16

 

Ormai si erano lasciati Marte alle spalle, e la sfera azzurra della Terra diventava ogni giorno più grande. Tutti passavano il loro tempo libero nella cupola, a guardare i colori dell’atmosfera diventare sempre più vividi, a mano a mano che si avvicinavano. Tutti tranne Sully. Lei restava chiusa nella postazione radio, dividendosi tra la catalogazione dei dati di Giove e l’ascolto dei segnali in arrivo dalla Terra. Si teneva in disparte dal resto dell’equipaggio. Sgattaiolava fuori dalla centrifuga la mattina presto, quando il sole artificiale iniziava a spuntare, e tornava tardissimo, quando gli altri erano già a dormire. Non c’era nulla, nemmeno un notiziario trasmesso da un’emittente via cavo o una classifica di musica, ma lei continuava ad ascoltare. Più si avvicinavano, più era probabile che la loro antenna captasse qualcosa. Durante una catastrofe, i radioamatori erano sempre i primi a ricevere le informazioni in giro per l’etere; di sicuro avrebbe intercettato qualcuno. Non avevano ancora elaborato una teoria che avesse senso, né una spiegazione plausibile per quel silenzio. Semplicemente, piano piano avevano iniziato ad accettarlo.

Erano abbastanza vicini da vedere la Luna che girava intorno al loro piccolo pianeta azzurro quando Sully perse le tracce della sonda di Io. Se lo aspettava: le condizioni sul satellite più vicino a Giove non erano facili, la sonda aveva resistito più a lungo di quanto non avessero sperato. Era un successo incredibile, grazie al quale avevano raccolto una quantità di dati straordinaria, ma a Sully dispiacque comunque per quel silenzio. Non c’erano molti segnali là fuori e averne uno in meno – prima la Voyager 3, adesso questo – la faceva sentire ancora più sperduta. C’erano così poche cose cui aggrapparsi. L’universo era un posto inospitale, e lei si sentiva fragile, appesa a un filo, sola. Tutte le loro deboli connessioni, le loro illusioni di sicurezza, di compagnia, di cameratismo stavano svanendo. A giudicare dall’ultima trasmissione, la sonda era finita su un terreno vulcanico, lontana dalle distese di neve di diossido di zolfo su cui l’avevano lasciata. L’ultimo dato relativo alla temperatura faceva pensare che fosse stata immersa nella lava, e nemmeno la NASA progettava dispositivi che resistessero a tanto.

Ormai era tardi. Sully uscì dalla postazione e fluttuò verso la cupola. Perlomeno erano quasi a casa. A prescindere da cosa li aspettasse, era bello vedere il loro piccolo pianeta al di là del vetro spesso, con la sua Luna d’argento che ci girava intorno come una pigra pallina da flipper. Quando Sully arrivò, trovò Tal e Ivanov che guardavano il panorama fluttuando fianco a fianco. Le fecero spazio e tutti e tre rimasero lì, sospesi nell’aria, a osservare la minuscola sfera su cui era iniziata la loro vita. Per un attimo, vicino alla superficie del pianeta comparve una macchiolina di luce.

Ivanov indicò il punto in cui era stata fino a un attimo prima. «L’avete vista? Proprio lì... Era l’ISS?»

La macchiolina era sparita dietro la Terra prima ancora che Ivanov riuscisse ad alzare il braccio. Tal si accarezzò la barba con aria pensierosa. «Forse.»

«Come sarebbe a dire forse?» sbottò Ivanov, e due gocce indignate di saliva lasciarono le sue labbra e gli rimasero sospese davanti al viso. «Cos’altro poteva essere?»

Tal fece spallucce. «Non lo so, magari un satellite. Hubble. Spazzatura spaziale. Le possibilità sono tante.»

«No, impossibile. Era troppo grande.»

Sully aveva iniziato ad allontanarsi, temendo che le chiedessero un parere, quando vide Tal posare una mano sulla spalla di Ivanov. «Forse hai ragione. Dico solo che... ecco, aspettiamo che rispunti, no?»

Ivanov annuì e i due continuarono la veglia, gli occhi fissi sul pianeta che incombeva davanti a loro. Sully fu sorpresa di vederli scendere a compromessi, sorpresa e felice. Una nuova connessione in quel mare di solitudine. Scivolò fuori dalla cupola, nessuno dei due fece caso a lei.

Harper la stava aspettando nella postazione radio. Lei si sentì in trappola. Cercò di nascondere l’irritazione di vederlo lì, in quello che considerava il suo spazio privato. Harper indicò l’ultima trasmissione dalla sonda di Io, i dati che Sully aveva lasciato sullo schermo grande poco prima di uscire. «La sonda di Io ha tirato le cuoia, eh? Vulcano?»

«Sì. Mi ha lasciato ieri.»

