Un pomeriggio buio, dopo che il sole era già scomparso ma prima che il cielo ne cancellasse ogni traccia, Augustine e Iris decisero di andare all’hangar. Iris voleva fare una passeggiata – una passeggiata lunga, aveva specificato – e il vecchio hangar le era sembrato una nuova, eccitante destinazione. Augie non ci andava da tempo – dal suo ultimo volo di ritorno nell’Artico, l’estate precedente –, ma il crepuscolo blu, che gettava ombre misteriose nella neve, aveva solleticato anche la sua voglia di avventura. Sarebbero stati lontani dall’osservatorio quando fosse calata l’oscurità della notte prematura, ma avevano portato una torcia e, all’ultimo minuto, Augie aveva anche imbracciato un fucile, controllando che fosse carico. Adesso, la canna che gli sbatteva contro la spalla e il fascio di luce gialla che lo precedeva nell’azzurro della neve lo tranquillizzavano.
Procedeva con la torcia in una mano e una racchetta da sci nell’altra, usandola come un bastone. Camminare lungo il crinale della montagna innevata non era facile, e la sua artrite stava peggiorando. Iris procedeva impavida, correndo avanti, oltre il fascio della torcia, voltandosi ogni tanto per capire cosa lo stesse trattenendo. A metà strada, Augie aveva già il fiato corto, le ginocchia doloranti e i muscoli delle cosce che bruciavano. Avrebbe dovuto prendere gli sci, ma erano tutti troppo grandi per Iris e non gli era sembrato giusto che lei dovesse andare a piedi mentre lui scivolava giù lungo le pendici. Dopo un’oretta di cammino, finalmente avvistarono il tetto dell’hangar, un luccichio di metallo ondulato contro la neve infinita. Iris accelerò ancora, facendosi largo nella neve con le sue gambette corte ma determinate.
Avvicinandosi, Augustine si accorse che le enormi porte scorrevoli dell’ingresso erano spalancate. Dentro, la neve aveva cominciato ad accumularsi. Nelle poche zone ancora sgombre c’erano macchie di carburante, ormai assorbite dal cemento. Dovevano proprio essere partiti in fretta e furia. Un set di chiavi inglesi era sparpagliato per terra come una costellazione di stelle esagonali; la cassetta, vuota, buttata lì accanto. Augustine chiuse gli occhi e immaginò il jet sulla pista asfaltata, gli scienziati a bordo e gli ultimi militari che correvano da una parte all’altra a raccogliere le ultime cose, prendevano la cassetta senza controllare che fosse chiusa e poi vedevano le chiavi inglesi che cadevano per terra. Lui, dall’osservatorio, lo aveva sentito decollare, l’Hercules, e poi lo aveva visto salire fino in cielo. In quel momento, non poté fare altro che riempire la lunga pista imbiancata con un velivolo immaginario. Visualizzò il copilota che sporgeva la testa e gridava: Su, andiamo, mentre i meccanici decidevano di lasciare gli attrezzi caduti dov’erano, buttavano per terra anche la cassetta vuota e poi salivano di corsa la scaletta dell’aereo, per poi chiudere il portellone. Il jet iniziava a rollare e poi puntava il muso verso il cielo. Verso un mondo in cui Augustine non sarebbe più tornato.
Nel punto in cui aspettava l’aereo adesso c’era solo la pista, vuota e in rovina: il luccichio plasticoso dei LED spenti, le bandierine arancioni mezze sepolte dalla neve. La scaletta, rovesciata per terra, con una ruota che continuava a girare nel vento. Augustine prese in mano una delle chiavi inglesi, la soppesò, poi la fece cadere, ascoltò lo schiocco sul cemento. Quell’odore di lubrificante stantio, gli strumenti e i macchinari sparsi in giro per l’hangar gli fecero tornare in mente suo padre. Lo osservava spesso mentre dormiva, semisdraiato sulla poltrona, che russava con la bocca semiaperta. E quell’odore... quella puzza di olio e carburante che gli impregnava i vestiti come un fuoco invisibile o il ventre di un camion a motore diesel. Il televisore tremolava sullo sfondo, la madre lavorava in cucina o si riposava a letto, mentre Augie era in ginocchio sul tappeto, le fibre di poliestere che gli pizzicavano le tibie, che faceva finta di guardare la televisione e invece fissava il padre.
