Augustine andò all’hangar da solo, Iris restò all’osservatorio a fare le valigie. Era una camminata difficile per lui, ma in un certo senso era giusto così, un modo per espiare i suoi peccati. All’hangar era tutto come lo avevano lasciato: le porte spalancate, i cumuli di neve modellati dal vento, le chiavi inglesi sparpagliate sul pavimento macchiato di carburante e le motoslitte scoperte. Cercò di accendere la stessa che aveva fatto partire la volta precedente, ma nel trambusto si era dimenticato la chiave inserita in posizione ON, scaricando la batteria. Provò con l’altra, che si accese dopo qualche colpo di tosse. Ogni volta che il motore scendeva di giri, lui dava gas, finché non riuscì a fargli tenere il minimo, con la corazza grigia e lucida che tremava sotto di lui e una nuvola di fumo bianco che usciva dal tubo di scarico. Adesso ce la faceva da sola.
Augie salì a bordo e diede un’occhiata ai comandi. Di solito faceva il passeggero, ma in pochi minuti si fece un’idea di come funzionasse. Non poteva essere più difficile della moto che guidava da ragazzo. In più lì non c’erano divieti di sorpasso, né traffico, né ostacoli improvvisi, solo una lunga strada dritta che attraversava la tundra immensa e vuota. Condusse la motoslitta fuori dall’hangar senza troppi problemi, la lasciò accesa e rientrò a recuperare le taniche di carburante, che legò al vano portaoggetti con una corda elastica. Per un attimo pensò alla tomba rosa che si trovava a pochi metri da lì, sulla pista immacolata. Aveva evitato di guardare in quella direzione, gli occhi fissi sull’hangar, ma in quel momento, mentre si preparava ad andarsene, si rese conto che non poteva partire senza prima rivolgere una breve occhiata alla scaletta rovesciata e al tumulo di neve insanguinata.
Le ruote della scaletta continuavano a girare nel vento; un sottile strato di polvere danzava sul terreno compatto della tundra. Alla fine, Augie distolse lo guardo dalla tomba e salì sulla motoslitta. Sentì le vibrazioni del motore che si facevano strada nei suoi vasi sanguigni, scuotendo gli organi, mentre lui dava gas e schizzava via dall’hangar, risalendo la montagna.
Quando lo vide tornare, Iris aprì la porta della sala controllo e gli andò incontro. «Andiamo con quella?» disse, senza fiato. Era una reazione insolita per lei, quella gioia. Il suo viso sembrava completamente diverso, più infantile e meno ferino. Augie si ricordò che in fondo era una bambina, e quella consapevolezza accese in lui emozioni che stentava a riconoscere. Tenerezza, forse, ma anche altro, qualcosa di più oscuro... paura. Non di lei, ma per lei. Era un viaggio sicuro? Ci aveva pensato bene? Doveva stare più attento con quella piccola scintilla di vita che, chissà come, era stata affidata alle sue cure? Si chiese cosa avrebbe fatto il padre di Iris al suo posto, ma era un pensiero così assurdo, così incomprensibile che Augie scacciò via la tenerezza e la paura e occupò la mente con altre cose.
Tornati nella sala controllo, finirono di fare i bagagli. C’erano tante cose di cui avevano bisogno per quel viaggio, tante che dovevano lasciarsi alle spalle, pochissime informazioni riguardo alla base meteorologica. Non c’era modo di sapere cosa avrebbero trovato. Fecero un mucchio con le cose indispensabili: tenda e sacchi a pelo, cibo e acqua, una tanica di carburante, vestiti pesanti, caschi e maschere da sci, fornelletto da campeggio, cartina, bussola, torce. Tutto il resto erano extra, lussi che si sarebbero permessi solo se fosse avanzato spazio: i libri di Iris, vestiti di ricambio, batterie di scorta e un’altra tanica di carburante. Portarono il carico di sotto e lo legarono alla motoslitta. Con un passeggero e tutta quella roba dietro, il peso era notevole, ma con la vecchiaia Augie si era rimpicciolito e Iris era sempre stata piccina. Inoltre quello era un veicolo costruito per trasportare carichi lungo terreni scoscesi non asfaltati. Magari non sarebbe stato facilissimo da manovrare, ma li avrebbe portati a destinazione.
