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L’indomani, a scuola, Denis era prostrato, apatico, ma dentro di sé ribolliva di impazienza, e in certi momenti lo assaliva una strana voglia di piangere. Pierrot non c’era, probabilmente era malato. Gli altri continuavano a fare il solito baccano in classe. Durante la lezione di Napoleone, Ramon si voltò verso di lui e gli diede una pacca:

«Che cos’hai oggi? Non sei dei nostri?».

«No» disse Denis.

«Non ti va di divertirti?».

«No» disse Denis.

«Non dirmi che sei diventato un lecchino?».

«No» disse Denis.

«Allora che hai?».

«Allora va’ a quel paese».

Finita la lezione scese in cortile con gli altri e cercò di interessarsi a una partita di calcio. Ma non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di suor Clotilde. Nell’ora di studio si applicò diligentemente. Quel pomeriggio non ci fu la solita confusione. Il sorvegliante fece aprire le finestre per il caldo. Denis finì i compiti molto prima degli altri e abbandonò la testa sulle braccia incrociate, sforzandosi di non pensare a niente. Dalla strada arrivavano i mille rumori della sera. Una campana in lontananza, una canzone, dei passi sul marciapiede, l’abbaiare di un cane, uno stridere di freni. Suoni che cullavano parole.

Con i libri sottobraccio, arrivò al convitto mentre cominciava a fare buio. Il custode lo fermò per chiedergli che cosa voleva. Era un ometto deforme. A Denis sembrò un po’ stupido. Rispose che era venuto per una lezione di latino con suor Clotilde.

«Secondo piano, a destra» disse il custode. «Prima, però, passi dalla madre superiora. Al pianterreno».

Denis attraversò un cortile circondato da castagni, simile a quello dell’istituto, e imboccò il primo corridoio che trovò. I suoi passi risuonavano come in chiesa. Al primo piano incontrò una suora che aveva già visto all’ospedale. La suora gli indicò l’aula di suor Clotilde. Prima di bussare alla porta, Denis si esaminò riflesso in una vetrata, si appiattì i capelli con il palmo della mano e si strofinò i denti con un dito.

Quando entrò, suor Clotilde stava correggendo i compiti dietro la cattedra. In fondo all’aula deserta un’unica alunna, con gli occhiali e suppergiù della stessa età di Denis, era china su un foglio. C’era una sola luce accesa. La suora rimase seduta e fece segno a Denis di avvicinarsi. Aveva un sorriso disteso, pacato, come il primo giorno. Quando le fu davanti lo guardò per alcuni istanti e poi disse con voce dolce:

«Buonasera, fenomeno».

«Buonasera, sorella. Posso aspettare fuori, se preferisce...».

«No, siediti pure. Sei passato giù dalla madre superiora?».

Si alzò, gli indicò un banco in prima fila e lui si sedette obbediente, posando i libri davanti a sé. Lei parlava a voce bassa per non disturbare la ragazza in fondo all’aula, che si era rimessa a scrivere.

«Ho chiesto a una suora in corridoio» disse Denis.

«La prossima volta vai a presentarti alla superiora. Si aspetta che tu passi prima da lei».

Adesso era in piedi davanti a lui. Lo guardò di nuovo per qualche istante, in silenzio, poi improvvisamente scoppiò a ridere. Prese un libro di Denis, il Debeauvais, e lo sfogliò. Notò che sui margini erano disegnati dei pupazzetti.

«Ha telefonato ai miei?» domandò Denis.

«Oh!».

Lei si coprì la bocca con la mano per soffocare un altro risolino.

«Sai una cosa? Stamattina ho fatto una commissione per il convitto e ho pagato con i tuoi cinque franchi! Chissà dove avevo la testa!».

Finita la frase, fissando Denis negli occhi, arrossì. Riprese subito a sfogliare il Debeauvais. Un attimo dopo fu la ragazza con gli occhiali a rompere il silenzio.

«Ho finito, sorella».

«Va bene, Françoise. Lasci il compito sulla cattedra».

Prima di uscire, Françoise prese un cappotto blu scuro appeso vicino alla porta. Passandogli davanti guardò Denis e gli sorrise come a un compagno di galera, lanciando un’occhiata in direzione di suor Clotilde, voltata di spalle.

Quando furono soli, la suora fece il giro del banco, continuando a sfogliare il libro, e andò a sederglisi accanto. Lisciò una pagina con il palmo della mano.

«Allora, proviamo a tradurre questo?».

Denis abbozzò una smorfia.

