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Iniziarono a passare un sacco di tempo sulla scialuppa, a navigare sul lago Hazen. Augustine arrivava a metà strada rispetto all’isola, poi si fermava e lanciavano la canna a turno. Non ci voleva mai tanto: il lago era pieno di salmerini che abboccavano a qualunque cosa e la piccola esca arancione era irresistibile. Ne pescavano uno o due, se erano piccoli, poi li uccidevano e li dissanguavano, tornavano indietro e li evisceravano sulla riva. Iris era diventata brava a lanciare, e anche nella parte più raccapricciante, ovvero recidere il midollo spinale ed eviscerare i pesci, si rifiutava di lasciar fare a Augie.

I fiorellini selvatici crescevano come spessi tappeti colorati gettati nella tundra. E, mentre quelle macchie di colore esplodevano tra l’erba nuova e la terra morbida e marrone, Augie e Iris iniziarono a fare passeggiate sempre più lunghe, per esplorare quell’ignota abbondanza estiva. Le colline e le montagne circostanti si riempirono di lemming, lepri artiche e uccelli. I buoi muschiati e i caribù restavano nella tundra, nutrendosi di delicate, rare specie botaniche come stuzzichini a un cocktail party. Durante una di quelle uscite, Augie si sedette a riprendere fiato su una roccia, mentre Iris corse avanti. All’improvviso spuntò un caribù e iniziò ad annusare il tappeto di sassifraghe delle torbiere che Augie stava ammirando, avvicinò il muso ai fiori gialli, li strappò per mangiarli e poi andò a cercare prelibatezze altrove. Da quella distanza, Augustine riusciva a vedere i ricci di pelo al centro della fronte, a sentire i suoi denti masticare e l’odore penetrante e un po’ ammuffito del suo respiro. Non si era mai ritrovato così vicino a un animale selvatico, perlomeno non vivo. Era enorme, con corna che si ergevano come torri fino al cielo terso, come i rami di un albero.

Augustine ripensò alla stazione radio, come faceva spesso. Non ci era ancora entrato, e col passare del tempo aveva iniziato a chiedersi perché. Cosa stava evitando? In realtà era curioso di vedere di quali apparecchiature disponessero, cosa sarebbe riuscito a captare, ma tutto il resto era talmente piacevole da riuscire a contenere la sua sete di sapere. Non voleva turbare la tranquillità della loro vita sul lago. Non sapeva cosa avrebbe trovato lì dentro, ma qualunque cosa ci fosse non c’era nessuna fretta di mettere a rischio quella felicità nuova di zecca che si erano appena forgiati. Per il momento Augustine era contento di non sapere. Eppure la ricerca di un’altra voce non era più solo per lui. La sua felicità non era più la cosa più importante.

All’inizio, quand’erano arrivati, si era illuso che la sua salute stesse migliorando: la calma del lago, il tepore, la brezza leggera lo avevano fatto sentire più forte. Poi, col passare delle settimane, aveva capito che i suoi giorni erano contati tanto quanto prima. Essere in un luogo più confortevole non significava essere migliorati. La vita era più facile, ma lui stava invecchiando comunque. La lunga notte polare sarebbe tornata, le temperature sarebbero crollate di nuovo e le sue articolazioni avrebbero ricominciato a dolere. Il suo cuore avrebbe ripreso a battere più lento, la mente a pensare in maniera più nebulosa. L’inverno gli sarebbe sembrato eterno. Dentro di sé sperava e temeva che il prossimo sarebbe stato l’ultimo. Era anziano, e i fiori selvatici e le brezze gentili non gli avrebbero restituito la giovinezza. Alzò gli occhi per guardare Iris, che stava tornando, saltando da una roccia all’altra come una capretta selvatica.

«Allora, com’era il panorama?» le chiese.

Invece di rispondere, lei gli porse un bouquet di camedri alpini, fiorellini bianchi con stami gialli al centro, pieni di polline. Alcuni erano sfioriti, e dai semi erano germogliati ciuffi di peluria; altri erano ancora chiusi in boccioli lucidi, altri ancora scompigliati dal vento come la barba canuta di un vecchietto.

Augie rise. «Dovrebbero somigliarmi?»

Iris annuì con la sua migliore faccia fintamente seria.

«Be’, ci potrebbe andare peggio, non credi?» Prese uno dei fiori appassiti e se lo infilò in un’asola della camicia.

Iris sorrise in segno di approvazione e proseguì. Augie si aggrappò alla superficie liscia della roccia per rimettersi in piedi, schiacciando il mazzolino di fiori contro la pietra. Guardò Iris che procedeva spedita verso la base e la seguì, stringendo ancora il mazzolino stropicciato e appassito. Sì, era arrivato il momento.

