23

La madre superiora arrivò un sabato, verso la metà di settembre. Aveva scritto ben due volte per avvisare, ma le sue lettere non avevano ricevuto risposta. Non c’era niente da rispondere. La aspettarono tutto il giorno e arrivò verso sera, dritta, bianca, accompagnata sul vialetto di casa da un ragazzo dell’età di Denis che le portava la valigia. Si fermò davanti alla casa e liquidò il ragazzo. Gli diede una mancia. Dopo aver rivolto un lungo sguardo ai due amanti immobili sulla soglia, il ragazzo si allontanò fischiettando. La superiora raccolse la valigia e proseguì fino alla porta. Suor Clotilde teneva Denis per mano e gliela strinse forte.

«Buonasera» disse la superiora.

«Buonasera, madre» disse suor Clotilde.

Lasciò andare la mano di Denis e Denis restò in silenzio.

«Buonasera, figliolo» insisté la superiora.

Denis non rispose.

Lei prese la valigia e fece entrare la superiora. Aveva la tonaca macchiata. Pareva stanca. Suor Clotilde aveva tenuto una delle sue gonne estive, ma la superiora non fece nessun commento. Denis notò che portavano entrambe un identico anello d’argento alla mano sinistra. Entrarono in quella che era stata la sua stanza preferita, la loro stanza, e lui si avviò verso il bosco.

Passò rasente agli alberi e prese un po’ di resina con le dita. Si sdraiò su un letto d’erba e di ramoscelli di abete. Sentiva le dita appiccicose e si mise l’indice in bocca per succhiarlo. La sera calava lentamente. Un maggiolino gli si arrampicò sulla camicia. Denis lo scacciò via e lo guardò scomparire tra l’erba. Poi alzò gli occhi e vide il cielo incupirsi sopra il paese. Sulle montagne splendeva ancora un sole radioso. Denis si rimise il dito in bocca e chiuse gli occhi.

 

 

La superiora, seduta sul divanetto, scrutava la giovane che se ne stava in silenzio vicino alla finestra.

«Il ragazzo dov’è?» chiese.

«È andato nel bosco» rispose suor Clotilde con voce stanca. «Preferisce non essere presente in questo momento».

«Meglio così. Potremo parlare liberamente» disse la superiora.

Intrecciò le mani e si alzò. Si avvicinò alla giovane che continuava a stare in piedi, in controluce, voltata di spalle.

«Vieni a sederti vicino a me» le disse. «Fatti vedere per bene».

Suor Clotilde si girò e la guardò dritto in faccia. La superiora si accorse per la prima volta di quanto era bella e della profondità del suo sguardo.

«Non vuole cenare, prima?» disse la giovane dai capelli riccioluti. «Possiamo parlare domani. Dev’essere stanca morta per il viaggio».

«Sono stanca,» disse la superiora «sì, stanca, esausta, ma voglio chiarire tutto stasera. Domani tornerai indietro con me, e anche il ragazzo. C’è un treno a mezzogiorno. E comunque non posso stare via troppo a lungo. Insomma, devi capire e fare come ti dico».

«Non posso».

«Sì che puoi!» esclamò la superiora afferrandola per le spalle. «Non c’è altra via di uscita, capisci? Prenderemo quel treno e torneremo indietro tutti e tre, lui dai genitori e tu in convento».

Poi volle visitare il piano di sopra. Domandò dove fosse la camera di Denis.

«Occupiamo la stessa» disse la giovane.

La superiora aprì la porta della loro camera. Fino a quel momento era riuscita a trattenersi, ma alla vista del letto sembrò di colpo più rugosa, più curva, più anziana. Si voltò verso suor Clotilde e alzò un braccio per schiaffeggiarla, in preda alla disperazione, ma la giovane la trattenne per il polso.

«La supplico!» implorò suor Clotilde. «La supplico!».

La superiora la spinse nella stanza. Suor Clotilde si sedette sul letto e si mise a piangere. Dopo un lungo silenzio, la superiora le si avvicinò e disse:

«Smettila, non serve a niente. Guardami».

Suor Clotilde alzò la testa e la guardò.

«Era già successo, al convitto?».

«Sì».

«Quando?».

«Non lo so. Avevo paura, sapevo che sarebbe successo, non potevo farci niente. Ho cercato di...».

«Quando?» ripeté la superiora.

«A casa di Madeleine».

«Sei una svergognata!».

La prese per le spalle e iniziò a scuoterla, a scuoterla, poi, di colpo, si portò una mano al cuore e dovette sedersi. Dopo alcuni istanti, con voce strozzata, addolorata, disse:

«È tutta colpa mia. Non ti sono stata accanto come avrei dovuto. Eri sotto la mia custodia e non ti ho protetto. Avevi bisogno di me e io non ho capito niente! È colpa mia».

«Non è colpa di nessuno».

«Tornerai indietro con me» disse la superiora.

«Non posso».

«Come sarebbe? Che cosa non puoi? Eppure hai potuto mentire! Eppure hai sorriso mentre... mentre...».

Non trovava parole abbastanza turpi.

«E questo? Questo potevi farlo?». Afferrò la coperta con la mano rugosa, come per strapparla via dal letto. «E questo?». Le tirò la camicetta, subito sotto la spalla. «Che cosa non puoi? E di cosa sarai ancora capace? Potrai guardare in faccia i tuoi genitori? E i suoi? E guardare lui? Lo corrompi, lo rovini e riesci a guardarlo in faccia?».

Suor Clotilde ricominciò a piangere.

«La prego, non dica così».

«Che cosa non dovrei dire? Che ti approfitti della sua ingenuità e della sua infatuazione? Ho parlato con i suoi genitori. Ha quattordici anni».

Poi successe una cosa strana, che rimase per sempre impressa nella memoria della giovane. Lei piangeva. Una lacrima le cadde sulla gonna estiva, ma scivolò via sul tessuto inamidato come una perla, andando a fermarsi poco sopra le ginocchia. La superiora allungò l’indice e la schiacciò.

Discussero a lungo. La superiora diceva: «Tu non capisci». Suor Clotilde diceva: «Lei non capisce». La superiora parlava di un Dio indifferente e terribile, di una giovane, poco più che una ragazzina, che un giorno si era distesa sul pavimento della cappella con le braccia in croce. «Tu sei l’amante di Cristo per tutta la vita, per l’eternità» ripeteva. Suor Clotilde parlò di Denis:

«Non voglio fargli del male. Lei non capisce. Voglio restare con lui. Voglio che ci lascino in pace. Il Dio in cui credo sa che persone siamo e Lui capisce, Lui è d’accordo con noi, ne sono sicura».

«Tu bestemmi» disse la superiora. «Sei impazzita, non sai quello che dici. È il diavolo che parla in te. La collera di Dio si abbatterà su di te».

Nel frattempo si era fatto buio.

A un tratto la giovane afferrò la superiora per le spalle e la scosse, come prima l’altra aveva fatto con lei, gridando:

«Lo amo, non capisce? Amo solo lui, non voglio lasciarlo!».

«Sarai costretta» disse la superiora. «Se non vi riporto a casa io, quanto tempo credi che ci vorrà perché lo rinchiudano in un collegio? O perché rinchiudano te?».

La giovane la lasciò andare e si scostò. Guardò inorridita, sforzandosi invano di riconoscerla, la vecchia che aveva davanti e che le appariva estranea come il resto del mondo.

«Ha quattordici anni» ribadì la superiora. «Quello che hai fatto è un reato anche per la legge degli uomini, sei colpevole anche davanti agli uomini».

Le cose andarono così. La superiora parlava, parlava, ripetendo sempre le stesse parole, le stesse frasi, china sulla giovane, che si era gettata bocconi sul letto, aggrappandosi disperatamente al pensiero di Denis: Denis nella macchina in fondo al fienile, Denis tra le sue braccia quando facevano l’amore, Denis che era cresciuto ancora durante l’estate e che qualche giorno prima si era misurato con un metro da sarto e aveva riso, tutto orgoglioso – una risata indimenticabile –, perché era dieci centimetri più alto di lei. Quattordici anni e due mesi.

«In nome del ragazzino che era prima di questa follia,» diceva la superiora «in nome della ragazzina che sei stata, dimentica tutto, cancella tutto. Ti prometto che questa faccenda resterà tra me, te e il tuo confessore. Non ne parleremo più, te lo prometto».

Così andarono le cose.

 

 

Lei era rimasta in gonna e camicetta. Non piangeva più. Era con la superiora fuori di casa e le indicava i punti illuminati tutt’intorno. A un tratto la superiora le disse:

«Va’ a parlargli adesso».

Suor Clotilde andò verso il bosco e lo chiamò, ma lui non c’era più. Allora attraversò il cortile ed entrò nel fienile. Denis era al volante della Chenard, al buio, ritto e con un’espressione impenetrabile, non si voltò a guardarla. Avvicinandosi lei vide che sopra la camicia aveva indossato la giacca dell’ufficiale tedesco. Era un gesto puerile e terribile, come lui.

«Perché te la sei messa?».

«Così».

«Ma perché?».

«Oh, insomma, ti ho già risposto!».

Lei aprì la portiera e si sedette accanto a lui, che continuava a non guardarla, ma sapeva già. Lui sapeva sempre tutto.

Dopo un silenzio, senza osare sfiorarlo, lei gli disse:

«Ti dispiacerebbe andare in paese? Non abbiamo abbastanza pane per stasera».

Denis fece segno di sì con la testa.

«Torniamo a casa, Denis».

Denis annuì.

«Devi aiutarmi, sai».

Denis annuì. Poi si voltò giusto un istante e la guardò. Lei si aspettava di scorgergli negli occhi un’espressione di dolore, forse anche di rabbia, e un po’ era così, ma c’era dell’altro, qualcosa che la riportò al loro primo incontro, quando lei si era girata verso di lui in una stanza d’ospedale deserta e l’aveva infine visto. Se quello non era stato un segno del destino, niente aveva senso.

Denis aprì la portiera, scese dalla macchina, si avviò verso l’uscita del fienile, poi si fermò, la guardò di nuovo attraverso il parabrezza sporco e tornò indietro, vicino a lei.

«Non fa niente. Meglio così» le disse con tenerezza.

Lei capì che faceva il possibile per facilitarle le cose. Restò per sempre convinta che lui avesse detto: «Non fa niente, sorella», ma non era vero. Lo vide togliersi la giacca militare e scagliarla in fondo al fienile, per poi allontanarsi con le mani in tasca, impettito, le spalle dritte, alto, triste e orgoglioso: Denis.

 

 

La fornaia arrivò e si sorprese nel vederlo.

«Ah, è lei?».

«Sì» rispose Denis. «Vorrei una pagnotta».

La donna sorrise, senza muoversi.

«Finito di amoreggiare? La suora ritorna all’ovile?».

Denis alzò le spalle.

«Vorrei una pagnotta» ripeté.

La fornaia continuava a sorridere, un sorriso tra il beffardo e il malevolo. Andò a prendere una pagnotta e tornò da lui.

«Festa finita» ribadì.

«Mi dia il pane».

Denis tirò fuori i soldi e i tagliandi per il pane e glieli porse. Lei guardò la banconota e il suo sorriso si fece ancora più malevolo.

«Sono suoi quei soldi? È lei che ti mantiene? Mica male per una puttana!».

«Puttana sarà lei!» ribatté Denis strappandole la pagnotta di mano.

«Cosa?» esclamò la donna. «Che cos’hai detto?».

«Ho detto puttana».

La donna gli sbarrò il passo e si mise a gridare.

«Puttana! Mi ha dato della puttana!».

Arrivò il marito, richiamato dal chiasso. Aveva le mani infarinate e da sotto la canottiera spuntavano le spalle larghe e irsute. Si fece avanti, gonfiando il petto enorme. Sembrava piuttosto gagliardo e furibondo.

«È stato lui?» chiese. «Ti ha detto così?».

«Mi ha dato della puttana» strillò la donna. Aprì la porta, continuando a gridare per le scale, al buio. La gente accorse ed entrò nella panetteria. Il fornaio afferrò Denis per un braccio dicendo agli astanti:

«Ha dato della puttana a mia moglie».

«Canaglia» disse un vecchio. «Canaglia».

Denis cercò di divincolarsi e il vecchio lo colpì alla schiena con il bastone. Il fornaio gli appioppò una sberla che lo scaraventò contro il muro. A quel punto, il ragazzo che poco prima aveva accompagnato la superiora si precipitò ad avvertire suor Clotilde. Gli altri assistevano alla scena e gli uomini ridevano. Denis si passò una mano sul viso, facendo uno sforzo per riprendersi. Il fornaio stava già tornando alla carica.

«Mi lasci in pace» gridò Denis.

Si guardò intorno e a un tratto gli sembrò di ritrovarsi nel mezzo di una rissa a scuola. Si slacciò l’orologio dal polso e se lo infilò nella tasca dei pantaloni.

«Ti faccio vedere io» disse l’uomo dopo un attimo di sconcerto. «Ti darò una lezione che te ne ricorderai per la vita!».

Fece un altro passo avanti per colpirlo, ma stavolta Denis non rimase ad aspettare e, con tutte le forze, sferrò un pugno per primo, mirando agli occhi. Preso alla sprovvista, l’omaccione barcollò. Ma subito il vecchio con il bastone e gli altri paesani afferrarono Denis.

«Tenetelo fermo!» gridò il fornaio. «Tenetelo fermo! Gliela faccio vedere io!».

E cominciò a tempestarlo di pugni alla cieca. Denis vacillò, tirò un pugno a vuoto e poi crollò.

 

 

«Fatemi passare!» gridava. «Fatemi passare!».

Era in lacrime. Aveva fatto la strada di corsa. Si aprì un varco con forza tra le persone accalcate sulla porta della panetteria. Gli uomini che prima tenevano fermo Denis indietreggiarono, pallidi e rassegnati. Anche lei indietreggiò, con il viso stravolto dal pianto e dallo sgomento, nel vedere il ragazzo a terra. Denis era rannicchiato contro il muro, in ginocchio, con una gamba ripiegata e le braccia abbandonate sul pavimento. Il sangue gli colava dalle orecchie, dalla bocca e dal naso, e aveva macchie di sangue sulla camicia e sui pantaloni. Cercava di rialzarsi ma non ci riusciva.

«Denis! Piccolo mio!».

Lo sollevò per le spalle e lui le si aggrappò al collo con le braccia, macchiandole la camicetta bianca.

«Non è niente» disse con un filo di voce, ma abbastanza forte perché lei sentisse.

«Appoggiati a me» disse lei, sostenendolo mentre Denis si accasciava di nuovo, per poi rialzarsi con i lineamenti tirati, stringendo i denti. Anche i denti erano rossi e il viso si contorceva dal dolore.

«Vieni, tesoro mio» disse lei trascinandolo fuori.

Una ragazzina le porse la pagnotta che era finita sulle scale. Lei non la prese. Sorresse Denis, disgustata da tutte quelle persone che si scostavano in silenzio al loro passaggio.

Si avviarono insieme verso casa lentamente, al buio, lei lo sosteneva sussurrandogli parole che aveva temuto di non potergli dire mai più.

«Appoggiati a me, tesoro mio. Tieniti forte. Non ti lascerò. Vedrai. Non ti lascerò. Non ti lascerò mai, amore mio. Ti fa male? Ti fa molto male?».

Denis scosse la testa singhiozzando sulla sua spalla.

«Passerà» gli disse. «Appoggiati forte a me. Non ti lascerò più».

In camera, dopo avergli ripulito il viso e medicato una ferita all’angolo della bocca, lo mise a letto, rincalzandogli le coperte. Lui sembrava più calmo.

«Torno subito, non muoverti, torno subito» gli disse.

«Non potrò più baciarti» disse Denis.

«Sì, invece. Guarda».

Finalmente Denis sorrise. Aveva un occhio gonfio e una lunga ferita all’interno del labbro. Naso e orecchie avevano smesso di sanguinare.

«Torna presto».

«Tra un attimo».

«E la superiora?».

«Vado a parlarle».

«Ti lascerai crescere i capelli?».

«Fino a qui».

E indicò le ginocchia. Uscì e richiuse piano la porta. La superiora era di sotto, e dava le spalle alla finestra. Tra le mani aveva l’orologio di Denis.

«Sta meglio?» chiese.

«Molto meglio. Ha fame?».

«No».

«Allora preferirei che se ne andasse» disse la giovane. «Troverà alloggio in paese».

La superiora la seguì in cucina e posò l’orologio di Denis sul tavolo.

«Non ha cambiato opinione?».

«Non ho mai avuto un’opinione» rispose la giovane. «Mai una volta, in tutta la mia vita. Sono sempre stati gli altri a esprimere la loro opinione al posto mio. Ma questa volta ho deciso. Sono io a scegliere. Capisce? Io».

La superiora non disse nulla. Uscì dalla cucina e richiuse la porta. La giovane aspettò che i battiti del suo cuore rallentassero, prese un bicchiere e bevve un po’ d’acqua del rubinetto. Poi si insaponò le mani per potersi sfilare meglio la fede. Portava quell’anello al dito da tanto tempo, ma non ebbe nessuna difficoltà a toglierselo.

Ecco fatto. È andata. Buona o cattiva che sia, ormai ho preso questa strada. L’abbiamo presa entrambi. Senza un rimpianto, nemmeno quello di non averlo fatto prima. Doveva succedere tutto questo perché finalmente io me ne rendessi conto. Adesso ci siamo, è fatta.

Non è un granché come inizio, lo so. Ma se l’avessi lasciato sarebbe stato un inizio anche peggiore. Tra i due, scelgo quello che fa meno male. Fosse anche la cattiva strada, l’abbiamo presa insieme. E da questo punto di vista siamo sulla buona strada.

Custodiremo il nostro amore. Lasceremo che passi il tempo – cinque, sei anni? – e saremo di nuovo in piedi. Con il nostro amore rimetteremo in piedi tutto questo sfacelo. Nient’altro conta.

Avrebbe voluto essere già da lui, e il cuore prese a martellarle di nuovo nel petto. Quando uscì dalla cucina, la superiora era nell’ingresso, con la valigia in mano.

«Me ne vado» disse, sperando probabilmente di essere trattenuta.

«Vada al diavolo. Ci lasci in pace. Se ne vada pure al diavolo».

Con un gesto rapido, guardandola negli occhi, prese la mano libera della superiora, la aprì, posò sul palmo la fede d’argento e ci richiuse sopra le dita.

«Lei è pazza» disse la superiora.

«È una bella pazzia» rispose la giovane sospingendola verso la porta. La superiora oppose resistenza e lasciò cadere la valigia.

«Un momento, sorella».

«Non sono sua sorella» obiettò Claude. «Sono forse sua sorella? No. Allora non mi chiami sorella».

«Ma lo è stata, per questo le voglio bene».

«Non so che farmene del suo affetto. Se ne vada, la scongiuro».

«Prima mi lasci parlare» disse la superiora.

Era pallida. Erano entrambe pallide.

«Abbiamo già parlato molto» replicò Claude.

«Ha pensato ai genitori del ragazzo? Al mio rientro andrò da loro a raccontargli tutto. Avrei dovuto farlo già da tempo».

«Racconti pure quello che vuole» disse Claude. «Crede forse che questo cambierà qualcosa? Denis sarà costretto a tornare dai suoi? E allora? La vita è lunga, posso aspettare. Tra qualche anno sarà libero, e anch’io. E staremo di nuovo insieme».

«Sa bene che non andrà così. Tra qualche anno lei sarà per lui solo un peso, un rimorso, un mostruoso errore».

«Insomma, devo sbatterla fuori?» disse Claude. «Me lo dica, e lo faccio».

«Un mostruoso errore» ripeté la superiora. «Mi creda, ho ascoltato il suo orologio poco fa. