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«Ma cosa cazzo hai combinato?» gridò Ivanov a Tal, che teneva il tablet come un’arma. Le loro voci rimbombavano nella centrifuga, attirando gli altri.

«Non è colpa mia, io non ho fatto niente!» gridò Tal con la faccia paonazza. «Ho guardato questo schermo per tutta la mattina, e non c’era un cazzo! Nessun detrito, nessun asteroide... niente di niente nel raggio di chilometri!»

«Be’, però qualcosa ha urtato l’antenna, o sbaglio? Forse, visto che siamo nella fascia principale degli asteroidi, sarà stato un cazzo di asteroide, no? Oppure pensi che sia semplicemente caduta dall’astronave?»

«Basta, adesso finitela», intervenne Harper.

Tal lanciò il tablet contro il suo scompartimento, poi andò verso la cucina, voltando le spalle al gruppo per cercare di ricomporsi. Le vene del collo di Ivanov erano ancora gonfie, ma lui non disse altro, limitandosi a incrociare le braccia.

Harper si alzò e raddrizzò le spalle, impettito, come se dovesse affermare il suo ruolo di comandante anche fisicamente davanti all’equipaggio. «Voglio che ci concentriamo su come riparare le nostre apparecchiature di comunicazione. In questo momento, non me ne frega un cazzo di chi sia stata la colpa dell’incidente, a meno che questa informazione non torni utile al nostro scopo. Appurato che recuperarla è impossibile, quali altre opzioni abbiamo?»

La squadra restò zitta, gli occhi fissi sul pavimento, Tal sempre di spalle. Sully sentiva Ivanov digrignare i denti, Thebes far scrocchiare le dita, Devi disegnare cerchi per terra con l’alluce.

«Quali altre opzioni abbiamo?» insistette Harper, in tono più duro. «Datevi una mossa.»

«Potremmo costruire un’antenna nuova», propose Sully. «Credo di avere tutti i componenti che ci servono, soprattutto se usiamo il riflettore parabolico del sistema di atterraggio. Non avrebbe un guadagno così alto, ma dovrebbe funzionare.»

Thebes intrecciò le dita e annuì. «È fattibile. Però l’installazione richiederà molta attività extra veicolare, e almeno due passeggiate nello spazio, una di preparazione, l’altra per l’installazione vera e propria. E questo comporterà dei rischi. Penso che dovremmo farlo, ma senza fretta. Tanto dalla Terra non arriva niente comunque.»

«Hai ragione», disse Sully. «Gli aggiornamenti delle sonde andranno persi finché i ricevitori resteranno fuori uso, ma al momento questo è l’ultimo dei nostri problemi. Tra l’altro, non sono nemmeno sicura che il nuovo sistema sarà abbastanza potente da captarne i segnali, e nel frattempo dalla Terra non arriva nulla: nessun disturbo, nessuna attività satellitare. Niente. È da un po’ che la monitoro. È un silenzio inquietante. Per cui, sì, sono dell’idea di fare le cose con calma e per bene.»

Tal finalmente si rigirò verso il gruppo. «Se mi date qualche giorno, potrei provare ad aumentare la sensibilità del radar. Non so se ce la faccio, ma, insomma, prima di mandare là fuori qualcuno sarebbe meglio avere un’idea della quantità di micrometeoriti che ci aspetta.»

Ivanov serrò di nuovo i denti, facendo venire i brividi a Sully. Devi non aveva detto ancora nulla.

Harper sospirò e si passò le mani tra i capelli; mentre rifletteva, sbatté un paio di volte la lingua contro i denti. Incrociò le braccia, le sciolse. Alla fine prese la parola: «Bene, allora cerchiamo di rimediare al danno dall’interno, costruendo una nuova antenna. Sullivan, Devi, Thebes, vorrei che ve ne occupaste insieme. Sully, non ti preoccupare per le sonde di Giove, se riusciremo a recuperare il segnale bene, altrimenti pace, la nostra priorità ora è la Terra. Tal, vorrei che tu invece lavorassi al radar, cerca di capire perché non ha rilevato nulla e cosa possiamo fare per evitare ulteriori sorprese. Ivanov, io e te invece faremo una stima precisa dei danni grazie alle telecamere esterne. Grazie a tutti. Fate le cose con calma e per bene... ma, insomma, vediamo di darci una mossa».

