Augustine si sedette a fatica. La fiamma della lampada a cherosene era bassa, lo stoppino tremolava nel vetro. La tenda sembrava vuota, ma era troppo buio per esserne sicuro. «Iris», chiamò. E ancora: «Iris».
Nulla, solo il lamento basso di un vento gentile che soffiava contro il guscio della tenda, il sibilo della stufa, il crepitio della fiamma. Cercò di calcolare quanto tempo fosse passato da quando aveva parlato con la donna dell’Aether: era stato il giorno prima, due giorni prima, o forse tre? Non era riuscito a tenere traccia del tempo che passava mentre era intrappolato nei suoi sogni. Aveva voglia di parlare con lei. Di chiederle altre cose: di sua madre e suo padre, dove fosse cresciuta e come, se avesse una famiglia, dei figli. Voleva sapere perché avesse deciso di diventare un’astronauta, che cosa avesse visto nella solitudine dello spazio da convincerla a lasciarsi tutto alle spalle. Voleva raccontarle del suo lavoro, dei suoi traguardi, ma anche dei suoi fallimenti... confessarle i propri peccati e ricevere il suo perdono. In quel momento, al capolinea della sua vita, aveva così tante cose da dire, e così poche forze per dirle. Gli girava la testa per lo sforzo ogni volta che cercava di sollevarla dal cuscino.
Tuttavia posò i piedi sul pavimento e chinò il busto in avanti, tenendo il capo tra le mani per scacciare le nuvole nere delle vertigini dal suo campo visivo e ritrovare l’equilibrio. Tenne gli occhi chiusi finché la testa non smise di girare: quando li riaprì, Iris era di fronte a lui, sulla sedia su cui era rimasta seduta durante tutta la sua malattia, prendendosi cura del suo corpo malato. Gli fece un cenno, ma non disse nulla.
«E tu da dove arrivi? Da quanto tempo eri lì?» le chiese.
Lei continuò a fissarlo, uno sguardo vuoto su un viso bellissimo.
Augie si sforzava di razionalizzare ciò che sapeva da tempo. «Perché sei qui?» sussurrò.
Iris inclinò la testa di lato e si strinse nelle spalle, come a dire: Dimmelo tu.
Lui si premette le mani sugli occhi, guardando la danza di luci e ombre dietro le palpebre. Quando li avesse riaperti, avrebbe trovato la sedia vuota, lo sapeva. E così fu.
C’era stata una notte, a Socorro, cui non pensava da anni. Aveva fatto di tutto per dimenticarla, eppure in quel momento tornò, e il suo respiro iniziò a rantolare nei polmoni morenti. Era stato poco dopo che Jean gli aveva detto di essere incinta e lui le aveva chiesto di abortire. Era tardi, lui si era presentato all’improvviso, ma lei lo aveva fatto entrare comunque, nella sua casetta di mattoncini di argilla che aveva affittato vicino al Jansky Array. Una casetta piena di libri e risme di fogli ancora intonsi. La sua tesi di dottorato era impilata sul tavolo della sala da pranzo, il pennarellino viola stappato, un blocco aperto pieno di appunti indecifrabili con accanto una tazza di tè. Augustine era inciampato nel tavolo ed era sprofondato su una sedia. Era ubriaco. Chissà come, si era rovesciato il tè – un gomito maldestro, un gesto eccessivo –, che aveva preso a inzuppare il lavoro di Jean, l’inchiostro viola scorreva sulla pagina come mascara bagnato di lacrime. Jean non era arrabbiata, era... già, com’era? Triste, Jean era triste. Si era seduta di fianco a lui, aveva raddrizzato la tazza ormai vuota e aveva posato uno strofinaccio sulla pozza di tè che nel frattempo aveva raggiunto il bordo del tavolo, iniziando a gocciolare sul pavimento. «Che ci fai qui?»
Lui non aveva risposto, lo sguardo fisso sulle pagine rovinate.
Lei aveva aspettato. «Augie, perché sei venuto?»
E poi era successa la cosa più assurda del mondo: lui aveva iniziato a piangere. Si era avvicinato all’armadietto in cui lei teneva gli alcolici, una bottiglia di whisky e una di gin, sperando che lei non avesse visto le sue lacrime. Poi si era ricordato di aver finito il gin la settimana prima, così aveva tirato fuori il whisky e se ne era versato due dita nella tazza vuota. Lei si era coperta la faccia con le mani, mentre lui buttava giù il whisky in un sorso. Adesso piangevano entrambi.
«Cosa diavolo vuoi?» aveva detto Jean.
Lui aveva capito che non avrebbe dovuto essere lì. Che lei non voleva vederlo... un lampo di comprensione che era svanito all’istante. «Voglio provarci», aveva biascicato. «Dai, proviamo.»
Lei aveva scosso la testa, piano ma decisa, e rimesso la bottiglia di whisky nell’armadietto.
«Voglio riparare», aveva insistito lui.
Lei si era girata, accertandosi che anche lui la stesse guardando negli occhi. «No. Ma guardati.»
