Passò anche maggio, più o meno come gli altri mesi. L’intera città, gravata dal caldo, si rintanava nelle strade ombreggiate. Ma sotto la calma di quella primavera troppo bella, sotto l’apparente tranquillità diffusa, covava un nervosismo crescente.
Nella luce radiosa della sera passeggiavano fianco a fianco sul lungomare, fermandosi alla chiesetta deserta. Non restavano molto insieme, quelle sere. Suor Clotilde rientrava presto, prima della preghiera, per compensare in qualche modo il ritardo degli altri giorni.
All’inizio del mese la signora Leterrand era andata al convitto per fare la sua conoscenza. Si erano incontrate alla presenza della madre superiora. La signora Leterrand era molto diversa dal figlio. Posata, prudente, soppesava ogni parola, disponendo lentamente una frase dopo l’altra, come se avanzasse su un terreno già preparato. Alla lunga una conversazione con lei sarebbe diventata insostenibile, ma per fortuna non si trattenne per molto, si limitò a ringraziare suor Clotilde per essersi presa a cuore Denis e le chiese se poteva venire a fargli lezione a casa. Suor Clotilde non era sulla difensiva, non si trincerava nelle pieghe di ogni frase. Questo avrebbe complicato le cose, pensò. Ma non ebbe il tempo di rifletterci a fondo. La madre superiora diede il suo assenso, ritenendo preferibile non creare precedenti con l’andirivieni di ragazzi al convitto. Suor Clotilde si rimise alla sua volontà. Dovette poi dissimulare un improvviso trasalimento allorché la superiora osservò che Denis non si vedeva da qualche giorno. Per fortuna la signora Leterrand non sentì, già intenta a formulare la frase di commiato più adatta.
Quando la madre di Denis se ne fu andata, la superiora trattenne suor Clotilde in parlatorio ancora per un istante.
«Pensa di andare spesso dai Leterrand?».
«Due volte a settimana, con il suo permesso» rispose suor Clotilde. «Magari un po’ più di frequente quando sarà sotto esami».
La superiora fece un cenno di assenso con il capo.
«È un bravo ragazzo?» le chiese.
«Molto. Gli voglio un gran bene».
«Cerchi di non affezionarsi ai ragazzi» si raccomandò la superiora. «Altrimenti prima o poi viene il rimpianto di non aver avuto figli. So di che cosa parlo, mi creda».
Tacque e sospirò.
«Anche a me sarebbe piaciuto avere dei figli» aggiunse. «Ma la nostra missione è un’altra».
Suor Clotilde stava in guardia.
«Ma lei ha centinaia di figli, madre» disse. «Non sono anch’io figlia sua, come le mie consorelle?».
La madre superiora la squadrò apertamente. L’esame sembrò soddisfarla.
«Venga» disse, prendendo suor Clotilde per il braccio. «Stiamo qui a dire sciocchezze e il dovere mi chiama. Devo occuparmi delle mie figlie».
Nelle tre settimane seguenti suor Clotilde andò spesso dai Leterrand, in modo da crearsi un alibi e poter tranquillamente rientrare più tardi le sere in cui si incontrava con Denis nell’appartamento di Madeleine. Alla fin fine non le dispiacque di aver accettato, suo malgrado, la proposta della madre del ragazzo.
L’ultimo lunedì del mese tutti gli uomini che non erano in Germania o tra le file dei partigiani misero in giro la voce che ci sarebbe stato uno sciopero per chiamare alla resistenza gli abitanti del Sudest. Gli occupanti continuavano ad andare e venire in piena tranquillità, ma tutti sapevano come stavano le cose.
«Sono allo stremo» diceva la gente. «L’Africa, l’Italia, perdono tutto. Gli americani si preparano a sbarcare. Vedrete, per il 14 luglio saranno a Parigi».
A Denis non interessava quello che si diceva in giro. Per lui la guerra si riduceva ai notiziari al cinema e agli allarmi. E non prendeva sul serio né gli uni né gli altri. Gli allarmi erano sempre ingiustificati e la gente continuava a camminare per la strada come se niente fosse finché le sirene non annunciavano il cessato pericolo. I notiziari che Denis vedeva al cinema con i suoi genitori raccontavano che le truppe tedesche, sempre superiori, sbaragliavano l’esercito nemico ed effettuavano ripiegamenti strategici. I ripiegamenti strategici lasciavano del tutto indifferente Denis, il quale pensava che la soluzione migliore, visto come stavano le cose, era che se la vedessero tra «loro». Ad ogni modo, suor Clotilde aveva detto che gli Alleati avrebbero vinto la guerra. Quindi avrebbero vinto la guerra. Che «loro» combattessero e lasciassero gli altri in santa pace.
