Le settimane diventarono spaventosamente lunghe in attesa del giovedì. A scuola, durante la giornata, non mancavano le occasioni per distrarsi. Ma la sera, chiuso in camera sua, era impossibile non pensare a suor Clotilde.
La camera era piccola e quadrata. Un tavolo con una lampada e un armadio costituivano tutto l’arredamento fra le quattro pareti ricoperte di carta azzurra e rendevano la stanza ancora più angusta. Se non fosse stato per il disordine, Denis avrebbe pensato che non c’era niente che gli appartenesse completamente, niente che amasse abbastanza da sentire davvero suo. Non gli interessava la collezione di francobolli di suo padre, né le conchiglie conservate nella vecchia scatola di sigari. Come fai ad appassionarti a un mucchio di conchiglie raccolte in un momento di noia, su una spiaggia qualsiasi, banale persino nella sua bruttezza? Non gli piacevano le conchiglie né i due romanzi di Francis Finn che conosceva a memoria, quelli con l’etichetta della biblioteca dell’istituto e intitolati: Per una volta sola e Percy Wynn. Non gli piacevano le fotografie dell’Almanacco delle Olimpiadi del 1936. Com’è possibile affezionarsi a una lucertola impagliata che è sempre stata in quella camera e ci rimane senza essere tua? Denis chiudeva gli occhi per non vedere più la finestra che gli ricordava altre finestre, le strade, la città, tutte le strade della città, e i passi sui marciapiedi, i tram, gli autobus e le urla a squarciagola degli strilloni, un mondo sfolgorante di rumori e di luci che per un po’ di anni ancora non avrebbe conosciuto.
La sera, per fortuna, i genitori non entravano mai in camera sua. Il padre leggeva il giornale e pensava ai suoi conti. La madre preparava la cena e controllava che la sala da pranzo fosse in ordine. Denis rimaneva da solo sul letto, a fantasticare al buio. In sottofondo sentiva la radio che suo padre accendeva per ascoltare il notiziario. Quando captava Radio Londra, commentava le notizie con la moglie. L’anno prima, la sera in cui avevano annunciato l’inizio del ripiegamento dei tedeschi a Stalingrado, si era precipitato tutto contento in camera di Denis, con la vestaglia slacciata:
«I russi stanno vincendo» aveva proclamato. «Ci siamo, i russi hanno la meglio. I crucchi dovranno andarsene».
Poi, di fronte allo scarso interesse di Denis per la notizia, aveva borbottato qualcosa tipo: «Povera Francia», e se n’era tornato in soggiorno, al suo giornale e ai suoi conti.
Quella fu l’unica occasione in cui Denis venne disturbato. E comunque i crucchi non accennarono minimamente ad andarsene e Denis continuò a vederli in giro per la città nella loro uniforme verde marcio, stanchi e indifferenti.
In classe Denis non faceva più alcuno sforzo. Era stato ripreso da una frenesia incontenibile. Tanto più che, nelle settimane successive al suo secondo incontro con suor Clotilde, la maggior parte degli alunni, quasi si fossero messi d’accordo, era in preda alla stessa smania di ridere, alla stessa irrequietezza.
Il loro professore principale – francese, latino e greco – era un ometto tondeggiante, anche lui un prete gesuita, con una vecchia tonaca e calzini a fisarmonica sulle caviglie. Camminava per i corridoi a piccoli passi, con la testa alta e la mano appoggiata sul petto, tra due bottoni della tonaca. Gli alunni gli avevano affibbiato il lusinghiero nomignolo di Napoleone. Un Napoleone timido, un Bonaparte panciuto, caporale a vita. Inoltre era affetto da un tic: aveva le guance paffute e quella di destra si gonfiava in continuazione, formando una bolla d’aria. O almeno così sostenevano gli alunni. Poteva anche essere che Napoleone premesse la lingua contro la guancia per creare quella protuberanza, ma tutti erano convinti che si trattasse di una bolla d’aria. L’impressione generale era che il mite, tenero, adorabile reverendo padre Raymond Bellon della Compagnia di Gesù masticasse una cicca di tabacco.
Tutti gli anni, durante le sue lezioni, si assisteva immancabilmente agli stessi scherzi, alla stessa cagnara. Talvolta padre Bellon andava in collera e minacciava di prendere provvedimenti che, nella sua bonomia, riteneva tremendi, ma bastava che l’alunno punito andasse da lui durante la ricreazione per farsi assolvere seduta stante da qualsiasi colpa.
