16

Per il resto della giornata Denis si sentì triste e mogio. Quella storia lo aveva scombussolato. Non tanto per il suo aspetto sordido, ma per quello che Prieffin gli aveva detto nella cappella. Continuavano a tornargli in mente le sue parole.

«Ho pensato che qui mi sarei sentito meglio. Che sarei stato in pace. Al pensiero della cappella mi è venuto da piangere quando...».

Quelle parole gli martellavano in testa. Tutt’a un tratto Denis rimpianse le preghiere che recitava una volta, gli slanci che aveva verso Dio e la pace che provava anche lui nel sentirsi puro. Adesso invece era un disgraziato, sporco, turpe, un dannato. Negli ultimi giorni aveva commesso i peggiori peccati, era stato addirittura sacrilego, eppure non aveva il minimo rimorso.

«Ho pensato che qui mi sarei sentito meglio...».

Era un depravato, come Debaucourt, e altrettanto solo.

Non avrebbe mai più potuto essere come gli altri, pregare in cappella, fare la comunione con quella fiducia, quella gioia sconfinata nel cuore che aveva provato qualche volta. Gli veniva da vomitare.

Alle cinque, durante l’ora di studio, lasciò sul banco il foglietto per la confessione e vide che Prieffin aveva fatto lo stesso. Passarono a raccogliere i foglietti per consegnarli ai confessori. A un certo punto chiamarono Prieffin e Prieffin andò a confessarsi. Denis non sapeva ancora che cosa avrebbe detto, ma aveva sentito il bisogno impellente di fare la richiesta. Quando Prieffin tornò, gli sembrò rasserenato, contento. Denis mormorò una preghiera tra sé ed ebbe l’impressione di essere sincero. Non del tutto sincero, ma quasi. Si sforzava in ogni modo di non pensare a suor Clotilde.

Venne chiamato molto tardi e si incamminò a passi lenti lungo i corridoi, diretto alla stanza di padre Prédel. Arrivato davanti alla porta non ebbe il coraggio di bussare. Scese nei cortili deserti. Il cielo era azzurro, la sera non scendeva. Andò a bere ai rubinetti – anche l’acqua gli dava la nausea – e decise che sarebbe stato meglio andare da padre Hervé. Con lui non si era mai confessato, sarebbe stato più facile.

Padre Hervé era il suo professore di matematica. Era un uomo alto e magrissimo. Quando camminava il suo corpo pareva guizzare sotto la tonaca attillata. Lo avevano soprannominato l’Anguilla. Denis era abbastanza in confidenza con lui. Qualche volta si fermavano a parlare dopo le lezioni. Ma non era mai stato il suo confessore, e Denis pensò che avrebbe fatto meglio ad andare da lui.

Tornò indietro senza affrettarsi. Cercò di metterci più tempo possibile ad arrivare da padre Hervé. Gli era anche passata la voglia di confessarsi. Sentiva confusamente che non era più sincero, che tutto tornava a posto. Lei lo stringeva tra le braccia candide. Scacciò disperatamente quel pensiero e bussò alla porta.

«Avanti» disse la voce tonante di padre Hervé.

Denis entrò e richiuse la porta, dando le spalle al confessore, che nel vedere la sua faccia fece un fischio.

«Qualcosa non va?».

«No, no» disse Denis con uno sforzo. «Dovevo confessarmi da padre Prédel, ma ho preferito venire da lei».

Il prete gli fece segno di inginocchiarsi. Denis sentì il suo alito sulla fronte, un misto di tabacco e eucalipto.

«Cosa c’è che non va?» gli chiese padre Hervé.

Fece il segno della croce al di sopra della testa del ragazzo e recitò una breve preghiera sottovoce.

«Ha dei peccati così gravi da confessare?».

Denis non rispose.

«La ascolto, figliolo».

Denis cercava le parole. Ricordava ancora come si faceva. Non è il genere di abitudine che si perde. Si inizia con i peccati di poco conto, dilungandosi un po’, poi si confessano rapidamente quelli grossi e infine ci si attarda su altri peccati veniali. Non aveva perso l’abitudine.

«Per cominciare, sono stato presuntuoso» disse Denis.