Augustine scrostò il ghiaccio e la neve da una scatola di metallo, fece forza e la scoperchiò: punte per trapano, cacciaviti, spole di fil di ferro, bulloni. Richiuse. Con la coda dell’occhio colse qualcosa che si muoveva in un angolo, si girò e vide Iris arrampicarsi sulla scaletta rovesciata come un’acrobata da circo.
«Stai attenta», le disse, e la bambina alzò le braccia sopra la testa in un gesto di sfida: Guarda, senza mani, senza mani! Si muoveva sulla struttura come una funambola. Augie continuò a perlustrare l’hangar, puntando la torcia negli angoli e togliendo la neve a calci da scatole misteriose nascoste tra i cumuli. Arrancò tra pile di scatole di cartone congelate, altri arnesi, uno stock di pneumatici. Poi arrivò a un ammasso più grande, coperto con un’incerata verde fissata con delle corde. Le sciolse, tirò via il telone e trovò due motoslitte. Ma certo, pensò. Ogni volta che gli era capitato di prendere l’aereo, era con quelle che l’avevano accompagnato dall’osservatorio alla pista e viceversa. Di solito, Augie partiva in estate, quando le precipitazioni causate dallo scioglimento delle nevi rannuvolavano l’atmosfera e l’Artico veniva avvolto da banchi di nebbia densa che salivano dal mare fino alle montagne, ponendosi come uno schermo tra lui e il cielo e impedendogli di svolgere il suo lavoro. In quei mesi, fuggiva dal Polo per andare al caldo: Caraibi, Indonesia, Hawaii... tutto un altro mondo. Alloggiava in resort di lusso, mangiava solo ostriche e cocktail di gamberi, pranzava a gin e poi collassava sul lettino ad arrostirsi in piscina. Cosa non darei per una bottiglia di gin adesso, pensò.
Armeggiò con le motoslitte. Le chiavi erano ancora nel quadro. Girò quella più vicina in posizione ON, aprì lo starter e tirò la cordicella dell’accensione. Il motore emise un ruggito, ma non si accese. Insistette, tirò di nuovo la cordicella con tutta la forza che aveva in corpo, e finalmente i pistoni iniziarono a pompare. Da sotto il cofano prese a uscire un fumo oleoso, e il motore piano piano salì di giri, deboli ma costanti. Il fumo iniziò a disperdersi e Augie diede un’affettuosa pacca sulla carena nera e lucida. Non che ci fosse un posto particolare in cui volesse andare, ma avere un mezzo a disposizione era senz’altro un bene. Forse avrebbero dovuto usarlo subito per tornare all’osservatorio. Augie sorrise e si chiese se Iris avesse gambe abbastanza lunghe per guidare l’altra, poi però la vide e dimenticò subito le motoslitte. Il motore si raffreddò, sputacchiò e morì, ma lui nemmeno se ne accorse.
Sulla pista era comparsa un’altra sagoma. Augie strizzò le palpebre per metterne a fuoco i contorni contro l’azzurro luminoso della neve nel chiarore morente: quattro zampe, un colore bianco sporco che quasi svaniva nel paesaggio. Se non fosse stato per Iris, che guardava ipnotizzata quella creatura, forse lui non l’avrebbe nemmeno notata. Poi Iris vi si avvicinò, correndo lungo l’asta metallica della scala rovesciata e canticchiando quello strano motivo gutturale cui Augie si era ormai abituato. La sagoma alzò il muso: era un lupo.