 

 

Con un caffè in mano, Augie attraversò a passi lenti l’altopiano roccioso fino alla stazione radio e provò ad abbassare la maniglia. La porta era testarda, perciò lui dovette appoggiare la tazza per terra e convincerla con una spallata. Dentro trovò esattamente quello che si aspettava, ovvero una postazione radio molto ben attrezzata. Con un’ottima fornitura di componenti, vari ricetrasmettitori per le frequenze HF, VHF e UHF, due paia di cuffie, altoparlanti, un microfono da tavolo e un bel generatore, la stazione era completa di tutto, le mancava solo un operatore. Il problema, all’osservatorio, era che si erano affidati totalmente alle comunicazioni via satellite – la radio era usata solo come riserva o per trasmissioni locali –, invece lì il sistema era stato costruito apposta per le frequenze radio. Sul tavolo notò un telefono satellitare, con accanto due walkie-talkie.

Augie accese il generatore e lo lasciò andare per qualche minuto, poi controllò che fosse collegato alle varie apparecchiature e accese anche quelle. I display s’illuminarono di arancione e di verde. Dagli altoparlanti si levò un brusio indistinto, come se dentro ci fosse un alveare. Sotto il tavolo trovò bottiglie d’acqua, razioni di cibo e sacchi a pelo: essendo quello l’unico vero edificio della base, doveva essere anche il rifugio di emergenza. Le tre tende erano sufficientemente resistenti per superare diversi inverni polari, ma non erano certo indistruttibili. L’Artico era tutt’altro che clemente.

Augustine trafficò con gli apparecchi per qualche minuto, poi collegò le cuffie, spostò la manopola su ON e iniziò la scansione. Di nuovo in pista, pensò. Ma era diverso dall’osservatorio, la schiera di antenne che aveva a disposizione lì avrebbe permesso alla sua voce e alle sue orecchie di arrivare molto più lontano. Accarezzò uno dei ricetrasmettitori e tolse col pollice la polvere dal display verde. Accese il microfono e se lo avvicinò al mento, poi scelse una banda amatoriale VHF e iniziò a trasmettere, CQ, CQ, CQ, senza sosta, continuando a scansionare le frequenze. Niente. Del resto non si aspettava una risposta. Eppure andò avanti a trasmettere, spostandosi dalle VHF alle UHF, poi passò alle HF, e ricominciò da capo. Dopo un po’ Iris apparve sulla porta, lasciata aperta per far entrare la brezza estiva. Agitò la canna da pesca.

Lo sguardo di Augie passò dalla radio alla bambina. «Sì, hai ragione. Aspettami sulla barca, arrivo.»

Lei se ne andò, lasciando inalterato il rettangolo sottile di lago, cielo e montagne. Augie spense tutto, lasciando per ultimo il generatore, poi si sfilò le cuffie dal collo e riavvolse il cavo. Si chiuse la porta alle spalle, aspettando che gli occhi si riabituassero agli abbaglianti riflessi del sole sull’acqua.

Iris era seduta sullo scafo capovolto, battendo la canna con un ritmo vagamente jazz.

«Andiamo», disse Augie, e lei saltò in piedi.

Insieme girarono la scialuppa e la trascinarono nell’acqua bassa con un gesto ormai collaudato, dopo tutte le volte in cui erano andati a pesca. Augie tornò indietro a prendere i remi e il retino, poi spinse la barca verso il largo. La lasciò andare alla deriva per un po’, con gli occhi chiusi, ascoltando lo sciabordio dell’acqua contro la riva, contro lo scafo, sentendosi addosso lo sguardo infuocato del sole di mezzanotte. Quando Augie riaprì gli occhi, Iris era seduta con le gambe penzoloni fuori dalla barca, con le dita dei piedi che sfioravano la superficie creando brevi solchi: su e giù, su e giù. Lui immerse i remi nell’acqua vitrea e iniziò a pagaiare.

 

 

L’estate sembrò passare più in fretta di quanto non fosse arrivata. Il calore scivolò via dalla valle e un fronte freddo gelò i fiori selvatici e ricoprì le sponde fangose di cristalli di ghiaccio. La sera, Augustine continuava a sedersi sulla sua sedia adirondack, a guardare passare le ore, a vedere il sole che tramontava, ma ormai s’infagottava in vari strati di lana. Il freddo gli s’insinuò nelle ossa, nelle articolazioni, nei denti. Lui non si allontanava più dalla base, Iris esplorava le montagne e la tundra da sola. Continuavano a pescare insieme, spingendosi tanto al largo quanto lo permetteva il lago, ma con quell’aria fredda Augie aveva difficoltà a remare e il gelo diventava più pesante di settimana in settimana. Ci siamo quasi, pensava.

