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Era una lotta contro il tempo. L’equipaggio dell’Aether ne aveva troppo: tutte quelle ore di giorno, tutte quelle ore di notte. Settimane, mesi da riempire. Senza sapere cosa li avrebbe aspettati sulla Terra, i loro compiti e la routine quotidiana si svuotarono di senso, diventarono inutili. Se non avrebbero più sentito la forza di gravità, perché insistere con le medicine e gli esercizi per ricordare al corpo il suo peso? Se non avrebbero potuto condividere le loro scoperte sui satelliti galileiani, perché continuare la ricerca? Se il loro pianeta e tutte le persone che conoscevano erano morti carbonizzati, o congelati, o evaporati, o malati, o in un’altra spiacevole incarnazione dell’estinzione, a chi sarebbe importato se loro fossero diventati negligenti o depressi? Per chi stavano cercando di tornare a casa? Cosa importava se mangiavano o dormivano troppo, o troppo poco? Non era meglio abbandonarsi alla disperazione? Non era una reazione più appropriata alla loro situazione?

Ogni cosa sembrava muoversi più lenta. Tra i membri dell’equipaggio salì l’apprensione: il peso dell’ignoto, della futilità. Sully si rese conto di prendere appunti più lentamente, di scrivere più lentamente, di muoversi meno, di pensare meno. All’inizio la curiosità del gruppo si era riaccesa, lottava per scoprire cosa fosse accaduto, ma presto aveva ceduto il passo a un’arrendevole disperazione. Non c’era modo di capirlo, nessun dato da esaminare, a parte l’assenza di dati. Alla loro Terra silenziosa mancavano ancora dieci mesi, un lungo viaggio verso una casa che forse non poteva più essere definita tale. La nostalgia s’impadronì di Sully, di tutti loro. Sentivano la mancanza delle persone, dei posti, degli oggetti che si erano lasciati alle spalle... cose che non avrebbero rivisto mai più, come iniziavano a temere. Sully pensava a sua figlia Lucy, così esuberante e vivace, un piccolo tornado dai capelli biondi e occhi castani che imperversava nella sua memoria proprio come faceva a casa. Rimpianse di aver portato con sé soltanto una foto, invece di un’intera scheda di memoria, ma aveva solo quella, già datata al momento della partenza. Che razza di madre non si porta almeno dieci foto della figlia? pensava. E poi partire per due anni proprio quando Lucy stava per entrare nella pubertà... Da quand’era sull’Aether, Sully aveva ricevuto solo video di colleghi. Sarebbero stati un tesoro da guardare e riguardare, ma non le era arrivato niente da Lucy, né ovviamente da Jack. All’inizio, l’allontanamento da parte della sua famiglia non le aveva spezzato il cuore; era stato solo quand’era uscita dall’atmosfera che, all’improvviso, il peso di quella tragedia le era ricaduto sulle spalle, come se fosse appena successo, anche se in realtà era una storia che andava avanti da anni. Cercava di immaginare le foto mancanti, i Natali e i compleanni in cui lei, Lucy e Jack erano andati a fare rafting in Colorado, prima del divorzio. Era una scena facile da riempire: un abete un po’ storto addobbato d’argento, il divano verde portato dal loro vecchio appartamento, lucine rosse in cucina, una fila di vasi dietro il lavandino, la Land Rover rossa pronta a partire. Erano le facce, quelle che faticava a ricordare.

