrebbe fluttuato per sempre? Oppure sarebbe caduta nell’orbita del Sole? Sarebbe diventata una stella remota? Sully pensò alla Voyager 3, al suo viaggio interminabile fuori dal loro sistema solare. Sperò che Devi potesse seguirla... che in qualche modo restasse intatta, che il suo corpo senza vita attraversasse l’universo con un viaggio infinito, impenetrabile. Sully restò lì a lungo, e chiese a quell’oscurità vuota di vegliare sulla sua amica.

 

 

Il mattino successivo, Sully si svegliò gridando. Un terrore più intenso di qualsiasi altra emozione avesse provato in vita sua. Le restò addosso per molto dopo che ebbe riaperto gli occhi, lo sentiva mormorare nelle ossa. Rivedeva Devi alla deriva, un puntino bianco in un vuoto nero e infinito. All’inizio cercò d’immaginare una nuova versione della storia, un finale diverso – lei che riportava Devi nell’Aether appena in tempo; lei che si accorgeva che c’era un problema al filtro dell’anidride carbonica molto prima che si rivelasse letale –, ma non trovava nessun conforto in quelle ricostruzioni. Devi se n’era andata, mentre lei era ancora lì. Sembrava assurdo, ma era così.

Aveva fatto come le aveva detto Harper, ovvero messo da parte i pensieri e fissato i bulloni, uno per uno – un’ora di lavoro che era sembrata lunga una vita intera –, e poi era rientrata nella camera di compensazione. Si era tolta la tuta ed era tornata nell’astronave, dai quattro membri dell’equipaggio che l’aspettavano in silenzio. Li aveva superati senza dire una parola, proseguendo dritta per la centrifuga, verso il suo scompartimento, e aveva tirato la tendina. Aveva dormito e non dormito. Pensato e non pensato. L’incubo di quell’uscita invadeva la sua mente ovunque cercasse di nasconderlo: l’inconscio, il subconscio, il conscio. Non poteva scappare: era tutt’intorno a lei, era il vuoto in cui aveva camminato poche ore prima. Era quel nero velenoso, gelato, bollente che era la loro strada, il loro cielo, il loro orizzonte, che circondava l’Aether e ogni suo abitante con un’indifferenza spietata. Lì loro non erano benvenuti. Non erano al sicuro. Dopo un po’ Sully aveva smesso di sfuggire al terrore e aveva lasciato che quel dolore palpitante si sincronizzasse al suo battito, che entrasse nei polmoni a ritmo col suo respiro. Che affondasse nel suo corpo per diventare parte di esso. Non si sarebbe mai più sentita al sicuro, mai più. Lo sapeva.

La morte di Devi aveva risvegliato qualcosa di profondo, che dormiva nel suo subconscio. All’improvviso il cervello smise di muoversi cronologicamente e tornò indietro, mostrandole tutte le cose terribili che le erano capitate nella vita, tutte le cose che l’avevano ferita. Il faccino di Lucy che si voltava indietro, mentre lei e Jack se ne andavano dall’aeroporto, il giorno in cui Sully li aveva lasciati per andare a Houston, sperando che le cose potessero funzionare nonostante la lontananza, già sapendo che non avrebbero funzionato affatto, eppure decisa a partire comunque; era salita a bordo dell’aereo col collo della maglietta ancora umido delle lacrime della figlia. E poi quando li aveva lasciati di nuovo, poco prima della sua prima missione, dopo che Jack le aveva dato le carte del divorzio; Lucy era così cresciuta, parlava usando frasi lunghe e complesse, i capelli biondi avevano iniziato a scurirsi e la fiducia innocente nei suoi occhi a svanire; la sua espressione indispettita quando Sully le diceva cose come: Tornerò prima che tu possa accorgertene.

E il ritorno: bussare alla porta di quella che un tempo era stata casa sua; essere accolta da come-si-chiama, sapendo benissimo che si chiamava Kirsten, quelle lettere impresse nel suo cervello in modo permanente e doloroso, come un brutto tatuaggio. Vedere sua figlia tra le braccia di come-si-chiama; percepire la riluttanza di Lucy a uscire con lei quando l’aveva portata al cinema; accorgersi di Jack che alzava gli occhi al cielo – un movimento quasi impercettibile, ma evidente – quando diceva che lunedì doveva essere di nuovo a Houston; il quadretto di loro tre seduti sul divano del salotto mentre lei se ne andava, consapevole che la sua famiglia stava bene, si sentiva amata e apprezzata e che lei non aveva più nulla a che fare con essa. Consapevole di essere stata sostituita, e che il suo rimpiazzo era stato un miglioramento: una madre migliore, una moglie migliore, una persona migliore di quanto lei non sarebbe mai riuscita a diventare.