Devi non aveva detto una parola dall’inizio della riunione e Sully non era certa che avesse ascoltato davvero. Tuttavia, non appena lasciarono la centrifuga per andare a dare un’occhiata alle apparecchiature del modulo lunare, Devi si girò verso di lei e partì a raffica con un sacco d’idee riguardo alla nuova antenna. Davanti a quel flusso di coscienza ininterrotto, Sully tirò un sospiro di sollievo. Se c’era una persona capace di far funzionare il loro piano, quella era Devi.

 

 

Finalmente c’era di nuovo qualcosa da fare. Qualcosa d’importante. Quattro mesi dopo aver lasciato lo spazio di Giove, l’Aether tornò a brulicare di attività. Sully, Devi e Thebes iniziarono a saccheggiare l’astronave a caccia di componenti che si potessero sacrificare. Presero la parabola dal modulo di atterraggio lunare, mentre nella postazione radio trovarono diversi pezzi di ricambio. Erano già a buon punto quando Ivanov e Harper arrivarono col resoconto preciso dei danni. Sully e gli ingegneri si erano messi a lavorare al tavolo della Terra in miniatura, in modo che gli attrezzi non fluttuassero in giro.

Erano ancora impegnati quando le luci principali iniziarono ad abbassarsi, segnalando la fine della giornata. I LED dei loro scompartimenti si accesero, dando alla centrifuga un’atmosfera da lume di candela. Gli orologi segnavano mezzanotte, ma i vincoli del tempo si erano ormai allentati. Erano stanchi, ma anche rinvigoriti. L’incidente li aveva risvegliati, ricatapultati nel momento presente. Finalmente avevano qualcosa da fare, una cosa cui prestare attenzione. Perfino Ivanov si era ammorbidito per l’occasione, era più gentile di quanto non fosse da mesi.

Della costruzione vera e propria si stavano occupando soprattutto Sully e Devi, mentre Thebes passava loro gli attrezzi e preparava i pezzi di cui avevano bisogno.

«Trapano», diceva Devi, e Thebes glielo metteva in mano ancora prima che lei alzasse gli occhi.

«Tronchese», diceva Sully, e lui le era subito accanto.

La costruzione della nuova antenna procedeva più rapidamente di qualunque altra cosa avessero fatto da quando avevano preparato i sopralluoghi sui satelliti galileiani. Dopo che Thebes e Devi se ne furono andati, Sully restò al tavolo per un’altra ora a fare piccoli aggiustamenti, ma soprattutto a riflettere. Tal era sul divano, chino su un taccuino pieno di calcoli complicatissimi, ogni tanto armeggiava col tablet che aveva in grembo. Harper e Ivanov chiacchieravano vicino al bagno. Harper disse qualcosa che Sully non riuscì a sentire, e sulle labbra dell’altro affiorò un sorriso sincero. Poi Ivanov posò la mano sulla spalla del comandante e scomparve nel bagno, mentre Harper si avviò verso il proprio scompartimento. Ivanov aveva lasciato la sua tendina aperta, notò Sully. Dentro c’era una marea di foto che ritraevano faccini rosei e teste biondissime: la sua famiglia. Ivanov tornò prima del previsto e la beccò a curiosare. Lei arrossì, pronta a essere presa a male parole, ma lui non si arrabbiò. «Che dici, forse sono un po’ troppe?»

Sully scosse la testa. «Scherzi? Secondo me è perfetto, io mi sono pentita di aver portato così poche cose da casa... ecco, non immaginavo che mi sarebbe venuta tanta voglia di rivederle.»

«Tu hai una figlia.» Era più un’affermazione che una domanda. «E tuo marito... non ha capito, vero?»