Jack, con cui era stata sposata per dieci anni, separata da cinque. Sully cercava di visualizzare i suoi capelli, che secondo lei erano sempre troppo corti, e poi si sforzava di aggiungere i tratti del viso: gli occhi, verdi col contorno più scuro, adombrati da sopracciglia scure; il naso, un po’ adunco, che si era rotto troppe volte; la bocca, le rughe di espressione quando sorrideva; le labbra sottili; i bei denti. Pensava al giorno in cui si erano incontrati, al giorno del matrimonio, al giorno in cui lo aveva lasciato, cercando di ricostruire ogni minuto, ogni parola. Rivedeva le scene della loro vita insieme: il minuscolo appartamento di Toronto in cui abitavano quand’era rimasta incinta la prima volta, mentre stava finendo il dottorato e insegnava fisica delle particelle all’università, il loft in mattoncini con le enormi finestre in cui si erano trasferiti dopo l’aborto spontaneo. Lui ci era rimasto malissimo quando gli aveva detto di avere perso il bambino di cui avevano appena scoperto l’esistenza: era successo presto, alla sesta settimana, Sully non si era ancora abituata all’idea. Quando aveva sentito i crampi, aveva capito subito che era finita e, nel vedere il sangue sulle mutandine, aveva provato sollievo. Si era lavata, aveva preso quattro pasticche d’ibuprofene e si era chiesta come dirlo a Jack. Quel pomeriggio si era presa la testa tra le mani, cercando di sentire la stessa tristezza che vedeva dipinta sul viso di Jack. Ma non aveva sentito nulla. La luce che entrava nel salone dalle finestre a poco a poco si era affievolita, eppure loro erano rimasti lì, in silenzio, con le tende aperte e i vetri che diventavano enormi occhi scuri; occhi che guardavano dentro, o fuori... chissà.

Il loro matrimonio in comune, l’anno seguente, i corridoi grigi e le panche di legno scuro e lucido ben allineate, le altre coppie sedute in attesa. La nascita di Lucy, quattro anni dopo, in una camera di ospedale verde menta. La gioia inesauribile sul volto di Jack quando l’aveva presa in braccio, l’inequivocabile paura nel cuore di Sully quando lui gliela aveva passata di nuovo. I primi passi della piccola, sul linoleum della cucina, le prime parole – No, papà – quando avevano cercato di lasciarla alla babysitter. Il giorno in cui il Programma Spaziale l’aveva invitata a partecipare al programma di addestramento per aspiranti astronauti, il giorno in cui aveva lasciato Jack e Lucy, che allora aveva cinque anni, per andare a Houston. All’inizio ripensava solo alle pietre miliari, ai giorni che avevano cambiato tutto, ma poi col passare del tempo le erano tornate in mente anche le piccole cose.

I capelli di Lucy, quant’erano biondi quand’era piccola e come si erano scuriti poi. Le vene che pulsavano in rilievo sotto la pelle quasi traslucida quand’era appena nata. Il petto largo di Jack, le camicie portate col colletto sbottonato e con le maniche arrotolate, mai una cravatta, rarissimamente la giacca. La sua clavicola, la peluria sul petto, le inevitabili tracce di gesso sulla maglietta. Le pentole di rame appese sopra la cucina a gas della casa di Vancouver in cui avevano traslocato dopo che Sully aveva finito il dottorato; il colore della porta d’ingresso, lampone; le lenzuola preferite di Lucy, blu notte con le stelle gialle.

Tutti i membri dell’equipaggio dell’Aether erano persi nel loro passato, ogni scompartimento una bolla di memoria. Erano tutti assorti in cose lontanissime dal posto in cui si trovavano, anche quando si scambiavano quelle poche, inevitabili parole, faticavano a concentrarsi sulla cupa necessità del presente. A volte Sully guardava i compagni e cercava d’immaginarsi a cosa stessero pensando. Prima del lancio, tutto l’equipaggio aveva passato due anni a Houston; si erano avvicinati, ma le cose che uno dice a un collega durante la simulazione di una catastrofe e quelle che uno pensa quando il mondo finisce e tu sei lontano milioni di anni luce sono ben diverse.

 

 

A Houston, circa un anno prima del lancio, Sully aveva visto Ivanov che cenava con la sua famiglia in un caffè all’aperto. Lei aveva parcheggiato dall’altra parte della strada e li guardava mentre infilava le monetine nel parchimetro. Aveva pensato di andare a salutarli, poi però era rimasta dov’era. Sembravano tutti così radiosi, belli come il sole, cinque teste bionde che splendevano come denti di leone. Aveva visto Ivanov allungarsi per tagliare qualcosa nel piatto della figlia più piccola, la moglie che gesticolava con le posate, lui e i bambini che ridevano di gusto con la bocca ancora piena di cibo.