Pochi giorni dopo cominciò lo sciopero. Ma, con grande disappunto degli studenti, la partecipazione fu piuttosto modesta. I negozi erano rimasti quasi tutti aperti e i tram circolavano. La giornata trascorse senza incidenti, a parte lo scoppio di una bomba nella sede della Gestapo, che si trovava nel quartiere dell’istituto. Il sorvegliante della prima divisione raccontò che la bomba aveva distrutto un intero piano e ucciso tre militari, tra cui un colonnello. I tram rientrarono comunque al deposito prima del solito.
Quella sera Denis incontrò suor Clotilde alla chiesetta e dovette tornare a casa a piedi.
L’indomani i tram non circolavano. La signora Leterrand disse che l’istituto era troppo lontano per andarci a piedi e Denis restò a letto. Verso le nove si lavò, si vestì e uscì per andare a tagliarsi i capelli. C’era un barbiere all’angolo della strada. Denis entrò e si mise a leggere una rivista in attesa del suo turno.
In quel momento suonò l’allarme aereo.
«Ci risiamo» disse il barbiere, un ometto calvo. «Ecco che ricominciano».
«Tranquillo» disse un cliente. «È la solita farsa».
«Sì, ma le sirene mi innervosiscono. Mi danno il tremore. È più forte di me, quando le sento inizio a tremare».
Denis continuò a leggere. L’allarme perdurava. Il barbiere cominciò a tagliargli i capelli. Denis si guardava allo specchio ascoltando le chiacchiere.
«È già mezz’ora che va avanti» disse il barbiere. «Le altre volte finiva prima».
«Mi raccomando, stai attento a non tremare con il ragazzo» disse il cliente di prima. «Altrimenti finisce che gli tagli le orecchie».
«Oh, poverino!» esclamò il barbiere. «Non tremo più, stai tranquillo. Mi innervosisco solo quando sento le sirene. Hai visto che non tremo, figliolo?».
«Spero proprio di no» disse Denis. «Ci tengo alle mie orecchie».
Il barbiere si mise a ridere e guardò Denis nello specchio.
«Sei un bravo ragazzo» disse. «E di bell’aspetto. Chissà quante conquiste!».
«Non mi lamento» disse Denis.
Il barbiere tacque e riprese a tagliargli i capelli. Una volta finito gli tolse l’asciugamano dalle spalle.
«Bello come il sole» disse.
Denis pagò alla cassa e uscì.
«Arrivederci, figliolo» disse il barbiere. «Non avere paura, non te le taglio le orecchie. Tremo solo quando sento le sirene».
Mentre si incamminava lungo il marciapiede Denis si ricordò che sua madre gli aveva detto di passare a comprare una bottiglia di vermut al bar sotto casa perché l’indomani sarebbero venuti gli zii a pranzo. Nella penombra fresca e silenziosa del bar c’era poca gente.
«Mi dia una bottiglia di vermut» chiese Denis alla barista. «Cinzano. È per mio padre».
La donna gli fece segno di tacere e andò a prendere la bottiglia. Denis si chinò a sfogliare il giornale che era su un tavolo. Qualcuno commentò che quelli delle tasse se la passavano bene, ma Denis non ci fece caso. Soltanto quando gli aerei arrivarono sulla città si accorse dei presenti. Uno a uno si alzarono in piedi, con gli occhi rivolti al soffitto, in ascolto.
«Ehi, stavolta fanno sul serio» disse uno di loro.
Un attimo dopo si sentirono forti esplosioni provenire dal mare. Denis andò sulla porta per guardare il cielo. Ma non vide niente. Il cielo era azzurro. La gente per la strada aveva cominciato a correre.
«Io me ne vado» disse uno degli avventori. «Se stavolta fanno sul serio, vado nel rifugio».
Le esplosioni si intensificarono in rapida successione.
«È la contraerea» disse l’uomo uscendo per strada.
Sul marciapiede si voltò verso gli altri. Rimase in ascolto.
«È la contraerea» ripeté. «La riconosco, ero nella contraerea nel ’40. Non avevamo neanche le granate da tirare».
«Allora come fai a sapere che rumore fanno?» replicò un altro. «Con artiglieri come te non c’è da stupirsi che ci siamo presi una batosta».