«Ho studiato fino a poco fa».

Lei richiuse il libro, rassegnata. Con le braccia sul banco e gli occhi bassi, gli chiese che cosa aveva fatto durante la giornata.

«Ho pensato a lei».

Lei ebbe un risolino forzato, sempre senza guardarlo.

«Non per tutto il giorno!».

«Per tutto il giorno» rispose Denis.

Finalmente lo guardò e il suo sguardo vacillò incrociando quello di lui.

«Non sta bene» disse.

«Lei non pensa mai a me?».

«Sì, ma... certo che penso a te» disse stancamente.

«E cosa pensa?».

«A quello che fai, a quello che dici. Non so...».

«Dico molte sciocchezze?».

Lei alzò leggermente le spalle, seduta composta accanto a lui, con la tonaca bianca, il velo impeccabile.

«No, non direi. Almeno non mi sembra».

Distolse di nuovo lo sguardo. Denis era impacciato, stare fermo lo metteva sempre a disagio. Non sapendo che cosa dire, si piegò verso di lei per posarle la fronte sulla spalla, ma lei si scostò bruscamente, come se avesse anticipato le sue intenzioni e si fosse spaventata. Subito dopo, però, nel guardarlo, si pentì del gesto sgarbato. Attirò a sé il viso di Denis, accarezzandogli teneramente i capelli, la guancia, senza dire niente. Quando lui girò la testa per baciarle il palmo della mano lei non la ritrasse, ma Denis la sentì mormorare in tono supplice qualcosa che non capì.

Poi lei si scostò e si alzò. Si sforzava di sorridere. Per darsi un contegno, andò all’interruttore accanto alla porta e accese tutte le luci nell’aula. Si voltò verso Denis e restarono a guardarsi a lungo, in piena luce, a pochi passi l’uno dall’altro, senza dire una parola.

 

 

In seguito lei gli raccontò che quella sera, nella sua camera del convitto, dopo avere tanto pregato e pianto, si era battuta con tutte le sue forze la riga di ferro sul palmo della mano sinistra, quella che lui aveva baciato.

Poi, per il dolore, in una sorta di vertigine, si era portata istintivamente la mano alla bocca. Rendendosi conto di toccare con le labbra il punto dove lui aveva posato le sue, prima di avere il tempo di riprendersi, si era baciata la mano come se fosse la bocca di Denis.

 

 

Quando tornò a casa, i suoi genitori erano in ansia e Denis dovette ribadire più volte la stessa giustificazione. Era andato a lezione da suor Clotilde.

«Ah, e chi è questa suor Clotilde?» disse sua madre.

«Una suora del convitto Sainte-Jeanne d’Arc. L’ho conosciuta all’ospedale».

«Bene, ma quanto si fa pagare?» chiese suo padre.

«Quanto si fa pagare?».

«Sì, quanto si fa pagare all’ora?».

«Niente».

«Niente di niente?».

«No».

«Allora è un affare» disse il padre.

E tornò a immergersi nella lettura del suo giornale.

Denis andò a rintanarsi in camera sua. Non voleva che si notasse la gioia immensa che lo invadeva. Suor Clotilde era per sempre sua amica. Poteva baciarla, starle vicino. Avrebbe potuto vederla tutte le volte che voleva. Non avrebbe più dovuto aspettare. E invece sì, l’indomani sarebbe stata una giornata interminabile. Davvero interminabile.

«Dunque, domani c’è Bellon. È risaputo: Bellon, che due marron. Dopo Bellon, lo studio. Vabbè. Poi, refettorio. Poi, ricreazione. Poco male. Poi, inglese. Poi, matematica. E qui sarà dura. Poi, ricreazione. Di nuovo poco male. Poi, lo studio. Due ore e mezzo di studio. Ma faremo una di quelle baraonde! E poi di corsa da lei.

«Le dirò che non faccio altro che pensare a lei. Le dirò tutto. Le dirò quanto mi piace starle vicino. Le dirò...

«Ma no, non le dirò niente. La bacerò, la bacerò e basta».

 

 

L’indomani. Lezione di greco. Per così dire... Somiglia poco a una lezione. Ci sono solo i banchi, la cattedra e il professore, in piedi, con la sua vecchia tonaca, e poi ragazzi indiavolati e un gran putiferio.

«Oggi sei di nuovo tra noi?» dice Ramon.

«Sì» dice Denis.

«Sembri contento».

«Sì» dice Denis.

«Ieri non eri contento?».

«Sì» dice Denis.

«Allora che cos’hai?».

