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Cercò dapprima di avere qualche informazione da Pierrot. Ma Pierrot gli rispose che non sapeva niente. Era l’indomani, o forse due giorni dopo, durante l’ora di studio delle undici. Denis si era rimesso al lavoro svogliatamente, contagiando anche gli altri con la sua indolenza. Aveva passato tutta la mattinata a rimuginare durante l’ora di latino.

«Perché ti interessa?» bisbigliò Pierrot alle sue spalle.

Seduto accanto a Pierrot, Tréville ascoltava.

«Per sapere».

«Ma perché lo vuoi sapere?».

«Affari miei. Giusto per sapere».

«Senti,» disse Pierrot «io non posso dirti niente. Ci sono andato soltanto una volta prima di te. Si chiama suor Clotilde. Non so altro».

«Non importa» disse Denis.

Guardò verso la cattedra. Il sorvegliante leggeva, tenendo gli occhi bassi. Denis si girò leggermente e subito Pierrot si chinò in avanti sul banco.

«Bambolina non sta guardando» disse Denis. «Chiedi a Prieffin. Lui all’ospedale ci ha messo le tende. Qualcosa saprà».

«Aspetta» disse Pierrot.

Denis finse di immergersi nello studio, sbirciando il sorvegliante con la coda dell’occhio. Il sorvegliante era immobile. Denis sentì Pierrot che si alzava pian piano. Prieffin era tre banchi dietro. Quando il sorvegliante sollevò la testa Pierrot era già ritornato al suo posto.

«Allora?» bisbigliò Denis, scarabocchiando il libro soprappensiero.

«Va all’ospedale il giovedì. Insegna in un convitto femminile».

«Tutti i giovedì?».

«Tutti i giovedì».

«Bene, grazie» disse Denis.

«Ma perché ti interessa?».

«Ho detto grazie» ripeté Denis.

«Potresti almeno...».

«Smettila. Finirai per farci beccare».

«O questa poi!» protestò Pierrot. «Adesso la colpa è mia!».

Denis prese un foglio bianco e di colpo la sua aria svogliata scomparve. Si mise a fare i compiti sbuffando un po’.

«Ti metti a studiare?» domandò Pierrot incredulo.

«La vuoi piantare?» rispose Denis. «Lasciami stare».

Pierrot guardò Tréville con la fronte aggrottata. Tréville fece lo stesso.

«È suonato» gli disse Pierrot. «Non badarci, è suonato».

 

 

Denis fece il bravo per tutta la settimana. In classe non si sentiva più Denis. Denis non fiatava. Durante le ore di studio non si lasciava coinvolgere dalle gazzarre dei compagni. Denis se ne stava sulle sue. Il sorvegliante osservava Denis con l’aria di chiedersi che cosa stesse tramando, ma Denis chinava la testa sui libri senza battere ciglio.

Mercoledì sera, però, saltò tutto per aria. Di ritorno dalle prove del coro con alcuni compagni, mentre era sulle scale Denis sentì un gran baccano.

«Viene da noi» disse Ramon mettendosi a correre.

Gli altri lo seguirono. Denis arrivò per primo davanti alla porta dell’aula e la aprì. Gli alunni erano in piedi e strepitavano. Chi raschiava il pavimento con le suole chiodate, chi lanciava le copertine dei libri. Il sorvegliante si affannava a girare tra i banchi, sforzandosi di zittire ora questo ora quello.

«Bambolina! Bambolina!» si mise a gridare Ramon.

«Rebbia! Giovedì sarà in punizione!» lo riprese il sorvegliante.

«Bambolina, fuori!» urlò Ramon per tutta risposta.

In mezzo al frastuono e alle risate, Denis vide Prieffin che continuava a studiare imperterrito, il viso effeminato chino su un grosso dizionario di greco. Gli si avvicinò.

«Santarellino» gli disse.

L’altro non lo sentì.

«Santarellino!» strillò Denis.

La parola risuonò in un silenzio spaventoso. Sconcertato, Denis si girò e vide gli altri, seduti ciascuno al proprio posto, ammutoliti di colpo, che lo guardavano a disagio. Sulla porta c’era il prefetto, dritto e arcigno, con il grosso ventre prominente.

«Che c’è, Leterrand?».

Denis chinò la testa e andò a sedersi al suo banco. Il prefetto si avvicinò alla cattedra.

«Un simile trambusto è inammissibile» continuò rivolto all’intera classe. «Questa divisione è la peggiore di tutte. I piccoli si comportano meglio di voi. Vi garantisco che a partire da questo momento ci penso io a raddrizzarvi».

Misurò con lo sguardo l’uditorio. Gli alunni stavano a testa china, con le labbra strette. Passò tra i banchi e sulla porta dell’aula aggiunse: «Rebbia, Cossonier e Leterrand. Prima di uscire passate nel mio ufficio».

Un tuffo al cuore. Nel petto gli si formò un enorme groppo di lacrime. Rimase immobile. Sentì Jacky Renaud che bofonchiava alla sua sinistra.

«Che c’è, Renaud?» domandò il prefetto tornando sui suoi passi.

«Niente» rispose Renaud.

«Ho sentito che mugugnava. C’è qualcosa che non le garba?».

«No» disse Renaud.

Poi, alzando la testa, rosso in viso:

«Leterrand non ha fatto niente, era appena arrivato!».

«E a lei cosa importa? La riguarda, forse?».

«No» disse Renaud.

«Allora tenga per sé i commenti personali. E passi anche lei da me più tardi».

Renaud tacque. Una volta che il prefetto fu uscito, sentì gli altri mormorare: «Bravo, Jacky!» e alzò le spalle. Si voltò verso Denis e Denis si voltò verso di lui. Alzò di nuovo le spalle e si rimise a studiare con accanimento. Denis restò a guardarlo mentre l’agitazione dentro di lui si attenuava pian piano.