L’uomo si allontanò senza rispondere. Anche Denis uscì, quando il fragore delle esplosioni si fece più forte. Per strada la gente, spaurita, correva a gruppetti verso i rifugi. Denis si era dimenticato della bottiglia. Sarebbe tornato dopo a prenderla. Quando arrivò a casa, cominciarono a cadere le bombe dalle parti della stazione e oltre, dall’altra parte della città, verso il porto.
La signora Leterrand si affannava a cercare i documenti e i soldi che teneva in un cassetto.
«Scendi!» urlò a Denis. «Non rimanere qui. Va’ di sotto!».
«Ti aspetto» rispose Denis. «Papà starà arrivando».
«Scendi!» urlò sua madre. «Ti supplico, scendi o ti prendo a sberle!».
«E va bene» disse Denis.
E scese.
Di sotto, nell’atrio, si era radunato un gruppetto di inquilini che parlottavano tra loro in piedi. Altri stavano scendendo le scale a precipizio. Le bombe cadevano sempre più vicino.
«Sono su di noi!» gridò a un tratto uno degli inquilini andando a chiudere il portone.
«Attenzione, arrivano! Allontanatevi dalla porta!».
Gli altri, uomini e donne, si acquattarono nei pressi delle scale. Denis salì qualche gradino e alzò lo sguardo ai piani superiori. Gli aerei si sentivano distintamente.
«Mamma!» gridò. «Scendi!».
«Scendo» rispose sua madre da sopra. «Non aver paura, tesoro, arrivo».
«Non ho paura, per la miseria!» gridò Denis. «Ma scendi subito!».
Doveva essere al secondo piano quando incominciò la gragnola. Ci fu una serie terrificante di esplosioni. Denis, sdraiato per terra, vide il muro della cantina sussultare e creparsi.
«Scendi!» ripeté.
Ma il frastuono copriva la sua voce. Si ammassavano tutti gli uni sugli altri nel corridoio. A un certo momento, Denis sentì una donna implorare san Cristoforo o sant’Antonio. Era la prima volta in vita sua che vedeva degli adulti terrorizzati.
Quando la madre arrivò, la tirò a sé e l’abbracciò stretta. Anche lei era atterrita. Aveva un po’ di sangue sulla guancia e sui capelli.
«E questo cos’è?» chiese Denis.
«Non è niente. I vetri delle finestre di sopra sono andati in frantumi».
Si udì uno strano sibilo, molto in alto, sopra i tetti, in mezzo al rombo degli aerei. Il sibilo continuava, amplificandosi, e tutti si strinsero ancor più gli uni agli altri, spalla contro spalla, a testa china, con le facce stravolte dalla paura.
Il fragore fu assordante. Le persone avevano la bocca spalancata e gridavano. Ma le loro grida non si sentivano. Si vedevano solo delle bocche aperte nel fragore. Il pesante portone di ingresso, con la serratura sfondata, sbatteva contro il muro. Vedendo tremare il pavimento per effetto delle esplosioni, Denis aveva temuto che il palazzo crollasse. Invece era rimasto in piedi.
Erano tutti stesi a terra, in ascolto, e alcune donne piangevano. Denis pensava a suor Clotilde e si diceva: «Ecco quale sarà il mio castigo, lei rimarrà ferita o morirà». Le esplosioni scemarono e, a poco a poco, ritornò il silenzio. L’uno dopo l’altro tutti si alzarono, ma aspettarono il suono delle sirene prima di riversarsi in strada. Intorno al palazzo c’erano cumuli di macerie e di terra. Su un mucchio di pietre era riverso il corpo di una donna, nudo e tutto annerito. La donna era morta. C’era fuliggine dappertutto, nerastra e fumante.
Denis si passò una mano sul viso e la mano si tinse di nero.
«Speriamo che papà torni» disse sua madre, accanto a lui.
Tremava ancora e Denis la cingeva per la vita.
«Vedrai che adesso arriva».
Camminarono lungo la strada. La gente usciva di casa per vedere i danni. Il negozio del barbiere non esisteva più. Alcuni uomini trasportavano un corpo. Era un cadavere, ma dal camice stracciato e insanguinato Denis riconobbe il barbiere. Aveva la testa quasi staccata dal corpo e le braccia penzoloni.
«Ecco» pensò Denis. «Adesso non tremerà più».
Insieme a sua madre andò fino in fondo alla strada, a passi lenti. Si fermarono sul marciapiede. Il cielo era sempre azzurro e la vita continuava.