Poi era arrivato un cameriere, si era fermato al loro tavolo con un pirottino, e quando lo aveva posato vicino al gomito di Ivanov i bambini erano esplosi in un coro di «grazie». Sully li aveva sentiti dall’altro lato della strada. Il ragazzo aveva posato altri piatti, poi se n’era andato raggiante. Lo sguardo di Sully aveva indugiato sulla moglie di Ivanov, che aveva continuato a parlare agitando una forchetta carica d’insalata. Si era chiesta se lei fosse mai sembrata così felice con la sua famiglia, così presente. Aveva indugiato davanti al parchimetro e si era accorta che stava invadendo un momento che non le apparteneva, quindi aveva proseguito verso il fruttivendolo. Sul lavoro Ivanov era sempre molto serio, ma non quella sera, non con la sua famiglia. Sully aveva scelto le sue pesche e, sentendo il peso caldo di un frutto e la sua peluria delicata tra le mani, aveva ripensato alla testolina di Lucy, appena nata.

 

 

Una sera, sei settimane dopo il blackout, Ivanov tornò tardi alla Terra in miniatura, dopo che alcuni compagni avevano già cenato. Andò dritto verso il suo scompartimento e si tirò la tendina alle spalle. Thebes rimase a guardarla per un attimo, poi bussò sullo stipite. «Ivanov, se ti interessa è rimasto un po’ di stufato...»

Seduto come al solito davanti alla consolle, Tal sbuffò. «Tanto non esce», disse, con una nota di sarcasmo nella voce. «È troppo impegnato a piangere.»

Nel suo scompartimento, Sully smise di prendere appunti. Quindi non se l’era immaginato. Ci fu un attimo di silenzio, poi Ivanov riaprì la tendina e si scagliò contro Tal. Prima che quest’ultimo se ne rendesse conto, Ivanov lo aveva già afferrato per la tuta e sbattuto a terra. Tal sbraitò qualcosa in ebraico e spezzò la presa del compagno ruotandogli un polso. Intervenne Thebes, che trascinò Tal verso il divano. Ivanov sputò per terra, la faccia paonazza, e uscì dalla centrifuga. Harper comparve nell’attimo in cui Tal prendeva a calci il controller. Nella Terra in miniatura tornò la calma. Sully era ancora seduta sul letto, incerta sul da farsi, se dovesse dire qualcosa. Harper e Thebes iniziarono a confabulare, dopodiché Thebes uscì, probabilmente per andare a parlare con Ivanov. Harper si passò una mano sul mento, poi andò verso lo scompartimento di Tal. Sully tirò la propria tendina per non origliare.

All’inizio, quando le comunicazioni con la Terra erano ancora chiare e facili, Tal passava ore a parlare con la moglie e i figli. Al momento del lancio, i ragazzi avevano otto e undici anni. Poco prima della partenza, avevano dato una festicciola per loro al centro di addestramento di Houston, visto che compivano gli anni a una settimana di distanza. A casa, i figli giocavano agli stessi videogame del padre, così Tal si appuntava i punteggi più alti, per confrontarli durante le videochiamate. Dopo, quando il ritardo temporale era aumentato al punto di poter solo inviare messaggi, ma non conversare, la competizione era proseguita comunque. Qualche giorno prima, Tal aveva battuto il record dei figli in un gioco di auto. Sully lo aveva visto alzare le braccia al cielo con sguardo trionfante, poi il suo viso si era adombrato, il respiro si era fatto affannoso, il controller gli era caduto dalle mani. Sully gli aveva appoggiato una mano sulla schiena e lui aveva posato la testa contro la spalla di lei, una cosa che non aveva mai fatto. Non lo aveva mai visto così vulnerabile.

«Ho vinto», aveva detto contro la manica della sua tuta, ed erano rimasti seduti sul divano con la canzoncina della vittoria che continuava a risuonare ancora e ancora, in loop, striduli squilli di tromba sopra un basso ripetitivo e profondo.