Quel giorno Sully ricevette diverse visite. Tutti i membri dell’equipaggio passarono davanti al suo scompartimento, alcuni più di una volta, ma le loro voci, il suono delle loro nocche contro la parete le sembravano lontanissimi. Harper e Thebes arrivarono perfino a scostare la tenda e a guardarla con occhi colmi di dolore, ma lei disse soltanto: «Domani», perché l’unica cosa di cui aveva bisogno era porre fine a quella giornata e iniziarne un’altra. Era l’unico modo per fuggire dal giorno della... e passare oltre: non era nemmeno un vero giorno, solo un frammento di silenzio tra la luce e l’oscurità durante il quale lei aveva tenuto stretto il palo di sostegno dell’antenna mentre Devi le moriva accanto. Le dispiaceva mandare via i suoi compagni, i suoi amici, vedere il loro dolore annidato nelle rughe intorno alla bocca e sulla fronte, liquidarli con quella sola parola: Domani. Ma non poteva fare altrimenti. Oggi era già pieno.

 

 

Quando la sveglia suonò al solito orario, Sully era esausta per la notte insonne, ma si alzò comunque. Non poteva passare un’altra giornata a nascondersi; non che sapesse come passarla, ma qualcosa doveva fare. Avevano del lavoro da svolgere, una missione da portare a termine. Doveva configurare la nuova antenna parabolica... il motivo per cui era successo tutto. Si mise a sedere e si cambiò la maglietta e la biancheria intima. S’infilò una tuta pulita e tirò la zip fino al collo. Passò le dita sulle proprie iniziali ricamate, indugiando sul nome di battesimo, con cui non l’aveva mai chiamata nemmeno Jack. Fin dai tempi del college, era sempre stata Sullivan, detta Sully. Il nome che aveva ereditato da sua madre. Chiuse gli occhi e immaginò le iniziali di Devi, bianche sul rosso borgogna della sua tuta preferita: NTD. La N di Nisha.

«Nisha Devi», sussurrò. E lo ripeté come un canto, o forse una preghiera.

In cucina trovò Tal che mangiava fiocchi d’avena direttamente da una delle confezioni sottovuoto in cui era impacchettata la maggior parte del loro cibo. I capelli erano una massa di ricci neri e selvaggi, così folti e ribelli che restavano uguali sia nella centrifuga sia nella zona a gravità zero.

«Ciao», le disse, prudente.

«Buongiorno», replicò lei, sedendosi accanto a lui con un’altra confezione di fiocchi d’avena.

«Sono contento di vederti in piedi.»

Sully annuì. Mangiarono in silenzio e, non appena Tal ebbe finito, buttò la confezione e si fermò dietro Sully. Le posò le mani sulle spalle. «È stato terribile, ma non è stata colpa tua.» Le diede una stretta, con delicatezza, e poi la lasciò.

Lei si sforzò di continuare a mangiare, anche se quei fiocchi d’avena sapevano di fango e il suo stomaco si stava già ribellando. Erano tante le cose che non avrebbe avuto voglia di fare quel giorno, ma doveva farle. Tutte. Per Devi.

Sul tavolo di fronte vide il mazzo di carte con cui giocavano di solito lei e Harper. Di solito? Sully si chiese se quella sensazione l’avrebbe mai abbandonata, se sarebbe stata capace di ridere di nuovo, di dire cose stupide con Harper, di mischiare le carte a cascata come avevano fatto solo poche notti prima. Non sembrava possibile. Ripensò di nuovo a quel pomeriggio, a Goldstone, quando la madre le aveva insegnato il solitario. Per tenerti occupata, le aveva detto. Ed era stato utile: le ore che Sully aveva trascorso a giocare al solitario nell’ufficio della madre mettevano in ombra il resto della sua infanzia. La scuola era una macchia sfocata, i compagni delle elementari bambini senza volto, entità prive di nome che entravano e uscivano dalla sua memoria. Nella sua testa solo l’ufficio era rimasto nitido, le mattine al tavolo della cucina in cui ascoltava la madre leggere i titoli dei giornali, le notti in cui uscivano nel deserto. Solo il rumore delle carte di plastica, il ronzio dell’aria condizionata, le voci smorzate dei ricercatori provenienti dalla stanza a fianco sembravano reali. Era così orgogliosa di Jean, non le aveva mai portato rancore per il tempo che non aveva trascorso con lei, a insegnarle come nuotare controcorrente, andare in bicicletta o cucinare un uovo al tegamino. Un giorno Jean aveva ottenuto una promozione, e per Sully era stato centomila volte meglio che prendere A+ a scuola, perché era il frutto del loro duro lavoro, dei sacrifici che entrambe avevano fatto. Non le importava di restare chiusa in quell’ufficio buio e polveroso, perché sapeva che Jean stava facendo cose importanti; stava cambiando il mondo, proprio lì, nella stanza a fianco. Da bambina, non c’era nessuno che ammirasse quanto Jean. Non appena aveva capito un po’ meglio cosa facesse, aveva subito desiderato seguire le sue orme.