Il putiferio che si scatenava durante le sue ore di lezione era grandioso. L’aula si trasformava in un ring, in un corridoio intercontinentale di aeroplani di carta, in un campo di tiro, in un mercato di francobolli, in una pista di pattinaggio. Quando non riusciva più a farsi sentire, Napoleone si alzava in piedi bruscamente e, commettendo un grave errore tattico, se la prendeva con il più scalmanato:
«Rebbia, esca immediatamente!».
Al che Rebbia si alzava con un sorrisetto beffardo sulle labbra:
«No, padre».
E gli altri di rincalzo:
«Bravo, Ramon!».
«Rebbia, fuori!».
Il povero reverendo inghiottiva saliva e cicca, mandava giù tutto per la rabbia.
«No, padre».
I compagni mugugnavano:
«Non ha fatto niente, non è giusto!».
«Anche lei, Leterrand, fuori!».
E Rebbia:
«Non ha fatto niente, non è giusto!».
Padre Bellon, rivolto a Ramon:
«Rebbia, le ho già detto di uscire».
Jacky, alzandosi con la solita aria indolente:
«Non ha fatto niente, non è giusto!».
Il padre:
«Fuori anche lei!».
Jacky:
«Perché? Non ho fatto niente, non è giusto».
Il padre:
«Ha avuto da ridire».
Jacky, con entrambe le mani premute sul petto:
«Chi? Io? Ma senti! Questa poi!».
E gli altri, in coro:
«Lui non c’entra! È stato Prieffin!».
Il padre:
«Silenzio! Prieffin, fuori anche lei!».
Prieffin, con le lacrime agli occhi:
«Ma non ho fatto niente, non è giusto!».
E i compagni:
«È stato lui! È stato lui!».
Il padre:
«Si ribella, Prieffin? Esca subito!».
Prieffin si metteva a sedere, prendendosi la testa tra le mani, sconsolato:
«Non ho fatto niente, non è giusto».
Sentendo allora che gli altri si erano calmati, che anzi erano dalla sua parte, padre Bellon si ostinava:
«Avanti, Prieffin, esca».
«Ma insomma...».
«Molto bene! Ve la farò vedere io...».
Ma padre Bellon non dava mai seguito alle sue minacce e la cosa finiva lì. La classe si zittiva. Ognuno restava tranquillo al proprio posto e il reverendo continuava la lezione. E poco dopo tutto ricominciava più o meno da capo.
Il sorvegliante, Bambolina, era più severo. Non c’era verso di farsi abbonare le punizioni che distribuiva a piene mani durante le ore di studio. Ma, come diceva Cossonier, la pipì valeva lo spasso. Gli alunni erano un centinaio. Cosicché, quando la terza divisione si scatenava l’intero istituto lo veniva a sapere.
Prima di entrare nell’aula di studio, alla fine della ricreazione delle quattro, tra i compagni circolò un ordine partito da chissà dove. Un ordine perentorio:
«Alle cinque, quando Denis sventolerà un fazzoletto, strusciate i piedi sul pavimento, aprite i banchi e tirate fuori tutti i dizionari».
Salirono in classe in silenzio. Fino alle cinque, dopo la preghiera e la lettura da parte del sorvegliante di qualche pagina di un romanzo di Finn, nella grande aula regnò la calma più assoluta.
I ragazzi erano tremendamente euforici e impazienti. Di tanto in tanto alzavano lo sguardo all’orologio a muro e si scambiavano sorrisi d’intesa. Denis guardò Pierrot. Anche lui sorrideva. Tréville si rosicchiava le unghie. Ramon si voltò verso Milhaud e gli strizzò l’occhio. Renaud sbirciava fuori dalla finestra continuando a sfogliare un libro senza guardarlo.
L’ultimo minuto fu lungo e pesantemente silenzioso. Alle cinque Denis tirò fuori il fazzoletto, si alzò pian piano e di colpo si scatenò l’inferno.
Solo alla fine dell’ora fu ristabilito l’ordine. Tutti gli alunni, nessuno escluso, si misero a strusciare i piedi sul pavimento e ammonticchiarono i libri sul banco per farli cadere a terra con un frastuono spaventoso. Da ogni direzione e in ogni direzione sfrecciavano palline di carta masticata, imbevute di inchiostro rosso, tra i banchi si formarono delle trincee strenuamente presidiate, e Bambolina, in piedi, urlava, impotente, patetico nella sua collera vana, e distribuiva punizioni a casaccio, evitando però di colpire i più turbolenti per non rischiare di aizzarli ancora di più.
Ed è così che Denis trovava il modo di pensare ad altro durante la giornata.