Sully restò di stucco, tanto per la sua sfrontatezza quanto per la perspicacia. Ivanov la capiva, capiva il nocciolo della sua essenza, quell’aspetto fondamentale di lei, e la cosa la sorprendeva. Non le rivolgeva la parola da settimane, eppure l’aveva inquadrata meglio di quanto riuscisse a fare lei stessa. Si ricordò della sera in cui lo aveva visto cenare con la sua famiglia, a Houston, in quel caffè all’aperto, la tenerezza con cui aveva tagliato il cibo alla figlia, la sua attenzione mentre la moglie gli raccontava una storia, l’amore dipinto sui loro volti.

«No», rispose Sully.

«Nemmeno mia moglie lo capiva, però ci provava, e io per questo mi sento fortunato.» Le diede un colpetto sul braccio. «Non tutti hanno la vocazione», aggiunse con un’alzata di spalle. «Credo che per gli altri sia difficile da comprendere. Buonanotte.» Si mise a letto e tirò la tendina.

L’unica fotografia di Lucy sembrava minuscola sulla parete, lo spazio vuoto la circondava come un oceano. Sully sfiorò il viso della figlia, già pieno d’impronte. Spense la luce e restò distesa nel buio ma, anche con gli occhi chiusi, dietro le palpebre, continuò a vedere quell’immagine. Le faceva male. Era così elettrizzata dal nuovo incarico che era certa di non riuscire a addormentarsi. Invece alla fine cedette, e sognò lucciole vestite da ragazzine.

 

 

La luce dell’alba oltre la tendina la strappò ai suoi sogni, ma erano passate solo poche ore da quando era andata a dormire. Sully chiuse gli occhi e ignorò la sveglia, e quando li riaprì erano ormai le undici. S’infilò la tuta e si spazzolò i capelli, con la mente già alla nuova antenna. Trovò Harper seduto al tavolo con davanti alcuni schemi tecnici dell’Aether e una tazza di caffè solubile. Sully gli si sedette di fianco, ma lui non alzò gli occhi. «Buongiorno», gli disse.

Il comandante aveva gli occhi rossi e gonfi. Tenne lo sguardo sulle carte.

«Ma hai dormito?» chiese lei.

«Cosa? No, direi di no. È che sono preoccupato...»

Sully osservò gli schemi tecnici e si accorse che Harper aveva cerchiato alcuni punti in vista delle uscite.

«A chi toccherà? Hai già deciso?»

Harper sospirò e si stropicciò gli occhi. «Devi andare per forza tu», disse lentamente, riabbassando le braccia. «E Devi.»

Sully annuì. C’era qualcosa di strano nel suo atteggiamento, di riluttante. Forse era convinto che lei non volesse uscire? O era preoccupato per Devi?

Aspettò di vedere se aggiungesse altro, e infatti poco dopo lui riprese a parlare: «In realtà non sono sicuro che Devi ce la faccia... emotivamente, dico. Ma, se ce ne fosse bisogno, non credo che Thebes sarebbe capace d’improvvisare come farebbe lei. Ci ho pensato tutta la notte. Dev’essere lei ad andare».

«Ce la farà», disse Sully, ma, non appena vide la sua espressione impotente, venne subito contagiata dal dubbio. Pensò agli incubi, alle inadempienze nella manutenzione dell’astronave. Non aveva mai visto Harper così insicuro e ne era spaventata. Restava pur sempre il loro comandante. «Ci sarò io con lei, e tu e Thebes ci terrete d’occhio. Tranquillo, andrà tutto bene. Adesso dovresti andare a riposarti un po’, hai l’aria stanca.»

«A dir poco», replicò lui ridendo.

Sully sentì il bisogno di abbassargli la ciocca di capelli ribelli che era rimasta dritta sulla testa, come avrebbe fatto con Lucy, ma si trattenne. «In effetti. Avanti, ti ordino di andare a dormire almeno un paio d’ore. Abbiamo tempo, e non è proprio il caso che ti faccia venire un crollo nervoso.»

«Lo so, è solo che... te l’ho detto, sono preoccupato che...» La guardò per un lungo momento, poi riabbassò gli occhi.