«Sì» disse il prete a occhi chiusi.

«Mi sono arrabbiato, spesso».

«Sì».

«Non... non dico le preghiere da più di quindici giorni. E ho commesso un sacrilegio».

«Quale sacrilegio?».

Denis fece un grosso sospiro.

«La comunione» disse. «Ho fatto la comunione in stato di peccato mortale».

«Quale peccato mortale, figliolo?».

«Ho commesso atti impuri. Ho avuto cattivi pensieri e ho...».

Si bloccò come alla ricerca di una parola che non gli veniva.

«Da solo?» domandò infine il prete.

Denis si mise a fissare il crocifisso sul muro.

«Da solo e... con una donna».

«Alla sua età? Che cos’ha fatto con quella donna?».

Denis non riusciva più a rispondere. Le parole gli restavano impigliate in gola e fu di nuovo preso dal senso di nausea.

«Deve dirmi tutto, ragazzo mio. Sarà molto angosciato».

«Veramente no, padre» rispose Denis suo malgrado.

«Non è pentito?».

«Sì, padre».

«Di tutto cuore?».

«Sì, padre».

Si sforzò di convincersi che era pentito, ma non ce la fece. Anzi, ebbe paura di commettere così un altro sacrilegio.

«Che cosa ha fatto con lei?».

«Siamo amanti» disse Denis.

«Siete... che cosa? Mio povero ragazzo, lei certo non conosce il significato di questa parola. È stata quella donna a irretirla? Ha fatto qualcosa, le ha detto qualcosa che l’ha turbata? Anche per lei era la prima volta?».

Denis ebbe un attimo di esitazione, ma poi pensò che non aveva senso esitare.

«Sì» rispose.

«Ma è un fatto gravissimo! È una parente? Una cugina? Insomma, una sua coetanea?».

Il prete aveva aperto gli occhi e Denis percepiva il suo sguardo. Scosse la testa a ogni domanda.

«Che cosa fa questa ragazza nella vita?».

«Non... non lo so...».

Poi, riprendendosi:

«Non posso dirlo».

«Ma deve dirmelo. Non si fida del segreto della confessione?».

«Sì, padre, ma...».

«Deve dirmelo, ragazzo mio».

«È una suora» disse Denis con una facilità che lo sorprese.

Il prete rimase in silenzio per diversi secondi. Quando Denis osò finalmente guardarlo vide che aveva gli occhi sgranati, stupefatti più per l’assurdità di quella storia che per l’enormità del peccato. O almeno questa fu l’impressione di Denis.

«Non deve più rivedere quella sciagurata» disse alla fine padre Hervé. «Abita in città?».

«Non sono tenuto a dirlo» rispose Denis.

«Oh, sì, invece».

«Sì, abita in città».

«Bene. C’è altro?».

«Ho raccontato delle bugie ai miei genitori. Sono stato goloso».

«Sì».

«Sono stato insolente con i professori. Mi sembra che sia tutto».

«Sì».

Ci fu un interminabile silenzio.

«Deve promettermi che non rivedrà più quella donna».

«Lo prometto» disse Denis.

«Deve promettermi anche di non pensare più a lei, se non nelle preghiere, per la remissione dei suoi peccati».

«Lo prometto».

«Reciterà tre decine di avemaria per chiedere perdono a Dio. La Sua misericordia è infinita. Le forze del male, il demone della carne non possono nulla contro la Sua bontà e la Sua misericordia. Dica con me l’atto di dolore».

Denis recitò la preghiera con il prete, ma doveva esserci lo zampino del diavolo perché ripeteva le parole a pappagallo senza crederci. Poi padre Hervé gli diede l’assoluzione.

«Vada, figliolo, e veda di non cadere più in tentazione» concluse. «Torni a trovarmi presto».

«Grazie, padre» disse Denis. E si alzò.

Uscendo gettò un ultimo sguardo al prete. Padre Hervé, in piedi, lo fissava con aria perplessa, come se gli sfuggisse qualcosa.

 

 

Nella cappella non c’era nessuno, e Denis si inginocchiò in un angolo, sotto la Madonna, nello stesso posto dove si era inginocchiato Prieffin. Con la testa tra le mani cominciò a recitare le avemarie. Ma non riusciva a concentrarsi.

