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Denis aveva letto che il cambiamento vero e proprio inizia verso i tredici anni. Lui ne aveva quasi quattordici, eppure non era cambiato niente. Era esattamente come gli altri anni. Le cose avrebbero dovuto essere diverse, ma Denis le vedeva come le aveva sempre viste. Era sempre l’alunno più esuberante della terza divisione e tutti i mercoledì sera, durante l’ultima ora, il prefetto agli studi posava un foglio sul suo banco. Un foglio su cui c’era scritto che il prefetto agli studi era «spiacente di informare il signor Tal dei Tali che suo figlio Tal dei Tali...». E tutti i giovedì Denis si faceva due ore di punizione. Non era cambiato proprio niente.

«Un tempo», come si usa dire, Denis era stato un alunno modello. In sesta era sempre tra i primi nel tema in classe, e aveva buoni voti in latino e in francese. E l’anno dopo era stato più o meno uguale. Ma quell’anno Denis non si applicava per niente. Non riusciva proprio a stare sui libri. Il prefetto agli studi continuava a ripetere che, impegnandosi un po’, Denis sarebbe stato uno degli alunni migliori, se non addirittura il migliore. Ma era impossibile. L’impegno nello studio era incompatibile con Denis. Eppure, non si sa come – lui per primo non sapeva spiegarselo –, era sempre tra i primi nel tema in classe. Non era cambiato niente.

Il prefetto agli studi era un uomo grasso, piccolo e tarchiato. Aveva un faccione rosso e arcigno. Quando parlavano di lui, nessuno lo chiamava prefetto o padre. Padre era per i genitori. Per i ragazzi era Gargantua. Era all’istituto da oltre quindici anni, prima ancora che nascesse Denis. E da oltre quindici anni era Gargantua. Quando un ex alunno tornava in visita alla scuola chiedeva:

«Allora, Gargantua è sempre la solita carogna?».

Era sempre la solita carogna. Non era cambiato niente.

Per Denis la scuola era tutto. Poi venivano i suoi genitori. Ma ciò che più contava nella sua vita era sempre stata la scuola. Quell’anno si aspettava che forse qualcosa sarebbe cambiato. I primi giorni confessò i peccati più gravi commessi durante le vacanze. E la scuola ricominciò a essere il centro della sua vita. Arrivava alle otto del mattino. Usciva alle sette di sera. Tornava a casa e andava a dormire. Il giovedì era in punizione a scuola. La domenica cantava nel coro dell’istituto. Tutto qui. Non era cambiato niente.

Al ritorno dalle vacanze Denis aspettava. La sera, a letto, sognava a occhi aperti. Si pensa a un sacco di cose a letto. Qualche volta Denis pensava alle ragazze. Ma quando gli venivano certi pensieri si faceva il segno della croce e recitava tre avemaria di seguito come gli aveva insegnato il padre spirituale. E poi cercava di pensare ad altro.

A letto, Denis pensava all’esame di maturità. Ripeteva sottovoce: «Maturità, maturità...». E aveva un piccolo fremito. In sesta gli sembrava una cosa enorme, terribile e lontana. Lo stesso in quinta. Quell’anno, in quarta, restava una cosa enorme, terribile e lontana. Non era cambiato niente.

L’importante era Dio. Così pensava Denis. Non c’è nient’altro al di fuori di Dio. Denis recitava le preghiere, scacciava i cattivi pensieri sulle ragazze e le cose che i ragazzi fanno con le ragazze, faceva la comunione tre volte alla settimana, quando c’era la messa all’istituto, e si confessava tutte le settimane. Dio lo amava, lui amava Dio. Non era cambiato niente.

 

 

La madre di Denis era una donna alta e robusta, con i capelli raccolti sulla nuca. Parlava poco, ma era piena di vitalità. Passava il tempo a lustrare il parquet, lucidare i mobili e, perché tutto restasse sempre pulito e in ordine, la famiglia viveva confinata in cucina.