 

 

Verso la fine del periodo di addestramento, e con l’approssimarsi del lancio, l’entusiasmo tra i membri dell’equipaggio era aumentato, così come il loro cameratismo. Un venerdì sera, dopo aver passato la giornata a simulare atterraggi sui satelliti di Giove, erano usciti a bere tutti insieme. Thebes si era messo a buttare monetine nel juke-box, mentre Devi era rimasta alle sue spalle, bevendo dalla cannuccia un succo di mirtilli rossi. Al bancone, Tal, Ivanov e Harper avevano allineato bicchierini di tequila e Tal aveva insistito che dovevano berne tanti quanti i satelliti di Giove, quindi quattro a testa. Sully era arrivata tardi e per un attimo si era fermata a guardare la scena dall’ingresso: il barista che tagliava fette di lime mentre partiva la prima canzone di Thebes. Poi Harper l’aveva chiamata e ordinato uno shot anche per lei. «Devi rimetterti in pari!» aveva detto, mettendole davanti il bicchierino. «Questo è per Callisto.»

Lei lo aveva mandato giù, senza la fetta di lime.

Tal aveva sorriso. «Grande Sullivan! Dai, un altro!»

Ivanov aveva sbattuto il bicchiere sul bancone. «Esatto!» aveva esclamato, rosso in viso.

Tal era incontenibile, si dondolava sullo sgabello continuando a elencare i satelliti di Giove. «Ganimede!»

Sully aveva buttato giù un altro shot. «Oh, sì, con quella sua dolce magnetosfera...»

Ivanov aveva annuito con aria solenne, ma anche lui era emozionato, a modo suo. Lo erano tutti.

Nonostante la confusione, il grido di «Ganimede!» era arrivato fino a Thebes e Devi, che erano ancora vicini al juke-box. Era ancora presto e il locale era relativamente tranquillo, ma quando Sully si era guardata intorno, qualche ora dopo, si era resa conto che ormai era pieno e lei ubriaca. Devi e Harper ballavano accanto al juke-box, Devi con le ginocchia piegate e le braccia alzate accanto alla testa, Harper che alternava il twist a qualche mossa hip hop. Lei, Tal, Ivanov e Thebes erano ancora al bancone. Tal aveva fatto una battuta e rideva così tanto che gli era quasi uscita la birra dal naso. Ivanov si era avvicinato a Sully, posandole il braccio sulla spalla.

«Ma chi è Yuri?» le aveva chiesto, perplesso.

Sully e Thebes si erano scambiati un’occhiata, incerti se ridere o cambiare argomento. Era capitato che Tal parlasse con loro di Yuri, ma mai in presenza di Ivanov.

«Sì, sai, lo scarafaggio che vive nel tuo culo», aveva detto Tal, ridendo così forte da non riuscire più a parlare. «Yuri Gagarin. Come se la passa?»

Ivanov aveva barcollato, il braccio ancora posato sulla spalla di Sully. Aveva fatto una lunga pausa. Poi aveva detto, in tono alto e allegro: «Sta alla grande! Ma starebbe ancora meglio se non fosse costretto a vedere la tua brutta faccia ogni santo giorno».

Harper le aveva dato un colpetto sulla schiena e Sully si era girata verso di lui: aveva il viso lucido di sudore. «Ballate con noi? È la nostra canzone.»

Sully aveva annuito. L’invito era rivolto a tutta la squadra eppure, mentre era scivolata giù dallo sgabello e poi si era fatta largo tra la calca, muovendosi a tempo sulle note di Space Oddity, per un attimo aveva pensato che fosse rivolto solo a lei. La nostra canzone. La voce di David Bowie aveva riempito il locale, Harper l’aveva guidata verso Devi, che stava già ballando in pista. Ogni tanto si era girato per essere sicuro che lei lo stesse seguendo, poi l’aveva presa per mano e spinta in avanti, al centro.

 

 

Due settimane dopo la zuffa tra Tal e Ivanov, mentre stavano ancora attraversando la fascia degli asteroidi, una notte Sully fu svegliata da Devi che la chiamava nel buio. «Sei sveglia?» bisbigliò.

Sully si sfregò gli occhi e aprì la tendina, facendo segno a Devi di entrare. Si sdraiarono fianco a fianco, lasciando che il calore corporeo calmasse i loro nervi, che facevano scintille come cavi dell’alta tensione non appena si spegnevano le luci e non c’era altro da fare che pensare ossessivamente al futuro ignoto o sprofondare nel passato. Devi era così vicina che Sully sentì il suo corpo tremare per un singhiozzo trattenuto. Avrebbe voluto stringerla tra le braccia e dirle che sarebbe andato tutto bene, ma non poteva mentirle, né sapeva come connettersi con una persona così disconnessa. Col passare delle settimane, Devi era diventata sempre più silenziosa, certi giorni non diceva nemmeno una parola. Così Sully restò ferma, limitandosi a girare un piede di lato, in modo che sfiorasse quello di Devi.