«Ti va una pausa? Andiamo a mangiare? Oppure una partita a carte?»

«Direi di no. Ho delle cose da finire qui e l’ho appena fatta, una pausa. Però grazie...»

«Okay... è solo che mi sembra di non vederti da una vita, e mi piacerebbe sapere come stai.» La guardava con espressione franca, aperta, come se avesse scritto in fronte un invito a lasciarsi andare, a confidarsi con lui.

Voleva solo che lei gli parlasse, eppure era irritante. Sully non voleva essere brusca o scortese, ma non sapeva cosa rispondere, già la domanda in sé la indisponeva. Come doveva stare? Come stavano gli altri? Era una situazione impossibile, stavano facendo di tutto per andare avanti, per passare da un minuto all’altro senza andare in pezzi: guardare la Terra, ascoltare la Terra, giocare a carte mentre pensavano alla Terra...

Il silenzio si protrasse. Alla fine Sully disse: «Sono solo un po’ sconvolta, per motivi che puoi immaginare... ma per il resto sto bene».

«Certo, certo.» Lui d’un tratto parve insicuro, come se il copione che si era preparato non fosse più adatto alla loro conversazione. «È che... ecco, stare con te mi manca. Ma, insomma... prenditi il tuo tempo. Magari ci vediamo dopo a cena.» Poi la superò e uscì.

Una delle apparecchiature segnalò una registrazione dati in entrata. Il resto continuava a ronzare piano: solo portanti radio vuoti.

Sully guardò la porta da cui era uscito Harper, e all’improvviso le dispiacque che se ne fosse andato. Doveva proprio essere così brusca? Così fredda? Perché non riusciva a spiegare cosa provava? Una parte di lei se ne vergognava, ma un’altra era furiosa... perché lui l’aveva disturbata, perché aveva creato quel vortice inatteso dentro di lei. La sua mente iniziò a saltare da un ricordo all’altro: Devi, Lucy, Jack... perfino sua madre, Jean. In un modo o nell’altro, li aveva persi tutti. E ogni perdita tornò da lei, aggiungendosi al mulinello del suo cuore, finché Sully non riuscì più a distinguere le vecchie preoccupazioni dalle nuove. Fece un respiro profondo, un altro. Visualizzò la Terra, i suoi contorni azzurri sfumati, la topografia accidentata, i fili di nuvole, ma non la confortò. Pensò ad Harper, a Thebes, Tal, Ivanov... c’era sempre qualcos’altro da perdere. Cercò di calmarsi, di fermare il suo corpo alla deriva, ma l’assenza di gravità rendeva le cose più difficili. Sbatté la spalla contro un altoparlante, l’anca contro uno schermo, più lottava per restare ferma più si spostava. Stava combattendo contro un’assenza, invece che contro una presenza, e d’un tratto si sentì gelare. Qual era il sotto e quale il sopra? Mentre il pavimento scivolava via per diventare il soffitto, il filo di logica che lei aveva seguito per tutta la missione, per tutta la sua vita, si strappò. Il lavoro e l’intelligenza non erano in grado di tenerla al sicuro. Non c’era niente che avrebbe potuto fare, non esisteva sforzo, previsione o abilità che avrebbe potuto impedire ciò che era successo. Niente, in quell’universo, poteva tenerli al sicuro. All’improvviso divenne tutto nero e lei vide di nuovo un’astronauta che fluttuava via, nell’oscurità; solo che stavolta c’era lei, in quella tuta, lei che gridava, implorava, tremava, non respirava.

 

 

Sully aveva avuto un solo altro attacco di panico, dopo che il patrigno l’aveva chiamata per dirle che Jean era morta. Non aveva mai perso la speranza che potessero ritrovarsi, che un giorno sarebbero tornate nel deserto a guardare le stelle, loro due sole. Jean l’avrebbe chiamata di nuovo «orsacchiotto», come da bambina, e avrebbero ammirato ancora i crateri luminosi della Luna, i vortici della nebulosa di Orione, il luccichio lattiginoso della Via Lattea. La ferita che le aveva separate si sarebbe rimarginata. Poi sarebbero tornate a casa in macchina su strade coperte di sabbia e si sarebbero perdonate. Dopo la telefonata del patrigno, quella fantasia, che l’aveva sorretta da quand’era ragazzina, era evaporata. Sua madre si era allontanata in un punto imprecisato tra il deserto del Mojave e la British Columbia, ma quella speranza era rimasta. C’erano stati momenti in cui era sembrata proprio dietro l’angolo e così, quand’era stato ufficialmente e definitivamente troppo tardi, per Sully era stato impossibile sostenere il peso di quella perdita.