Era stato più o meno lo stesso per suo padre, un mito senza nome e senza volto. Il lavoro che faceva lui era più importante di una famiglia. Ogni volta che Sully faceva domande su di lui, Jean le rispondeva che era un uomo intelligentissimo, così dedito alla sua professione da non avere spazio, nel cuore, per loro. Jean le diceva che doveva esserne fiera: lei non aveva un padre perché lui serviva più al mondo che a loro due.

«Orsacchiotto», le diceva Jean, «tuo padre è troppo grande per una sola famiglia... io e te, invece, siamo della misura perfetta l’una per l’altra.»

Poi, quando Sully aveva compiuto dieci anni, Jean si era sposata, ed era cambiato tutto. La loro proporzione perfetta era saltata. Si erano trasferite in Canada col nuovo marito di Jean e in meno di un anno lei era rimasta incinta, aveva partorito due gemelle pochi mesi dopo l’undicesimo compleanno di Sully. Jean aveva smesso di lavorare, aveva abbandonato le sue ricerche e si era votata alla maternità, lasciandosene assorbire completamente. Si dedicava alle gemelle come mai aveva fatto con la sua primogenita. E l’orgoglio che Sully provava per la madre era svanito. A cosa erano serviti tutti quei pomeriggi di solitari, se doveva finire così? Tutto quel lavoro e quei sacrifici? Le gemelle crescevano e, quando avevano iniziato a parlare, Jean aveva insegnato loro a chiamarla «mamma». Sully non l’aveva mai chiamata così. Non c’era più niente per lei, non c’era più posto per un’adolescente arrabbiata in quella famiglia. Così Sully aveva deciso di andare in collegio, tornava solo quando i dormitori chiudevano e lei non aveva nessun altro posto in cui andare. All’inizio sperava che la madre si opponesse, o che la chiamasse per implorarla di tornare, o che le scrivesse una lettera di scuse – qualsiasi cosa per farle capire che si era accorta di quanto la figlia fosse arrabbiata –, invece la sua assenza era stata accettata senza fare una piega. Sully aveva preso il diploma, senza nemmeno presentarsi alla cerimonia di consegna, e si era trasferita a Sud per il college: era tornata nel posto in cui era stata più felice.

Jean era morta prima della sua laurea. Una gravidanza inattesa, un bambino nato morto. Lei non si era mai svegliata dall’operazione e Sully non era riuscita a tornare in tempo. Le pompe funebri l’avevano truccata in modo da trasformarla in una persona che Sully non riconosceva. Al funerale si era seduta vicino alle gemelle, due ragazzine dagli occhi color del miele e dai capelli ramati, come il padre, e si era resa conto di essere orfana. Ciò che restava di quella famiglia non aveva mai avuto niente a che fare con lei.

Harper si sedette accanto a lei e le mise davanti una tazza di caffè. Sully tornò nel presente e si vergognò; era in lutto per la persona sbagliata.

«Sembra che tu ne abbia bisogno», disse Harper indicando la tazza.

Lei sorrise, per farlo stare meglio, ma quell’espressione era come un’estranea sul suo viso, una maschera della misura sbagliata. «Vero.» Prese un sorso. Le bruciò il palato, ma non ci fece caso. Anzi, fu un sollievo sentire qualcosa di tangibile, qualcosa di quotidiano e sgradevole che la distraesse dal resto, anche solo per un momento. «Mi dispiace per ieri.»

«Non c’è niente per cui tu debba dispiacerti. Ognuno ha il suo modo di reagire. Tu avevi bisogno di tempo. Oggi mi sembra che tu stia meglio. Mi fa piacere.»

Lei fece spallucce e strinse le mani sulla tazza. «Sì, avevo detto domani... ed eccomi qui. In fondo sono stata coerente, no?»

«Ahah.» Una risata breve e priva di gioia. Si morse il labbro inferiore, imbarazzato. Ridere non era ammesso, non ancora. «Sully, va benissimo così.»

Lei si alzò e lasciò la tazza sul tavolo, ancora piena. Si fermò, non sapeva cosa fare, dove andare. «Vado a lavorare», buttò lì alla fine.

«Okay, certo. Credo che Thebes sia già nella postazione radio. Sarà contento di vederti.»

«Vado», disse Sully.