Continuava a scansionare le bande una volta al giorno, ma era un silenzio perpetuo, un isolamento totale. Ascoltava solo per il bisogno di lavorare, di avere uno scopo. A mano a mano che i giorni passavano, diventando più freddi, il tragitto dalla sedia alla stazione radio e ritorno era diventato da piacevole passeggiata a una sfida. Augie conservava le sue energie per quella camminata, non voleva cedere. Non riusciva più a remare, nemmeno per tratti brevi. Alla fine ai margini del lago si formò una sottile crosta di ghiaccio. Tanto meglio, si disse. Poco dopo, il sole raggiunse l’orizzonte e l’oltrepassò, prima di riemergere. Fu un magnifico concerto di alba e tramonto, che durò per diverse ore, immergendo le montagne in un arancione infuocato e proiettando in cielo nuvole viola, prima di svanire in un azzurro vivido. Quegli attimi in cui un giorno finiva e un altro cominciava diventarono un segno del passare del tempo.

Il lago ghiacciò, poi si sciolse, poi ghiacciò di nuovo. Un pomeriggio, subito dopo che il sole era andato a nascondersi per breve tempo dietro le montagne, iniziò a cadere una pioggerellina gelida. In quel freddo crepuscolo, le gocce si indurirono in schegge di ghiaccio e poi si ammorbidirono in fiocchi di neve, che lentamente coprirono il paesaggio marrone. Quando aveva cominciato a piovere, Augie si era appena alzato dalla sedia, ma alla comparsa della prima neve tornò fuori. Iris si mise vicino a lui, seduta sul suo sgabellino ricavato da una cassa d’imballaggio, e insieme osservarono i contorni della terra svanire sotto una coltre di bianco. Poche ore dopo, quando il sole rischiarò le montagne, accese un pallido fuoco sui picchi innevati di fresco, e non appena fu più alto nel cielo fece brillare la tundra come un campo di fiamme bianche. L’Artico aveva reindossato il suo mantello, e non l’avrebbe tolto per diversi mesi.

Anche le stelle tornarono. Una sera, dopo che le montagne imbevute di colore erano sbiadite per poi scurirsi in vette nere contro un sonnacchioso cielo blu, Augie scese in riva al lago per testare il ghiaccio. Gli diede un colpetto con lo scarpone, vide che teneva e fece qualche passo, gli diede un altro colpetto e poi lo calciò con forza. Era solido. Avrebbe retto il suo peso. Tornò a riva e andò verso la stazione radio. Notò orme fresche nella neve illuminate dalla luce delle stelle, scendevano da una delle colline e poi scomparivano sulla riva del lago. Erano enormi e molto distanziate, con intorno i segni lasciati da lunghi artigli: orme di orso polare. Lì? Augie era sorpreso, e per un attimo si dimenticò della radio e tornò indietro, seguì le impronte fino a riva, dove svanivano nel ghiaccio. Si chinò a esaminare i graffi lasciati sulla superficie ghiacciata nei punti in cui l’orso aveva affondato gli artigli per attraversare il lago. Forse stava andando al fiordo, pensò. Oppure si era perso, chissà. Augie scrollò le spalle e si riavviò verso la stazione radio.

S’infilò le cuffie e iniziò la scansione, regolando i comandi alla flebile luce della lampada a cherosene. Le interferenze erano riposanti, coprivano il silenzio assoluto dell’Artico, un silenzio così completo da sembrare innaturale. Le onde non lambivano più la riva del lago, l’aria era ferma, gli uccelli erano volati via. Era calato il silenzio dell’inverno. Le sterne avevano abbandonato il loro meraviglioso nido per dirigersi a sud, verso l’altro Polo, e i buoi muschiati e i caribù erano tornati nelle radure della tundra. Ogni tanto quella calma veniva violata dal lungo, vibrante ululato di un lupo, ma per il resto il lago era avvolto in una pace ovattata. Il rumore bianco della radio era un sollievo, un morbido crepitio che oscurava la solitudine. Augie impostò il ricevitore perché scansionasse le bande in automatico e chiuse gli occhi, lasciando vagare la mente. Quando la sentì si era ormai addormentato: una voce che si era fatta strada nei suoi timpani per finire nei suoi sogni. Si svegliò di scatto e si premette le cuffie sulle orecchie. Era così flebile che Augie non era sicuro di averla sentita davvero. Ma no, eccola, di nuovo... nessuna parola, solo sillabe, interrotte da interferenze. Si sforzò di capire cosa stesse dicendo e si avvicinò il microfono alla bocca, ma all’improvviso non sapeva cosa rispondere. Era così emozionato che aveva dimenticato il linguaggio in codice dei radioamatori. Ma non importava: l’FCC non stava più ascoltando.

«Pronto?» disse, rendendosi conto solo dopo che stava gridando. Aspettò, tendendo le orecchie. Niente. Provò ancora, ancora, e finalmente, al terzo tentativo, la sentì di nuovo. La voce di una donna, forte e chiara.