Spensero le luci dell’osservatorio, lasciando solo il riscaldamento al minimo perché le condutture dell’acqua non gelassero e il telescopio non si rovinasse. Mentre regolava il termostato, Augie si chiese per chi lo stesse facendo: per loro, se fossero dovuti tornare, o forse per nessuno, qualora il lago Hazen si fosse rivelato una casa più ospitale. Prima o poi la caldaia avrebbe finito il gasolio, ovvio, e il gelo si sarebbe impossessato dell’osservatorio, le tubature si sarebbero congelate e le lenti dell’enorme telescopio si sarebbero rotte. Le finestre sarebbero diventate un’unica lastra di ghiaccio, e il loro santuario della sala controllo sarebbe stato profanato, insieme col resto dell’avamposto. Ben presto, l’inverno si sarebbe impadronito di quei luoghi.
Iris strinse le braccia intorno alla vita di Augie e si avviarono in direzione della tundra, svoltando verso est poco prima di arrivare all’hangar. Iris si strinse di più a lui quando le rocce coperte di neve li sballottarono a destra e a sinistra. Il casco era troppo grande per lei, perciò Augie aveva insistito perché si mettesse tre cappelli, per farlo stare più fermo. Anche la maschera da sci le andava grande – quell’unico, ampio occhio giallo le copriva quasi tutta la faccia –, ma l’aveva indossata lo stesso, fissando l’elastico intorno alla testolina con una spilla. Finita la discesa, la strada divenne più tranquilla, e Iris allentò la stretta. Ormai erano partiti, non aveva senso farsi venire dubbi adesso. Dopo aver passato quattro o cinque ore a guidare in quel bianco sconfinato, Augustine si fermò.
Lui e Iris scesero dalla motoslitta per bere un po’ d’acqua e mangiare cracker. Iris aveva la faccia rossa come un peperone, fatta eccezione per il segno bianco lasciato dalla maschera da sci, e alcune ciocche ribelli si erano schiacciate sulle guance. Quella nuova avventura sembrava piacerle. Augustine guardò la strada da cui erano venuti, ma ormai l’osservatorio non si vedeva più. L’aria intorno era velata da una cortina di neve luccicante che danzava nel vento. Da quand’erano partiti era sempre rimasto all’erta, aveva contato i chilometri che avevano percorso, resistito alla tentazione di fare inversione e tornare al paradiso sicuro che si erano lasciati alle spalle. Si aggrappava alla speranza che stessero facendo la cosa giusta. Quel silenzio vuoto intorno a loro, però, sembrava un presagio di sventura.
Dopo aver finito di mangiare, Iris si rimise la maschera da sci e i cappelli, uno per uno. Augustine prese la confezione di plastica dei cracker e la infilò nella tasca interna del parka, poi entrambi risalirono a bordo. Augie premette il pulsante dell’accensione, ma non successe nulla. Lo premette ancora una volta. Niente. Il suo cuore iniziò ad accelerare i battiti, lui fece un respiro profondo, lungo e gelido. Calma, pensò, fino a cinque minuti fa funzionava. Provò ancora, poi armeggiò con la chiave, l’acceleratore, di nuovo il pulsante. Si tolse la maschera da sci, che gli rimase appesa al collo, e guardò incredulo la motoslitta. Scese e si allontanò di un passo, come se da lì potesse osservare meglio il problema, ma vedeva solo una macchina che non capiva. Sentì la gola stringersi nella morsa del panico. Erano bloccati, lontani dall’osservatorio, e ancora più lontani dalla stazione meteorologica. In mezzo non c’era nulla: nessun’oasi, nessun rifugio, solo la tundra desolata e infinita. Se fossero andati avanti a piedi sarebbero morti congelati. Iris si muoveva sul sedile, in attesa di vedere cos’avrebbe fatto lui. Augustine crollò nella neve, non perché lo avesse deciso, semplicemente le gambe non lo reggevano più. Si sentiva un idiota ad aver abbandonato l’unico santuario di quell’isola desolata. Appoggiò la testa alla motoslitta e alzò gli occhi verso i mulinelli bianchi che offuscavano il cielo. Il vento aveva già cancellato le loro tracce. Eccola, era arrivata: quella morte tranquilla, gelida, cui aveva appena deciso di sottrarsi. Un piedino di Iris gli sfiorò la spalla e, senza riflettere, Augie prese lo scarpone tra le mani e se lo portò alla guancia.
«Mi dispiace», disse, ma il vento disperse le sue parole prima che fosse sicuro di averle pronunciate. Chiuse gli occhi e sentì le punture del vento ghiacciato contro la pelle nuda. Dietro le palpebre vide dei puntini luminosi bruciare nell’oscurità e, quando riaprì gli occhi, per un attimo rimase accecato da quel bianco infinito. Sarebbe stata una fine tranquilla: potevano arrancare in avanti o indietro, oppure restare lì, accanto alla motoslitta. Ovunque fossero andati, la conclusione non sarebbe cambiata. Augustine immaginava gli occhi di Iris sigillati dal ghiaccio, le sue guance diventare azzurre e screpolate. La colpa era solo sua, era stato lui a portarli lì, ad allontanarli dalla sicurezza dell’osservatorio per avventurarsi in quelle terre bianche e selvagge.
Augustine mantenne lo sguardo fisso sulla valvola della benzina vicino al poggiapiedi di destra per diversi minuti prima di rendersi conto di cosa stava vedendo: un interruttore bloccato a metà tra l’ON e l’OFF. Si avvicinò. Sì, era proprio così. Forse Iris l’aveva toccato col piede quand’era scesa? Lo girò verso l’ON e poi si rialzò, lentamente. Recitò una silenziosa preghiera, quindi rimise la mano sul pulsante di accensione. La motoslitta ruggì e Augie fu investito da un’ondata di sollievo. Gli tremavano le mani, e per fermarle rinsaldò la presa sul manubrio. Era consapevole come mai prima di allora della minaccia rappresentata dall’ambiente circostante, eppure andò avanti, inoltrandosi sempre di più in quella distanza vuota, macinando chilometri finiti travestiti da infinito, sotto un sole basso e indifferente.
Quando la luce iniziò a calare si fermarono e scaricarono la tenda per la notte. Augie si era guardato intorno alla ricerca di una roccia, di un albero o una semplice montagnetta di neve che li riparasse dal vento, per farli sentire meno esposti, ma non trovò nulla. Così montarono la tenda vicino alla motoslitta. Era un tepee, un cono arancione in mezzo a un bianco infinito. Il colore fluorescente della plastica esaltava i riflessi azzurri della neve. Si prepararono per la notte, Iris si tolse il casco e due cappelli, ma tenne addosso il terzo – quello verde col pompon – e la maschera da sci per tutta la cena. Non trovarono niente con cui accendere un fuoco, così si strinsero l’uno all’altra dentro la tenda mentre il vento continuava a ululare, spingendo il cono arancione verso la motoslitta. I picchetti stridettero nelle loro buche poco profonde. Augustine sperò che reggessero fino al mattino, che la tenda non spiccasse il volo mentre dormivano, scivolando su quella distesa di tundra. Li aveva piantati più a fondo che aveva potuto, usando una lattina di fagioli come martello. Dopodiché l’avevano aperta e avevano scaldato i fagioli sul fornelletto a cherosene, lasciando aperta la tenda per cambiare l’aria. Calò la notte.
Iris iniziò a canticchiare a ritmo col fischio del vento. Non c’era bisogno di parole, non c’era niente da dire. Augustine mangiava ascoltando il lamento desolato del vento, che d’un tratto gli sembrò un monito, e lui si chiese per l’ennesima volta se non fosse meglio tornare indietro. Se non fosse stato un errore portare via Iris dalla sicurezza conosciuta dell’osservatorio. Finita la cena uscirono dalla tenda per guardare le stelle. Il cielo ne era pieno, ma quella notte le costellazioni fungevano solo da familiare sfondo per il fiume increspato dell’aurora boreale che scorreva nell’aria: correnti verdi, violette e azzurre di luce danzante. Augie e Iris si allontanarono dal bagliore della lanterna elettrica accesa nella tenda, ipnotizzati dall’aurora, pronti a seguire una di quelle correnti luminose, a salire fino in cielo. Dopo un po’, i bagliori si affievolirono fino a scomparire. Augie si voltò, senza sapere per quanto fossero rimasti lì fuori a guardare, e vide il cono di luce arancione sormontato da un’ultima striscia verde che brillava fioca nel cielo, prima di svanire.
Quella notte dormirono della grossa, col respiro che usciva dalle narici come vapore e coi corpi avvinghiati l’uno all’altro, nell’inconsapevole ricerca di calore, mentre il vento, fuori, continuava a ululare e a intonare il suo canto.
Il mattino successivo mangiarono un altro barattolo di fagioli, stavolta uno di quelli con pezzi di maiale, poi smontarono la tenda. Raccolsero i resti della notte e avanzarono verso est. Il giorno si dispiegava davanti a loro, pallido e infinito. Sembrava che non procedessero nemmeno, che fossero finiti su un tapis roulant invisibile. Nel tardo pomeriggio avvistarono una lepre artica che saltellava per la tundra sulle zampe posteriori come un trampolo a molla, più interessata all’altezza che alla distanza. Mentre allestivano il campo per la notte ne videro un’altra, o forse era la stessa. Augie la indicò a Iris, che aveva la bocca piena di crema di mais, scaldata sul fornelletto a cherosene.
«Fanno così per vedere più lontano», disse lei.
Augie restò in silenzio. Iris parlava così di rado che lui ci metteva sempre qualche minuto a risponderle. Ormai conosce a fondo la fauna artica, si disse, e ripensò alla guida che lei aveva letto e riletto così tante volte da impararla a memoria. Sentì una fitta di rimorso per non essersi mai sforzato d’imparare nulla sull’ambiente in cui aveva vissuto per così tanti anni, non di proposito, almeno. La ragazzina accanto a lui conosceva i lupi, i buoi muschiati, le lepri; lui solo le stelle lontane miliardi di chilometri. Aveva passato un’intera vita in giro per gli angoli più remoti del pianeta senza mai curarsi nemmeno per un secondo della cultura, della fauna o della geografia che lo circondavano, delle cose che aveva davanti agli occhi. Gli erano sempre sembrate superficiali, triviali. Il suo sguardo era sempre stato rivolto lontano. Le poche cose che sapeva dell’ambiente che lo circondava, le aveva imparate per caso. Mentre i colleghi esploravano i dintorni dei loro centri di ricerca, passeggiando nelle foreste o visitando le città, lui indagava i profondi recessi del cielo, leggeva tutti i libri e gli articoli che gli capitavano tra le mani, passava settantadue ore a settimana davanti al telescopio, in cerca di fenomeni avvenuti miliardi di anni prima, senza prestare la minima attenzione al presente.
Quella non era la sua prima volta in campeggio, né la prima notte che passava a guardare le stelle, ma – sarà stato per l’alcol che aveva in corpo in quegli anni, o perché era troppo impegnato a guardare il cielo per godersi il momento – di quelle esperienze Augustine non ricordava granché. Aveva sempre tenuto gli occhi fissi verso l’alto, sempre distolto lo sguardo dai magnifici panorami offerti dalla Terra. Gli importava solo dei dati, solo gli eventi celesti che aveva osservato erano rimasti impressi nella sua memoria. Quando pensava a quanti anni aveva vissuto, gli sembrava incredibile che avesse fatto così poche esperienze.
Ci fu un’altra aurora quella notte, di un verde puro, e durò a lungo. Lui e Iris restarono seduti all’ingresso della tenda con la lanterna spenta finché anche gli ultimi scampoli di luce non furono svaniti dal cielo. Quando finalmente s’infilarono nei sacchi a pelo, la mente di Augie era un vulcano. L’espressione meravigliata di Iris era incredibile quasi quanto l’aurora stessa. Augustine si addormentò senza pensare a quanti chilometri avessero percorso o a quanti ne mancassero, pensò solo al respiro di Iris, al suo fianco, al lamento del vento, alle dita formicolanti per il gelo, a quella sensazione a lui così poco familiare di essere vivo, consapevole, appagato.
Un altro giorno di viaggio, un’altra notte nella tundra, poi, la mattina del quarto giorno, finalmente arrivarono ai piedi delle montagne. Il terreno era diventato sempre più accidentato, con rocce di era paleozoica che spuntavano dalla neve in picchi scuri e frastagliati, e ora di mezzogiorno Augie faticava a trovare un sentiero da percorrere con la motoslitta. Sull’altro versante di quelle montagne si apriva il lago, circondato da picchi impervi. Essendo la prima volta che ci andava, Augustine restò sorpreso e allibito dalla strada. C’era forse un valico? Un sentiero più facile che non aveva visto? Il cammino che avevano davanti era insidioso, ma loro andarono avanti comunque, coi tacchetti del cingolo che affondavano nella neve e nel ghiaccio, continuando la salita. Ci misero ore per fare pochi chilometri e, quando finalmente la strada tornò dritta e in leggera discesa, Augie tirò un sospiro di sollievo e diede gas, macinando terreno come se fossero tornati nella tundra vuota e dolce. Gli sci fendevano la neve, sollevando una cortina bianca, come la cresta di un’onda. Sia il sollievo sia la corsa ebbero vita breve. Quando il terreno si inasprì di nuovo, peggiorò anche la visibilità, al punto che Augustine non riusciva a vedere oltre la neve che vorticava nell’aria. Non ci volle molto perché fossero colti di sorpresa da un grosso masso, che sbalzò entrambi dalla sella della motoslitta. Mentre era in aria, Augie si chiese se il suo corpo avrebbe retto all’atterraggio, se non fosse stato meglio tornare indietro, se si sarebbe mai rialzato. L’impatto lo lasciò senza fiato, ma, mentre cercava di tornare a respirare normalmente, mosse piano un arto per volta, e constatò con sollievo che era tutto a posto. Quando si girò, vide che Iris era già in piedi, guardava l’angelo della neve che aveva creato nel punto in cui era caduta. Non appena Augie si mise a sedere, si rese conto che la motoslitta era distrutta. Era rovesciata su un lato e uno degli sci era fuori uso. Si avvicinò per vedere se ci fosse qualche speranza. La raddrizzò e cercò di riaccenderla, ma il motore rispose con un gracchio. Non possiamo più tornare indietro. Una frase che Augie aveva già sentito, ma quando? Si sforzò di ricordare. Poi lui e Iris raccolsero parte delle loro cose e proseguirono a piedi tra quelle rocce impervie, appesantiti dal carico.
Camminarono per ore. Il terreno divenne più scosceso e, quando raggiunsero una delle vette più basse, erano ormai esausti ed era quasi sera. Ma lì, da quella cima, lo videro per la prima volta: un enorme lenzuolo azzurro disteso sotto di loro. Ed ecco anche la stazione meteorologica, illuminata dalla luce del tramonto. Era solo un insieme di semplici fabbricati e antenne, eppure era una visione confortante. La loro nuova casa. Ormai non avevano altra scelta. Montarono la tenda per l’ultima volta, e al mattino cominciarono la discesa. Ore dopo, quando misero piede nell’avamposto, la luce aveva appena iniziato a svanire.
Non c’era granché. Una tenda semicilindrica di tela verde vicino ad altre due più grandi, bianche, tutte con una piccola canna fumaria, collocate su una piana coperta di neve che si affacciava sul lago. A destra, una specie di selva di alte antenne e una stazione radio. Le sponde del lago erano ancora innevate, ma qui e là il terreno roccioso faceva capolino. In mezzo al lago c’era un’isoletta, e perfino da quella distanza Augie distinse diverse lepri artiche che saltavano in alto, scrutando oltre lo specchio d’acqua ghiacciata. Si sentivano i crac del ghiaccio, simili a campane gelate che sbattevano l’una contro l’altra. Era un rumore bello, accogliente, in confronto al continuo ululato del vento che spazzava la tundra. Le raffiche gelate con cui avevano dovuto convivere per tutto quel tempo non c’erano alla stazione meteorologica. Anzi, mentre Augie ispezionava il piccolo accampamento in riva al lago, una brezza gentile gli accarezzò la barba congelata. La primavera era alle porte. Era iniziato il disgelo.