Senza nemmeno rifletterci, Augustine fece scivolare via il fucile dalla spalla. La cinghia sbatté contro la stoffa antivento del parka, e lui rabbrividì. Il lupo si girò verso di lui ringhiando, e la luce fioca si riflesse nei suoi occhi, facendoli brillare come il marmo. Fece un altro passo verso l’hangar e Augustine trattenne il respiro, in attesa. Iris camminava lungo la scaletta per avvicinarsi al lupo e allungò una mano per accarezzarlo. L’animale si accucciò nella neve e la guardò, rizzando le orecchie al suono della sua voce. Augie si sfilò i guanti. Non sparava da quand’era ragazzino, dai tempi in cui il padre lo portava a caccia nella foresta vicino casa, in Michigan. Aspettavano in silenzio e, al momento giusto, non appena qualcosa entrava nel loro mirino, facevano fuoco. Augie odiava ogni minuto di quelle gite.
Sollevò il fucile e si sistemò il calcio contro la spalla. Cercò il lupo nel mirino e puntò alla testa. Iris era sempre più vicina, continuava a cantare la sua melodia dolce e sommessa. Proprio quando il dito di Augie trovò il grilletto, il lupo si mosse. Rovesciò la testa e ululò, un canto doloroso, solitario, e fece un altro passo verso Iris. Augustine aggiustò la mira, il lupo si sollevò sulle zampe anteriori, allungando il muso verso la mano di Iris, e Augie sparò.
Il rumore dello sparo risuonò per tutta la Cordigliera, rimbalzò da una vetta all’altra per poi riecheggiare nelle valli, ma Augie non lo sentì. Nel silenzio, vide la testa dell’animale scattare indietro e la pioggerellina rossa cadere nella neve mentre il corpo restava sospeso a mezz’aria, per poi crollare a terra con un tonfo. Quando fu tutto finito, sentì solo le grida di Iris.
Si avvicinò a lei, mollando la torcia. Iris era caduta dalla scaletta ed era atterrata di faccia sulla pista innevata. Aveva i capelli e le sopracciglia imbiancati, il naso e le guance arrossati dal freddo, continuava a gridare. Si gettò sul corpo del lupo, affondando le mani ossute nel pelo. Augie era troppo lento, non aveva fiato per chiamarla e il fucile gli pesava sulla spalla, svuotandogli i polmoni ogni volta che gli colpiva le costole. Quando finalmente la raggiunse, si accorse che il lupo era ancora vivo, ma respirava appena. Lo aveva colpito al collo. Il sangue continuava a fluire nella neve, il ventre si muoveva sempre più lento. Augie allungò un braccio per allontanare Iris da quella creatura morente e si accorse che il lupo le stava leccando via le lacrime e la neve dal viso con la sua lingua rosata, come una madre coi cuccioli.
Il sangue del lupo era finito sul viso di Iris, sui suoi capelli e sulle sue mani, ma lei non ci faceva caso. L’animale emise gli ultimi respiri, sempre più faticosi, finché la lingua non si afflosciò nelle fauci e la luce nei suoi occhi si spense nell’oscurità. Il vento sollevò mulinelli di neve e soffiò contro Augie migliaia di schegge di ghiaccio affilate come lame di rasoi. Augie posò una mano sulla schiena tremante di Iris. Lei lo lasciò fare, ma non mollò il pelo del lupo, né interruppe il suo canto lamentoso. Tenne le sue minuscole dita nelle profondità di quel manto caldo e arruffato, mentre la neve le sferzava la pelle nuda.
«Mi dispiace», disse Augie. «Pensavo che... Pensavo che...»
La verità era che non aveva pensato, aveva identificato l’obiettivo ben prima di pensare. E, con una fitta di bruciore nelle viscere, si rese conto che l’avrebbe rifatto. Si disse che era stato per proteggere Iris. Per mantenerla al sicuro dal pericolo in agguato intorno a loro. E forse in parte era anche vero – i lupi dopotutto non erano proprio animali innocui –, ma c’era dell’altro: un sapore aspro, simile alla paura, che sentì salire dal fondo della gola, o forse semplicemente solitudine. Augie alzò gli occhi, affinché il cielo placasse l’ondata di emozioni forti che aveva dentro, come aveva già fatto altre volte in passato. Questa volta, però, non funzionò. Le emozioni restarono, le stelle rimasero semplicemente a guardare: fredde, luminose, distanti, impassibili. D’un tratto Augie avvertì il bisogno di fare le valigie e andarsene. Ma non aveva nessun altro posto in cui andare. Così restò dov’era, gli occhi sempre puntati verso il cielo, la mano ancora posata sulla schiena di Iris e, per la prima volta in moltissimi anni, provò emozioni: impotenza, solitudine, paura. Se le lacrime non gli si fossero congelate agli angoli degli occhi, Augie avrebbe pianto.