Lei aspettò, ma stavolta lui non completò la frase. Sully si alzò, gli mise le mani sulle spalle e poi le infilò nella tasca della tuta, per evitare di toccarlo ancora. «Anch’io sono preoccupata, ma Devi è più intelligente di me e te messi insieme. Se non ci riesce lei, non può riuscirci nessuno», scherzò lei, ma Harper non rise.

«Lo so. È proprio questo che mi preoccupa.»

 

 

Due giorni dopo, l’antenna era ormai pronta e la prima uscita programmata. Spinta dalla forza dell’abitudine, Sully andò alla postazione radio, ma si rese conto che senza antenna lei lì non aveva niente da fare. Passò le dita sulle manopole e sui pulsanti delle apparecchiature allineate lungo le pareti. Gli schermi erano neri, gli altoparlanti silenziosi. Sembrava più una tomba che un centro per le comunicazioni. Più restava lì, più quella quiete si faceva sinistra. Così alla fine uscì e si diresse verso il corridoio, superò il ponte di comando e raggiunse la cupola.

Devi era davanti alla grande finestra, le mani premute contro lo spesso vetro al quarzo. La coda bassa e morbida fluttuava nell’aria, indugiava tra le scapole come una nuvola nera. I pantaloni della sua solita tuta bordeaux erano rimboccati, lasciando due dita di pelle nuda tra il bianco accecante del calzino e la stoffa scura. Era senza scarpe. Al di là del vetro un buio immenso, un’oscurità piena di profondità, di movimento, di silenzio e di milioni di lucine, troppo lontane per illuminare qualcosa, troppo brillanti per essere ignorate.

«Cosa vedi?» le chiese Sully, dandosi una spinta per raggiungerla.

«Tutto», rispose, giochicchiando nervosamente con la zip della tuta. La tirava fino al collo, poi la riabbassava fino allo sterno, su e giù, su e giù, finché non s’impigliò nella maglietta grigia. La lasciò così. «E niente. È difficile da spiegare.»

Restarono lì in silenzio a guardare il vuoto che si estendeva là fuori. La prospettiva di andare laggiù, di abitare quel vuoto, le faceva sentire ancora più lontane da casa. Là fuori non ci sarebbe stata nessuna rete di sicurezza, niente che le ancorasse all’astronave se non un cavo sottile e l’un l’altra. Sully stava per dire qualcosa sulla missione ma si fermò, non voleva parlare a sproposito, magari Harper non glielo aveva ancora detto.

«Lo so», disse allora Devi. «Che dobbiamo uscire. Me l’ha detto ieri sera. È preoccupato per me, vero? Perché sono... disconnessa. E anche per te. Perché è innamorato di te. Ma non ce n’è motivo, ce la faremo.»

Sully era senza parole. Era abituata al talento di Devi, che riusciva sempre a vedere oltre la superficie delle cose. Nella maggior parte dei casi, Devi usava quella sua abilità con le componenti meccaniche eppure, in rare occasioni, prestava attenzione alle faccende umane, enunciando verità allarmanti con precisione robotica. Era snervante. Sully si sentì avvampare, ma cercò di restare calma. Devi lo aveva detto in maniera così semplice, come un dato di fatto. Sully non aveva dubitato nemmeno un secondo che non fosse vero, e in un certo senso era un sollievo, sentirlo dire ad alta voce. Sapere che le sue fantasie su cosa sarebbe potuto succedere tra lei e Harper una volta tornati sulla Terra avevano una base reale, quantificata, qualificata, e definita da una persona esterna, dalla persona più intelligente che conosceva. Eppure non era il momento. Non poteva pensare ad Harper in quel modo, non ancora. Chissà, forse il momento non sarebbe mai arrivato... Scacciò le parole di Devi e si concentrò sull’uscita, guardando fuori dalla cupola con un unico, determinato scopo. Poi sentì Thebes chiamare Devi. Prima di andare, lei prese la mano di Sully e gliela strinse. «Nemmeno tu dovresti preoccuparti», le disse, prima di darsi la spinta e sparire nel corridoio.