Ripensò al sacrilegio commesso senza la minima contrizione. Continuava a tornargli in mente il viso di suor Clotilde, e all’improvviso lo assalì l’angoscia: lei lo stava aspettando e lui non si sarebbe presentato.

Dio. Suor Clotilde mi ha dato più gioia di quanta me ne abbia mai data Dio. Riprendere la strada di Dio e dimenticare suor Clotilde. Tutto finito. Dio. In questi giorni sono stato felice e sereno. Felice come non mai. Dio non mi dà questa felicità. Dio mi dà una gioia ansiosa, passiva. Ma io sono vivo, Signore, voglio una gioia viva».

Questo senso di nausea che non passa.

Sono uno stupido. Mi sto comportando da stupido per una sciocchezza. Per una storia che non mi riguardava rovinerò la mia felicità, tutta la mia felicità. Amanti. Il significato della parola. Smettere di vederla. Stupido. Gli piacerebbe, a Hervé. Vi piacerebbe, a tutti.

No. Pensaci, razza di banderuola! Bene. Non importa. Non ho nessun rimorso. Non mi pento di niente, ne sono sicuro. Continuava a fissare la statua della Madonna.

Che mi guardi pure, tanto non vede niente. Sono tutte balle. Vogliono costringermi a crederci? Al diavolo tutti quanti con le loro balle. Capito? Al diavolo tutti quanti! E pazienza se mi sentono. Se l’inferno non esiste, bella fregatura essersi rovinati la vita! Mi prenderà un colpo quando mi sveglierò da morto. La scommessa di Pascal. Balle. Mi vendo l’anima per un bacio. La nostra stanza. Il tuo sguardo, le tue braccia, le tue labbra schiuse, il tuo viso estatico sul cuscino, sei tu la mia anima.

Farò piazza pulita. Manderò tutti a quel paese. La Madonna, le loro balle, le penitenze, le confessioni, le loro chiacchiere... Capito? Vi mando tutti a quel paese. State freschi se credete di fregarmi. Non ho niente di cui pentirmi, perché sono vivo.

Stare con lei. Pensare solo a lei... La mia vita nei suoi occhi. È così, ricordi? Noi due riflessi nello stesso specchio.

Oh, sapessi quanto ti amo! Sono blasfemo, lo so, ma ti amo. Più di qualsiasi cosa, più di Dio, più di questa statua, di questi simulacri di gesso. Ti amo.

Si sentiva il cuore in gola al pensiero di lei che lo aspettava, a braccia aperte, con quel suo sorriso.

Quando si alzò, era risoluto, calmo. Una calma solo interiore, il corpo era teso. La Madonna aveva uno sguardo vacuo. Andò verso di lei, indugiò un istante di fronte alla statua, ascoltando il battito del suo cuore, e fu ripreso dalla nausea. «Sono proprio un imbecille» pensò. «Ho una fortuna sfacciata e mi lascio suggestionare da un ragazzo che piange in una cappella. Che assurdità. Comunque, meglio così. Adesso so quello che voglio. Ma è stata un’esperienza utile. Se continuo così andrà tutto bene. Andrò avanti per la mia strada. Succeda quel che succeda, so il fatto mio, adesso so di che si tratta».

Si avviò tra le panche. Sulla porta, guardò un’ultima volta l’altare. Non gli piaceva andarsene via così. Ci voleva un gesto definitivo, solenne, doveva mettere un punto fermo.

Ma non fece niente. Alzò le spalle e uscì. L’ora di studio stava per finire. Non aveva terminato i compiti, ma non gliene importava. Si diresse verso i gabinetti dei grandi, entrò in uno a caso, si cacciò un dito in gola e vomitò. Uscendo bevve un po’ d’acqua dal rubinetto per mandare via il cattivo sapore e rimase a lungo immobile.

L’agitazione era scomparsa. Si sentiva felice e libero pensando alla stanzetta che lo aspettava. Si ficcò le mani in tasca e tornò senza fretta in aula. Il sole divampava dietro gli edifici dell’istituto.