«Allora un cavolo».

Ramon fa a botte per scherzo con Denis. Pierrot lancia palline di carta in direzione della lavagna.

«Rebbia e Leterrand, fuori!».

Tutti e due, a gran voce:

«No, padre».

«Ve la farò vedere io...».

Padre Bellon cerca di zittire gli altri. Ma gli altri non gli danno retta. Jacky è in fondo all’aula.

«Chi fa una partita a tris?» grida Jacky.

«Renaud, fuori!».

«No, padre».

E gli altri:

«Non ha fatto niente, non è giusto!».

Padre Bellon, paonazzo, inghiotte saliva e la bolla d’aria.

«Renaud, esca, altrimenti esco io».

E Renaud, magnanimo:

«Ha il mio permesso, padre».

Enorme risata e il baccano continua.

«Sei stato con lei ieri?» domanda Pierrot sottovoce.

«Al convitto» risponde Denis.

«Non sarai mica innamorato?».

Denis si batte l’indice sulla tempia:

«Di’, sarai mica un po’...? Innamorato di una suora!».

«Eppure così sembrerebbe».

«È molto simpatica».

«Già. Me l’ha detto anche Prieffin».

«Prieffin?».

«Sì».

Denis si alza e va dritto da Prieffin, che se ne sta seduto vicino alla finestra a osservare il trambusto con un sorrisetto.

«Ehi tu, senti un po’!».

«Che c’è?».

E giù un paio di sberle. Prieffin si alza e respinge timidamente Denis. Parte un altro paio di sberle.

«Prieffin le sta prendendo» grida Ramon.

Tutti si mettono a pestare i piedi.

«Che cosa ho fatto?» singhiozza Prieffin.

«Un bel niente» risponde Denis.

E giù un altro paio di sberle. Padre Bellon afferra Denis per un braccio e lo trascina via.

«Assassino! Assassino!» gridano gli altri.

Denis si divincola, accenna un saltello da pugile davanti al sacerdote e si becca l’ingiunzione di rito:

«Leterrand, fuori!».

Tutti in coro:

«No, padre!».

Denis torna tranquillamente al suo posto.

«Perché lo hai fatto?» domanda Pierrot in mezzo al baccano e alle risate.

«Sono fatti tuoi, per caso?».

«No, ma sei un bastardo».

«Deve lasciarla stare. È mia. E poi mi diverto a pestare Santarellino».

«Che cos’è tua?» si intromette Cossonier.

«Tu fatti gli affari tuoi».

«Era tanto per sapere».

«Lascia stare» dice Pierrot. «Non ti riguarda».

In quell’istante Gavenian, sulla porta: «Ventidue! Gargantua!».

Silenzio. Padre Bellon torna in cattedra.

«Pagina ventidue» dice.

Tutti aprono il libro a quella pagina e padre Bellon sorride, soddisfatto.

 

 

Nonostante il diversivo durante le ore di studio la giornata fu lunga. Cossonier aveva avuto l’idea di ficcare una moneta da due franchi nell’interruttore. Quando il sorvegliante ordinò a Prieffin di accendere la luce, l’interruttore scattò ma la luce non si accese. Prieffin si strinse nelle spalle e tornò al suo posto.

A poco a poco cala il buio e l’aula si riempie di ombre. Il chiacchiericcio aumenta. In piedi su un banco, Bambolina controlla le lampadine, ripetendo in preda all’agitazione: «Un po’ di pazienza, dev’esserci stato un cortocircuito». Nel buio ormai completo, qualcuno accende dei fiammiferi, altri ne approfittano per intrufolarsi tra i banchi e dare pizzicotti ai compagni. Finché non interviene il prefetto, che conosce da secoli quel giochino e toglie la moneta dall’interruttore. Impossibile risalire al colpevole, ovviamente. Cosicché vengono puniti tutti. Per tre giorni niente ricreazione. Resteranno tutti in aula a studiare. Ciò non toglie che Cossonier abbia avuto proprio una bella idea.

All’uscita, Denis scappò via di corsa senza aspettare Pierrot. L’aria era mite, quasi estiva. Nel rigagnolo lungo il marciapiede si formavano delle bollicine d’aria. Quel particolare senza importanza gli restò impresso nella memoria con una precisione sorprendente. Molto dopo Denis si sarebbe ricordato ancora di quella sera in cui, nella sua corsa a perdifiato contro il tempo, con il cuore che scoppiava di impazienza, aveva perso secondi preziosi a osservare le bollicine nel rigagnolo.