Sully restò lì a lungo, a guardare le stelle da quella prospettiva insolita, finché in quel caos non riuscì a identificare l’Orsa Minore. La stava guardando da un’angolazione inedita, ma era proprio lei. Ne era sicura. Era bello essere sicuri di qualcosa.

 

 

Sully e Devi ripassarono il piano della missione con Harper decine di volte, recitando i loro movimenti come gli attori con le battute. Le due donne erano tranquille, l’addestramento ricevuto a Houston le aveva preparate per ogni genere di riparazione extra veicolare, e la prima uscita sarebbe stata semplice. Thebes stava controllando le tute, mentre Tal aveva gli occhi incollati sul radar. Ivanov si teneva impegnato stanando errori nell’aggiornamento del programma di Tal, rilevando lacune nel piano di Harper e tempestando Thebes di osservazioni su improbabili malfunzionamenti delle tute: una sorta di Red Team1 composto da una sola persona che si sforzava di evidenziare le falle della loro strategia, i difetti di procedura. Una volta tanto, erano tutti felici del suo incredibile spirito critico.

Durante quella fase di preparazione e controllo, tra i membri dell’equipaggio tornò il cameratismo dei tempi di Houston, di quella notte passata al bar ad ascoltare il juke-box e a bere tequila. Tal riprese a fare battute, a un paio delle quali sorrise perfino Ivanov. Devi parlava ininterrottamente, esaltata dal progetto, concentrata sui compagni e sui compiti che doveva svolgere. Thebes sembrava sollevato nel vedere che la squadra era tornata a comunicare. Tutti erano spinti ad andare avanti. Sully sentiva dentro di sé una speranza che non provava da mesi. Chissà, forse, quando fossero tornati in linea, le frequenze della Terra finalmente avrebbero rotto il silenzio. Soltanto Harper sembrava dubbioso. Perfino mentre il resto dell’equipaggio traeva nuovo vigore dalla sfida di riportare in vita il sistema di comunicazione, il comandante supervisionava il lavoro con aria preoccupata.

La sera prima dell’uscita, Harper prese Sully da parte, nel ponte di comando. Mentre lui parlava, Sully si sentì quasi trafitta dall’oscurità accecante alle loro spalle. Era inebriante. Sapendo che di lì a poche ore avrebbe camminato in quel vuoto, Sully faticava a concentrarsi su Harper, a distogliere lo sguardo dall’impercettibile turbinio degli atomi al di là del vetro per incontrare i suoi occhi che sembravano scavarle dentro.

«Sully... Sully...»

Chissà da quanto tempo la stava chiamando. «Sì, scusa... ti ascolto.»

«Voglio che mi prometti una cosa. Se hai la sensazione che qualcosa non vada, che qualcosa stia andando in modo anche solo leggerissimamente diverso da come dovrebbe andare, tu molli tutto e torni dentro. So cosa si prova lì fuori, ma ti prego... se non ripristiniamo le comunicazioni non muore nessuno, e possiamo sempre riprovarci, aspettare di arrivare all’ISS. Possiamo sempre... non lo so, ma ci sono altre opzioni, capito? Negli ultimi mesi siamo diventati amici, io e te... e, cazzo, Sully, è già abbastanza difficile fare il capo... Ho bisogno di sapere che tu seguirai i miei ordini alla lettera, quando sarai lì fuori. Dimmi che hai capito.»

«Ho capito, comandante.»

«Bene. Adesso vai a riposarti, che domani alle nove devi essere pronta.» Harper si girò e tornò fluttuando verso la Terra in miniatura, lasciandola sola al ponte di comando.

Lei lo guardò andare via e poi tornò alla cupola. Ripensò alle parole di Devi, chiedendosi come sarebbe stato, se lo avesse amato anche lei... chissà, forse già lo amava. Spaventata, cercò di scacciare dalla mente quella possibilità, lasciando che l’oscuro bagliore dello spazio riempisse la sua immaginazione col suo vuoto immenso.