Stava per riaddormentarsi, quando Devi cominciò a parlare: «Sai, continuo a fare uno strano sogno. Inizia coi colori e i profumi della cucina di mia madre, a Calcutta; è tutto sfocato, a parte l’odore di spezie. Poi compaiono i miei fratelli, di fronte a me, sgomitano per prendere riso e dal con le mani... poi vedo i miei genitori, in fondo al tavolo, che sorseggiano chai, sorridono, ci guardano. Sempre lo stesso sogno, all’infinito. Noi cinque lì seduti a mangiare. Sembra durare per ore, poi a un certo punto svanisce. All’improvviso mi rendo conto di essere sola, e mi sveglio». Un lungo, profondissimo sospiro. «Quando inizia è bellissimo, poi però, quando apro gli occhi e mi ritrovo qui e so che non li rivedrò mai più... come può un sogno fare così male?»

Alla fine si riaddormentarono entrambe, e nella notte scivolarono l’una verso l’altra, come se restare unite le rendesse più forti. Al risveglio, Sully vide il volto di Devi rigato dalle lacrime che le scorrevano sul naso per poi cadere sul cuscino. Ripensò a quando Lucy si infilava nel suo letto, di notte, dopo un incubo. Il suo corpicino caldo, avvolto nel pigiama di flanella, il viso tiepido e umido, il respiro affannoso. Cercò di ricordarsi cosa dicesse alla figlia in quei casi, che parole usasse per rassicurarla, ma non ci riusciva. Era sempre stato Jack a prenderla e riportarla nel suo letto. Sully si avvicinò a Devi e scoppiò a piangere.

 

 

A Sully, Devi era piaciuta subito, fin dal loro primo incontro a Houston.

Devi era una ragazza silenziosa. La bassa statura e gli enormi occhi scuri la facevano sembrare giovane e innocente, persino un po’ confusa, in netto contrasto con la mente analitica che macinava pensieri sotto la superficie. Un giorno, all’inizio del loro addestramento sott’acqua, Sully se l’era ritrovata di fronte, che fissava l’argano di una delle due gru usate per immergere e tirare fuori dall’acqua gli astronauti. Thebes e Tal erano ancora sott’acqua, stavano finendo una simulazione di attività extra veicolare, mentre loro due sarebbero state le prossime. All’improvviso Devi era scoppiata a ridere e aveva distolto gli occhi dall’argano per rivolgerli alla piscina. «Incredibile», aveva mormorato.

«Cosa?» aveva replicato Sully.

«Mio padre ne ha comprato uno uguale per il suo magazzino», aveva spiegato. «Proprio lo stesso. Glielo devo dire, sarà orgogliosissimo della sua scelta.»

La superficie della piscina si era increspata in un gorgoglio di bolle. Sott’acqua brillava l’enorme modello dell’Aether, illuminato dalle luci. Le bandiere appese lungo le pareti si riflettevano nella piscina; onde morbide sfioravano il bordo, mescolando i colori sgargianti delle varie nazioni. Sully aveva guardato sotto e visto uno degli astronauti che iniziava a risalire, mentre due sub agganciavano l’ingombrante tuta bianca all’argano sopra la sua testa. Quando la gru era entrata in azione, Devi aveva alzato gli occhi, mentre quelli di Sully erano rimasti fissi sul compagno.

«Incredibile», aveva ripetuto Devi.

Il guscio bianco dell’elmo di Tal era affiorato in superficie, e Sully aveva buttato fuori l’aria: non si era accorta di star trattenendo il respiro.