Si ricordò di aver posato il telefono sul piano della cucina del suo primo vero appartamento a Santa Cruz e ne aveva guardato la trama – a puntini grigio argento – poi la schiena era scivolata giù, lungo il frigorifero, e le gambe si erano accartocciate sotto di lei. Era rimasta lì parecchio, quasi soffocata dalle lacrime, a chiedersi come faceva a essere ancora cosciente, ancora viva. Si era svegliata il mattino successivo, con la guancia premuta contro il pavimento. Aveva passato ore a fissare la malta bianca che divideva le piastrelle a diamante color salmone, pensando che, se fosse riuscita a tenere occupata la testa con quello, forse sarebbe sopravvissuta a quella giornata.

Sully rivide il motivo delle piastrelle del pavimento di quella cucina. Lasciò che le riempisse il cervello. Un diamante color salmone dopo l’altro, incorniciato di bianco. Si ricordò che alla fine era riuscita ad alzarsi, era andata verso la porta sul retro e l’aveva aperta. Si era seduta sui gradini della verandina e aveva guardato il cielo, quella cupola azzurra. Alla fine aveva trovato un modo, se l’era cavata. Ci sarebbe riuscita anche stavolta.

Quando Sully tornò alla Terra in miniatura, quella sera, la scarica di adrenalina si era attenuata, lasciando un vuoto divorante nei suoi muscoli indeboliti. Harper era ancora sveglio, giocava a un solitario. Non la salutò, e nemmeno lei sapeva cosa dire. Si preparò per andare a letto ed entrò nel suo scompartimento. Esitò, lasciò la tendina aperta, i piedi nudi ancora sul pavimento. «Scusami, per prima», disse senza guardarlo. Sentì lo schiocco di una carta calata sul tavolo.

«Non ti preoccupare», rispose lui, anche se in un tono cui lei non era abituata. Distaccato, come se stesse impartendo ordini a un computer. Come se non stesse parlando a un essere umano.

Sully lo aveva ferito, e quella era la sua penitenza. Perdere un uomo che era proprio lì, di fronte a lei. «Okay. Allora buonanotte», disse, e aspettò.

Lui non rispose. Dopo un po’ lei tirò la tendina e si sdraiò. Avrebbe pianto se le fossero rimaste ancora lacrime, ma i suoi occhi erano rossi e secchi. Spense la luce.

«Buonanotte», disse infine Harper, in un tono che era di nuovo il suo.

Sully premette i palmi freddi contro il calore pulsante che sentiva sulle palpebre. Avrebbe sorriso, ma aveva finito pure quelli.

 

 

La Terra da lontano sembrava tale e quale a come l’avevano lasciata: nessuna nuvola di polvere che ne offuscasse l’atmosfera, oscurando i continenti, niente fumo che si alzasse dalla superficie. Un’enorme oasi rotonda nel mezzo di un deserto nero e assetato. Fu solo poco prima di entrare nell’orbita che Sully capì cosa non andasse. Quando si trovarono di fronte al lato in ombra del pianeta si resero conto che era buio. Non c’erano città illuminate, né arazzi di lucine scintillanti. Questo non fece che aumentare l’ansia divorante che era cresciuta in loro da quando le comunicazioni si erano interrotte, prima di Giove. Non c’era più una luce, in nessuna città. Com’era possibile?

Sully continuò a scansionare le frequenze, in attesa di un segno qualunque a testimoniare che c’era ancora una presenza umana. Iniziò persino a trasmettere, quand’era certa che il resto dell’equipaggio non potesse sentirla. Non erano messaggi professionali, erano preghiere: non a Dio, che non le era mai piaciuto, ma all’universo, o direttamente alla Terra. Vi prego, vi prego, una voce, solo una. Qualcuno risponda, dica qualcosa. Niente. Solo buio, un pianeta silenzioso circondato da rifiuti spaziali, satelliti morti e dall’ISS. Si avvicinarono ancora. Nulla di nulla.

Solo dopo che ebbero superato la Luna lo sentì. Era mattina presto, secondo il fuso orario di Greenwich, e Sully borbottava nel microfono, soprappensiero, quasi parlando da sola. Che in fondo era l’unica persona cui avesse qualcosa da dire. E poi all’improvviso lo sentì: così debole e distorto che sulle prime pensò a un disturbo atmosferico che fischiava nel ricevitore. Sully però trasmise di nuovo un prudente «ciao». E, quando la voce rispose, lei quasi si mise a gridare. Pensò di essere diventata pazza, di vaneggiare. Era come una seduta spiritica cui non aveva mai creduto nella quale d’un tratto percepiva una presenza. Ma no, eccola di nuovo, questa volta più nitida, la voce di un uomo, roca, vecchia e arrugginita. Ma pur sempre una voce. Una connessione, che era arrivata fino a lei. Si portò il microfono alle labbra. Schiacciò il tasto TRANSMIT. Contatto.