La torcia era andata, esaurita e dispersa nell’hangar, così dovettero fare tutta la via del ritorno fino all’osservatorio al buio, seguendo l’ombra scura della cupola stagliata contro il cielo illuminato dalle stelle. Augustine aveva perso anche la racchetta; senza era ancora più lento e le articolazioni gli esplodevano di dolore a ogni passo. Spostò il fucile sull’altra spalla. Ma perché non l’aveva mollato sulla pista? Perché gli era venuto in mente di portarselo dietro? Aveva la schiena e la spalla sinistra piene di abrasioni, per colpa delle botte della canna, e il petto dolorante per il rinculo.
Iris era triste, ma non piangeva. Mentre camminavano riattaccò col suo solito canto, lento e desolato, e lui gliene fu grato. Qualunque cosa, pur di togliersi dalla testa il rimbombo delle sue grida. Avevano ricoperto di neve la carcassa dell’animale, facendo del loro meglio per dargli una degna sepoltura, un tumulo bianco luccicante striato di sangue rosa. Coi guanti, Iris aveva preso un mucchietto di neve bianca e l’aveva sparsa su tutta la carcassa. Non fosse stato per le mezzelune scure sotto gli occhi e il fremito sconsolato del suo mento, avrebbero potuto scambiarla per una bambina che giocava in giardino. Augie aveva provato a immaginarsi che fosse così, ma una volta finito non c’era stato nessun pupazzo di neve, solo una grossa tomba.
Arrivati all’osservatorio, Iris salì dritta al terzo piano, mentre Augustine si fermò a posare il fucile in uno dei fabbricati. Le armi erano tutte in una costruzione non riscaldata, per evitare che lo sbalzo di temperatura le danneggiasse quando venivano portate fuori. Si ricordò che, quand’era arrivato all’avamposto, gli avevano mostrato un lubrificante speciale usato nell’Artico, per evitare che le pistole s’inceppassero, ma all’epoca a lui non poteva importare di meno. Prima di diventare uno scienziato, l’addetto all’armeria era stato un marine e l’amore con cui maneggiava le armi gli aveva fatto tornare in mente il padre. Lui gli aveva risposto, piuttosto brusco, che tanto lì non ci sarebbe mai andato.
Non appena Augie entrò nell’edificio principale, finalmente le gambe si concessero il lusso di cedere. Sprofondò su una sedia al primo piano e attese che i muscoli rispondessero di nuovo ai comandi del cervello. Ci volle quasi un’ora perché gli passassero i crampi. Il calore era ancora al di fuori della sua portata, in cima alle tre rampe di scale. Finalmente trovò la forza di alzarsi e trascinarsi di sopra. Quando mise piede nella sala controllo riscaldata, col cuore in tachicardia, collassò sul nido di tappetini e sacchi a pelo. Un pezzo per volta, e con sforzi sovrumani, si tolse gli stivali, poi il parka, infine il cappello e i guanti. Restò disteso e si chiese perché non si fosse limitato a spaventarlo, quel povero lupo, magari sparando in alto, per farlo scappare nella foresta. Pochi minuti dopo, si era già addormentato.