 

 

Mentre attraversavano la fascia degli asteroidi, ancora a mesi di distanza da casa, iniziarono a perdersi. Tutti tranne Thebes: lui continuava a guidare Devi nel suo lavoro, anche se lei dormiva sempre meno e aveva cali di attenzione sempre più gravi. Ogni tanto scollava Tal dalla consolle e lo spingeva nella serra, per fargli raccogliere le verdure. Passava da Ivanov in laboratorio per vedere cosa stesse combinando, gli poneva domande gentili e puntuali, e gli lasciava qualcosa da mangiare. Sully lo osservava con curiosità e ammirazione. Thebes si sedeva a chiacchierare con Harper, e bastava quello perché poi il comandante sembrasse molto più rilassato. Thebes rimaneva forte, ci sperava ancora, ma era l’unico. E non poteva salvarli da loro stessi, solo cercare di rendere le cose più facili. Capiva cosa stesse succedendo molto meglio del resto della squadra.

Una mattina, dopo che il sole era sorto sulla Terra in miniatura, Sully era al tavolo della cucina con una tazza di caffè tiepido. Di fronte a lei, Thebes leggeva, come sempre. Se non lavorava, leggeva. Quanto al resto dell’equipaggio, o dormivano o lavoravano nel settore a gravità zero. Erano soli, la Terra in miniatura era avvolta nel silenzio, eppure Sully bisbigliò per domandargli come fosse morta la sua famiglia. Conosceva già la risposta, ma non erano certo i dettagli dell’incidente a interessarla, era qualcos’altro, che non sapeva come chiedergli. Thebes fece un’orecchia alla pagina della Mano sinistra delle tenebre e posò il libro sul tavolo. «Perché lo vuoi sapere?»

«Per capire», rispose, cercando di nascondere la stridula nota di disperazione che si era insinuata nella voce. «Per capire come fai. Come riesci a essere ancora qui, ancora tu, a non andare in pezzi...»

Thebes la scrutò. Si passò le mani tra i capelli cortissimi, sfiorando le orecchie coi pollici. Ormai il grigio non era più solo sulle tempie, ma anche più in alto, come un’edera che si arrampicava su per un vecchio muro in mattoni. Da quando si erano conosciuti, era imbiancato sempre di più, al punto che ormai era brizzolato. Le guance però erano lisce. Gli altri uomini della squadra avevano smesso di radersi, erano arruffati e trasandati, ma non lui. Il Thebes del presente era molto, molto simile al Thebes del passato: gli altri erano cambiati, erano diventati più piccoli, più scuri, più rigidi. Lui invece era esattamente come il giorno della partenza.

Le sorrise, mostrando la fessura tra gli incisivi. «Sai, forse io ci sto ancora con la testa perché non ho nessun altro posto in cui andare. Ci ho messo tantissimo tempo per farmene una ragione. In realtà io sono a pezzi tanto quanto te, ma ecco... cerco di tenerli separati. Non so come spiegartelo... ragiono un pezzo alla volta. Vedrai, imparerai anche tu.»

«E se io... anzi, meglio, se noi non imparassimo?»

«Be’, pace.» Un’alzata di spalle. La sua voce era una specie di ronzio basso e profondo, in perfetta armonia con quello della centrifuga, il suo accento sudafricano morbido e fluido, con le sillabe che si univano nella bocca come una melodia. «Sai, ognuno reagisce in modo diverso. Ma tu stai imparando: sei lontanissima, e poi all’improvviso di nuovo qui a chiedermi queste cose. Davvero vuoi sapere come faccio, che tecnica uso? Be’, per esempio mi lavo i denti e penso solo a quello, al fatto che sto lavando i denti. Cambio il filtro dell’aria e penso solo a quello, a cambiare il filtro. Quando mi sento solo inizio a parlare con qualcuno, e aiuta sia me sia lui. Dobbiamo vivere il momento, Sully, il qui e ora. Non possiamo aiutare la gente sulla Terra con la forza del pensiero.»

Lei sospirò, poco convinta.

«Non era questo che volevi sentirti dire, vero?» Piegò la bocca in un sorriso malinconico, la tristezza annidata nelle ombre scure sotto gli occhi.

«No, ci mancherebbe. È solo che, ecco... è dura.»

Thebes annuì. «Lo so, ma tu sei uno scienziato e sai come funzionano queste cose. Noi studiamo l’universo per sapere, ma in fondo l’unica cosa di cui siamo certi è che tutte le cose finiscono, tutto tranne la morte e il tempo. Lo so, non è facile sentirselo ricordare.» Posò una mano sulla sua. «Ma dimenticarlo è peggio.»