 

 

I quattro ragazzi entrarono nell’ufficio del prefetto, seguiti dal sorvegliante. Il più piccolo, Ramon, aveva un gran sorriso stampato in faccia. Cossonier, con i capelli neri e gli occhiali cerchiati, teneva le mani dietro la schiena. Jacky era accanto a Denis e tutti e due stavano un po’ in disparte, con lo sguardo fisso su Gargantua.

«Ecco i discoli» disse il prefetto.

Si sedette alla scrivania con l’espressione arcigna. Afferrò un tagliacarte e se lo batté sul palmo della mano. Poi, notando il sorriso di Ramon:

«Si sta divertendo?» disse.

«No, padre».

«Allora la smetta di fare il buffone».

Prese alcuni fogli dal tavolo e li consegnò al sorvegliante. Il sorvegliante provvide a distribuirli ai ragazzi, trattenendo quello di Denis. Erano le note di punizione. Quattro ore per «aver fatto confusione nell’aula di studio». Denis rimase in attesa mentre i compagni uscirono senza bisogno che il prefetto aggiungesse alcunché. Gli altri non erano contenti. Sorridevano, ma non erano contenti.

Dopo che la porta si fu richiusa il prefetto si alzò.

«Nel caso di Leterrand proporrei di dimenticare l’incidente» disse Bambolina rompendo il silenzio. «Durante la settimana ha fatto un grande sforzo».

«Lo so» disse il prefetto versandosi un bicchiere d’acqua.

In un angolo della stanza c’era un tavolino. Sul tavolino un bicchiere e una caraffa alta e stretta. Dopo aver bevuto, il prefetto posò il bicchiere con cautela.

«Lo so» ripeté. «Padre Bellon mi ha già informato. Una volta tanto ha fatto uno sforzo».

«Sì» disse il sorvegliante posando la mano sulla spalla di Denis. «Da giovedì è stato bravo».

Il prefetto allungò la mano e prese il foglio della nota. Lo tenne un istante tra le dita e Denis poté leggere il suo nome vergato a inchiostro nero. Il sorvegliante gli aveva tolto la mano dalla spalla, e questo era già un sollievo.

«Sarebbe dunque entrato un po’ di giudizio in quel cervello?» domandò il prefetto con un sorriso ironico.

Denis si limitò a chinare la testa. Si dondolò sulle lunghe gambe, osservando la caraffa posata sul tavolino.

«E a che è dovuto questo sforzo?» chiese il prefetto.

«Non voglio più essere punito» rispose Denis.

«Dunque le secca stare in punizione?».

Denis continuò a fissare la caraffa. La caraffa era ancora piena per metà. Aspettava di uscire per correre ai rubinetti in cortile.

«Sono andato all’ospedale» disse. «Ho fatto visita a un malato e vorrei tornare a trovarlo giovedì prossimo. Non voglio restare in punizione».

Il prefetto stracciò il foglio. Diede a Denis una carezza sulla testa e lo sospinse verso la porta.

«Grazie» disse Denis a fatica.

«Continui a fare il bravo» disse il prefetto di nuovo arcigno.

Denis uscì, seguito dal sorvegliante. Se lo sentì alle spalle mentre andava a prendere i libri che aveva lasciato sul tavolo dell’ingresso.

«Buonasera, padre» disse Denis.

«Buonasera, figliolo».

Denis si precipitò in cortile con una sensazione di sconfitta che avrebbe preferito non far trapelare. Pierrot lo aspettava davanti al portone. Denis corse prima ai rubinetti, ma non c’era un goccio d’acqua. Si strinse nelle spalle e raggiunse l’amico.

«Sei stato punito?» gli chiese Pierrot.

«No» rispose Denis.

«Non sei stato punito?».

«No».

«Vuoi scherzare? Come sarebbe?».

Denis se lo tirò dietro.

«Sono in ritardo» disse. «Ti racconterò tutto alla fermata del tram».

Correndo lungo il marciapiede, nell’oscurità, passarono davanti a uno dei ragazzi del liceo. Era in piedi nel vano di un portone con una ragazza. Cingeva la ragazza per la vita e la stava baciando.

«Chi è?» chiese Pierrot correndo.

«Uno dei grandi. Lo conosco. Hai visto la ragazza?».

«Troppo grassa» disse Pierrot.

Poi, arrivati alla fermata:

«Allora, com’è andata?».

C’erano alcune persone in fila ad aspettare il tram. Denis si accodò.

«È stato divertente. Bambolina ha detto a Gargantua che sto facendo uno sforzo».

«Questo è vero» disse Pierrot. «Non sei più tu ultimamente. E poi?».

«Poi Gargantua fa: “E a che è dovuto questo sforzo?”. Io me lo sentivo che stava per strappare la nota».

«L’aveva già scritta?».

«Certo».

«E l’ha strappata?».

«Proprio così. Perché gli ho detto che non volevo essere punito».

«Hai detto così?».

«Sì, e lui ha voluto sapere perché, pensa un po’. Sa benissimo che me ne infischio di tutte le punizioni del mondo».

«E tu?» fece Pierrot.

«Allora gli ho risposto: “Vorrei tornare a trovare un malato all’ospedale”. Dovevi vedere com’era contento».

«E ha strappato la nota?».

«Proprio così».

Vicino a loro c’era un uomo, vecchio e macilento. Era malvestito, ma stava dritto come un fuso.

«Sei diventato un gesuita come loro» commentò l’uomo.

Denis guardò Pierrot.

«Dice a me?».

«Non lo so» disse Pierrot.

«Ma certo che dico a te» replicò l’uomo. Alzò le spalle e si voltò dall’altra parte. Cominciava a piovere.