Lo aveva spinto verso la porta e Augie aveva obbedito, si era guardato allo specchio sopra il tavolino su cui lei lasciava le chiavi e la posta ogni volta che entrava in casa, accanto a un piccolo cactus in un vaso color acquamarina. Lui aveva visto i suoi lineamenti cascanti, come se la pelle avesse perso elasticità; gli occhi cerchiati di rosso; le cornee giallognole iniettate di sangue. C’era una macchia di sangue sul collo della maglietta. Non sapeva né di chi fosse né come fosse finita lì. L’uomo che lo stava guardando dallo specchio era più vecchio di quanto si fosse aspettato. Era più a pezzi e sperduto di quanto non avrebbe mai ammesso. La nebbia che circondava il suo cervello imbevuto di alcol luccicava intorno al suo riflesso come onde di calore, e in qualche modo, invece di fargli vedere meno, per una volta quella nebbia gli aveva permesso di vedere di più. Aveva reso l’immagine più nitida. E Augie aveva visto che era lui ad avere bisogno di essere riparato, e si era reso conto, con una certezza immediata ma inequivocabile, di non avere gli strumenti per farlo, e nemmeno la determinazione per provarci. Aveva visto quello che vedeva Jean. E aveva capito che lei e il loro bambino non ancora nato sarebbero stati meglio senza di lui.
Augustine aveva sviato lo sguardo dallo specchio e si era lasciato alle spalle quel breve bagliore di onestà: era troppo pesante da portare con sé; troppo accecante per guardarlo a lungo. Jean aveva aperto la porta e lui era inciampato contro lo stipite, allora lei lo aveva guidato fuori, gentile ma determinata, e poi aveva chiuso. Rimasto solo, davanti all’ingresso, lui si era appoggiato alla porta e aveva guardato il cielo buio, denso, impenetrabile. Nessuna stella, solo nuvole. Era stata l’ultima volta che avevano parlato.
Augustine si vestì lentamente e con grandissima difficoltà: sciarpa, cappello, parka, scarponi e infine i guanti. La tenda era vuota. I rumori soffusi delle zip tirate su, i tonfi degli scarponi, il fruscio del parka contro la sua pelle, tutto si unì in una delicata sinfonia di movimenti crescenti. Fuori il vento si lamentava piano... il canto di Iris. Quando aprì la porta Augie stava già ansimando. Il freddo quasi lo spezzò. Le raffiche gli riempirono i polmoni di cristalli di ghiaccio che salivano dal terreno, dopo due passi il respiro gli restò congelato sulla barba. Ma Augie alzò al massimo la manopola della forza, della determinazione e della tristezza ed entrò in modalità AVANTI TUTTA: il colpo di coda. La stazione radio era illuminata da una luna d’argento, Augie iniziò a camminare più veloce che poteva.
Non sapeva nemmeno da dove cominciare, né cosa le avrebbe detto quando si fossero rimessi in contatto, ma non gli sembrava importante. Voleva solo ascoltarla ed essere ascoltato. Avere un altro momento di onestà, dopo tutto quel tempo. Solo uno. Era già a metà strada quando vide delle orme nella neve, si fermò. Le seguì con lo sguardo, fino alla riva del lago, e vide una montagnetta bianca che pareva fuori posto. Seguì le impronte e, quando arrivò alla montagnetta, si rese conto che si trattava dell’orso polare che lo aveva seguito per tutto quel tempo, per tutti quei chilometri. Una parte di lui voleva avere paura, scappare via, ma il resto – la maggior parte – voleva toccarlo. Lo sfiorò con delicatezza, e l’animale emise un verso di gioia. Augie fece il giro intorno a quell’enorme creatura, fino al muso puntato verso il lago, il collo e lo stomaco che giacevano sulla neve, le zampe nascoste sotto il ventre. Si tolse i guanti e lo toccò di nuovo, tra le scapole. Il manto era coperto da un sottile strato di bianco, ma lui affondò le dita e trovò il calore emanato dalla sua pelle.
L’orso emise un altro verso di gioia, ma restò immobile. Augie capì che stava morendo. Alla luce della luna, la sua pelliccia sembrava quasi dorata. Le gambe di Augie cedettero, e lui cadde in ginocchio accanto all’animale, le dita ancora affondate nel suo pelo. La radio poteva aspettare, decise Augie, era quello... era quello il momento che stava cercando. Il vento si alzò e iniziò a soffiare la neve verso il cielo, nascondendo la stazione radio e le altre tende dietro una coltre di bianco, fino a quando non rimasero solo loro due, Augustine e l’orso.
Pensò a Jean. Alla prima volta che l’aveva vista, al parcheggio del Jansky Array. Lei era arrivata con la sua El Camino verde, i capelli scuri che le svolazzavano intorno alle spalle mentre scaricava i bagagli dal sedile del passeggero. Perfino dall’ingresso dell’edificio Augie aveva notato il suo rossetto rosso, la sottile striscia di pelle nuda tra la maglia e i jeans. Pensò alla prima volta in cui l’aveva spogliata, la prima volta in cui l’aveva guardata dormire e si era chiesto cosa fosse a renderla così bella. Così magnetica. Non era mai riuscito a scoprirlo. Poi pensò alla fotografia che gli aveva mandato. A quell’unica immagine della ragazzina, della loro figlia. Immobile, con le braccia incrociate davanti al petto, scalza, con un vestitino giallo chiaro, i capelli scuri lunghi fino al mento, la frangetta che arrivava appena sopra le sopracciglia. La bocca aperta, come se stesse per dire qualcosa, lo sguardo di sfida, gli occhi di un luminoso color nocciola.
L’orso grugnì e rotolò di lato. Augie si avvicinò. Non provò più paura, quando si raggomitolò contro la sua pancia calda, avvolto dalle sue zampe enormi, ma un senso di pace. Augie non si sentì più un intruso, ma parte del paesaggio. Percepì il respiro caldo dell’animale contro la propria nuca e si avvicinò ancora di più, voltò la testa e affondò il viso nella pelliccia, dove trovò un tuono calmo, il cuore dell’orso, ritmato come un tamburo, lento, profondo, continuo.