 

 

Gordon Harper era stato l’ultimo membro dell’equipaggio ad arrivare al centro di addestramento di Houston, quando tutti gli altri erano già lì da una settimana. Lui aveva svolto la prima fase di orientamento da solo, in Florida, per prepararsi al suo ruolo di comando. Quand’era arrivato, gli altri avevano già legato. Harper aveva guidato una decina di missioni, ma quella volta era diverso. Li aveva raggiunti a metà mattina, nel Neutral Buoyancy Lab, il laboratorio di simulazione dell’attività extra veicolare, mentre loro s’immergevano a turno nella piscina per allenarsi alle riparazioni nello spazio sul modello dell’Aether. Quand’era entrato nell’impianto, Sully e Devi erano sotto, e quand’erano riemerse lo avevano trovato insieme con gli altri, che rideva delle battute di Tal, faceva domande a Ivanov riguardo a un articolo di astrogeologia che aveva scritto e si congratulava col suo vecchio amico Thebes.

Mentre la tiravano fuori, prima dalla piscina e poi dalla tuta – una procedura fastidiosamente lunga –, Sully aveva osservato Harper con curiosità mista ad apprensione. Alla fine, però, le era sembrato un buon comandante, uno che preferiva ascoltare, più che parlare, capace di coinvolgere tutti nella conversazione. Gli altri sorridevano, a parte Ivanov, ma lui non contava. Era evidente che si stessero divertendo, Harper era riuscito a metterli a proprio agio.

Sully aveva già visto delle foto di lui che fluttuava nella Stazione Spaziale Internazionale o che posava in pista con indosso la sua tuta arancione, ma le era sembrato più vecchio, la faccia più spigolosa, il colorito più scuro. Era più grosso di quanto si fosse aspettata, e più alto degli altri tre: circa cinque centimetri rispetto a Ivanov, una decina rispetto a Thebes, almeno venti rispetto a Tal.

«Allora, come va l’addestramento?» aveva chiesto. «Ve la state cavando bene?»

Ivanov e Thebes avevano annuito, Tal aveva fatto una battuta che Sully non era riuscita a sentire. Avevano riso, e lei non vedeva l’ora che i tecnici la sganciassero, voleva raggiungere gli altri.

Harper indossava la stessa tuta azzurra che portavano tutti durante l’addestramento, con una grande bandiera americana cucita sulla spalla sinistra e il logo ancora più grande dell’Air Force all’altezza del cuore. Aveva le mani in tasca e le maniche arrotolate fino ai gomiti. I capelli erano corti, color sabbia, e la pelle del collo e della nuca era più chiara, come se fosse andato dal barbiere dopo aver preso il sole.

Quando finalmente si era liberata della tuta, Sully si era avvicinata agli altri. Nonostante l’impazienza, era stata subito sopraffatta dalla timidezza. Aveva fissato gli occhi grigio- azzurri di Harper il più a lungo possibile, ma era stata la prima a sviare lo sguardo: qualcosa l’aveva agitata, come se Harper fosse riuscito a vedere oltre la sua pelle, fin dentro il muscolo del cuore che le batteva all’impazzata nella gabbia toracica.

«Ah, tu devi essere la specialista Sullivan», aveva detto prima che lei potesse aprire bocca. «È un onore averti nella mia squadra, non vedo l’ora di sapere cosa hai in mente per la postazione radio.»

Si erano stretti la mano e lei aveva notato l’orologio che lui portava all’interno del polso. Antico, cassa dorata e cinturino in vera pelle. La sua mano grande, calda e asciutta, la presa salda ma gentile.

«Grazie, comandante, è un onore per me conoscerla.»

Lui le aveva lasciato la mano. Sully aveva sempre trovato che portare l’orologio così fosse un segno di riservatezza, come se guardare l’ora costringesse a rivelare una parte del corpo troppo intima: esporre il palmo, mostrare il polso.