Quando si svegliò il sole stava già facendo capolino, allungando le sue dita luminose oltre le spesse finestre della stanza. L’orologio segnava mezzogiorno. Augustine restò disteso ancora a lungo, prima di alzarsi. Quando si affacciò, il sole aveva appena raggiunto lo zenit della sua corta giornata. Vide Iris seduta sul versante di una montagna lontana, oltre i fabbricati, che guardava l’orizzonte. I primi tempi, quelle sue scappatelle lo irritavano, era stato addirittura tentato di dirle di non allontanarsi troppo da sola, ma poi si era reso conto di non avere nessun diritto di farlo. Lei capiva la tundra meglio di lui. Lei lì si sentiva a casa più di quanto non si sarebbe mai sentito lui. Eppure... eppure proteggerla ormai rientrava nelle sue mansioni, no? A chi spettava, se non a lui? Nessuno poteva aiutarli né intervenire qualora lui avesse sbagliato qualcosa. Non aveva nemmeno Internet cui chiedere consiglio. Augie si sentì di nuovo invadere dalla paura, e di nuovo la scacciò; era un’emozione troppo strana e spiacevole per provarla a lungo. Fissò il proprio riflesso nel vetro, la pelle raggrinzita come un foglio appallottolato e poi riaperto. Sembrava ancora più vecchio e più stanco di quanto ricordasse.
Prese una barretta di cereali dalla dispensa e si sedette al tavolo preferito di Iris. La guida dell’Artico che lui le aveva dato era aperta sul piano a faccia in giù; aveva la costa segnata in una decina di punti. Augustine la prese e si ritrovò a fissare una foto del lupo artico. Lesse e rilesse il paragrafo riguardante la sua dentatura bianca – composta da quarantadue denti –, costringendosi a non guardare l’immagine dei cuccioli. Il lupo artico di solito non ha paura degli umani, vive in un habitat estremo e raramente entra in contatto con loro. Richiuse il volume. Quarantadue denti.
Iris era sempre lì fuori, immobile. Dopo che il sole fu scomparso dietro le montagne, Augie abbandonò la vecchia rivista di astrofisica con cui aveva cercato di distrarsi. Ormai aveva letto e riletto ogni giornale, rivista e libro rimasti nella torre di controllo. Si sentiva strano, come se la sua mente fosse un’estranea, intrappolata in un’onda di emozioni profonde cui non sapeva dare un nome, né voleva riconoscere, tantomeno guardarle in faccia. Chiuse gli occhi e adottò la solita strategia: immaginò la cupola azzurra del pianeta come l’avrebbe vista dall’altro lato dell’atmosfera, e il vuoto al di là di essa. Immaginò il resto del sistema solare, pianeta per pianeta, poi la Via Lattea, e ancora oltre, in attesa della meraviglia e del sollievo che avrebbero lavato via dalla sua mente tutto il resto... ma non arrivarono. L’unica cosa che riusciva a visualizzare era il proprio riflesso smunto nella finestra, il contorno più chiaro dei capelli bianchi e della barba ispida, le cavità in cui si sarebbero dovuti trovare i suoi occhi. Il lupo morto, la ragazzina che allungava la sua manina pallida verso quel muso pieno di denti... Era rimorso, si chiese, o codardia? Forse era malato. Si toccò la fronte, era molto calda. Ecco cos’era, era malato. Riusciva a sentire la febbre farsi strada sotto la pelle, surriscaldargli il sangue fino a farlo bollire. Sentì un ronzio nelle orecchie e una pressione dietro gli occhi che pulsava contro il cranio come un tamburo. Era questo, quindi? Era la fine? Pensò alla cassetta del pronto soccorso, giù nell’ufficio del direttore, al primo piano. Doveva andare a prenderla? Ne valeva la pena? Pensò a tutte le medicine che mancavano, alle conoscenze anatomiche che non possedeva, alle apparecchiature diagnostiche che non aveva e che comunque non sarebbe stato capace di utilizzare. Alla fine Augustine tornò nel suo giaciglio e immaginò che sarebbe stato il suo letto di morte. Prima di spegnersi pensò a Iris, ancora fuori, da sola nella tundra. Il sonno prevalse in fretta, come un’onda che gli investì il corpo dalla testa ai piedi, e poco prima che raggiungesse il cervello Augie si chiese se era così che si moriva. E cosa ne sarebbe stato di Iris se non si fosse mai risvegliato.