Il padre di Denis, alto anche lui, era un uomo tranquillo e distaccato. Era privo di opinioni personali e si occupava di contabilità. Quando non faceva i conti, continuava a pensare ai conti. Non gli importavano le grandi idee. Non gli importavano le donne. Gli importavano solo i conti.

Erano entrambi indulgenti con Denis. Denis era figlio unico. Firmavano le sue note di punizione senza dir nulla. Le volte che Denis si azzardava a chiedere qualcosa che non fosse un pezzo di cioccolato, una coperta, o un paio di scarpe nuove, ciascuno restava immerso nei propri pensieri. La madre pensava alla sua sala da pranzo immacolata e silenziosa, il padre ai suoi conti.

Più di una volta Denis aveva cercato di parlare con la madre delle cose che non capiva. Lei lo aveva guardato stupita:

«Non sono cose per la tua età, Denis. Lascia perdere. Capirai più avanti».

Ed era tornata a pensare ai suoi mobili tirati a lucido.

Più di una volta Denis aveva chiesto al padre di comprargli i romanzi di cui sentiva parlare. Lui lo aveva guardato togliendosi gli occhiali:

«Che ti prende, Denis? Non sono cose per la tua età. Tutto quello che devi fare è studiare. E per questo non serve leggere delle stupidaggini».

E ripeteva la solita frase:

«Ricordati della predica del rettore».

Poi tornava al suo giornale e ai suoi conti.

I genitori di Denis erano brave persone, ma erano fatti così e non ci si poteva fare niente: sua madre si toglieva il grembiule solo per andare in chiesa la domenica e suo padre era ispettore all’ufficio delle imposte. Non era cambiato niente.

 

 

Per fortuna c’era Pierrot. Pierrot era il migliore, il più fantastico amico che si potesse immaginare. Era un ragazzo robusto, con un viso ora serio ora allegro, e un testone di capelli ricci. Camminava a gambe un po’ larghe ed era un patito di calcio. Anche Pierrot era figlio unico. I suoi genitori avevano una villa sul mare, vicino alla spiaggia. Pierrot stava attento in classe e voleva bene a Denis. Ci pensava lui a segnare i compiti sul diario di Denis. E se Denis si dimenticava il pranzo in tram, Pierrot divideva il suo con lui e l’indomani gli riportava la sacca smarrita.

Denis e Pierrot parlavano di sport. Pierrot era un appassionato di sport e dava da leggere a Denis i giornali del lunedì con la cronaca sportiva. Denis finì per interessarsi anche lui agli eventi sportivi. Quando la squadra di calcio cittadina vinceva una partita del campionato Pierrot era tutto contento. Raccontava la partita a Denis e Denis lo ascoltava volentieri.

Quando Denis faceva a botte con i compagni in cortile, Pierrot gli teneva i libri. E se Denis aveva più di un avversario, Pierrot correva a dargli man forte. A Denis piaceva fare a botte. Non che se le andasse a cercare, ma se capitava l’occasione non si tirava certo indietro. Denis era alto e slanciato per la sua età. Era sempre stato bravo a menare le mani. Cosicché gli altri per lo più evitavano di attaccare briga. Gli portavano rispetto e lui sorrideva con aria di superiorità. All’inizio dell’anno scolastico c’era sempre qualche ragazzo nuovo che non lo conosceva e si indispettiva. Allora finiva che se le davano di santa ragione e Denis ci provava gusto, perché sapeva di essere il più forte. Dopo faceva sempre pace con l’avversario malconcio. E anche in quel caso era Pierrot a tirare fuori di tasca un pezzo di cioccolato in modo che Denis si riconciliasse con lo sconfitto.

Quell’anno Denis si era ripromesso di starsene tranquillo e di togliersi la nomea di attaccabrighe. In realtà non aveva smesso di fare a botte e gli altri lo temevano quando si arrabbiava. Denis era comunque benvoluto dai compagni perché in classe era capace di scatenare delle gran cagnare, infischiandosene delle punizioni.

Così trascorse il primo trimestre. Gli alberi erano al loro posto. Le strade erano al loro posto. Tutto era esattamente come gli altri anni. Denis aspettava. Ci aveva sperato, ma non era cambiato niente.