Poco dopo, era risuonato un fischio e l’equipaggio era stato fatto accomodare in una delle sale conferenze. La squadra si era seduta intorno al lungo tavolo lucido, mentre Inger Klaus, il direttore del Programma Spaziale nonché capo della commissione che li aveva selezionati per l’Aether, aveva presentato loro il comandante Harper. Aveva parlato un quarto d’ora buono della sua carriera, elencando talmente tanti premi e onorificenze ricevuti che alla fine Harper era rosso come un peperone e tutti gli altri non vedevano l’ora che la donna si facesse da parte. Quando Klaus era finalmente scesa dal podio, Harper le si era avvicinato e le aveva stretto la mano. Poi si era rivolto alla squadra. Cosa aveva detto? Sully si sforzò di ricordare. Aveva portato con sé degli appunti, pensò e, sebbene fosse sembrato a suo agio in piscina, in quel momento era parso nervoso. «Sono onorato di prestare servizio con voi. Andremo verso l’ignoto insieme, come squadra, come specie, come individui.»

Sull’Aether, anche dopo il blackout delle comunicazioni, Harper era la loro roccia, il legame che li faceva sentire un po’ più vicini alla Terra. Aveva chiesto a Devi di preparare dei tutorial per spiegare il funzionamento dell’astronave, tempestandola di domande sull’impianto di supporto vitale, sugli schermi per le radiazioni e sulla centrifuga per la simulazione della gravità nella Terra in miniatura, cercando di riportarla nel presente. Giocava con Tal e ascoltava i suoi consigli, fingendo di prendere i videogame sul serio quanto lui. Perfino Ivanov si comportava in modo civile quando Harper andava a trovarlo in laboratorio, gli mostrava il suo lavoro e gliene spiegava ogni implicazione con solo una punta di condiscendenza nella voce. La sua vecchia amicizia con Thebes diventava ogni giorno più forte, Sully lo vedeva assorbire forza dalla stoica calma dell’altro, incanalarla nel proprio corpo per poi trasmetterla agli altri. Avevano compiuto diverse missioni insieme, ed erano sempre tornati. Erano un’ancora di salvezza contro la follia.

Con Sully, Harper monitorava le sonde nella postazione radio, oppure giocava a carte, o la ritraeva mentre controllava i dati provenienti da Giove. Harper non doveva nemmeno impegnarsi molto, con lei, perché a Sully piaceva la sua compagnia. Anzi, non vedeva l’ora che arrivasse. Passavano ore e ore seduti al tavolo della cucina della Terra in miniatura. A volte lei gli leggeva passi di riviste scientifiche mentre lui si allenava, ironizzando sui passaggi troppo pomposi. Lei lo assecondava, anche se sospettava che facesse tutti quei commenti più per distrarla che altro. Ogni tanto parlavano di casa, delle cose di cui sentivano la mancanza, ma il concetto di casa ormai era diventato una variabile incerta e pericolosa. Era il piombino che faceva riprecipitare ogni barlume di speranza verso il fondo gelido e oscuro della consapevolezza.

A poco a poco, Sully si ritrovò a pensare sempre più spesso a quello che le aveva detto Thebes, su come sopravvivere quando non si ha più niente da perdere. Tal, Ivanov e Devi ormai avevano iniziato a dare i numeri, a vivere di ricordi e proiezioni, non erano mai del tutto presenti nemmeno quando lei cercava di parlarci. Sully faceva di tutto per non finire come loro; cercava di lavarsi i denti pensando solo a come lavarsi i denti, cercava di non pensare alla sua casa a Vancouver, al profumo del dopobarba di Jack, a Lucy che schizzava acqua dalla vasca da bagno mentre lei sistemava nei cassetti la biancheria pulita e piegata alla bell’e meglio. Quando si accorgeva di star scivolando in un altro anno, in un altro luogo, contava fino a dieci e tornava a bordo dell’Aether, nella fascia degli asteroidi, in rotta verso la loro Terra silenziosa. Metteva via gli appunti della giornata, spegneva le apparecchiature e fluttuava verso l’ingresso della centrifuga. Allora i muscoli tornavano pesanti e lei sentiva il cibo che scendeva fino allo stomaco, la treccia che rimbalzava contro la schiena. Si sentiva a casa, l’unica casa che contava in quel momento. Se era fortunata, nella Terra in miniatura trovava Harper, seduto al tavolo, che mischiava le carte. «Dai, vieni che ti do una bella ripassata», le diceva.

Lei si sedeva e iniziavano a giocare.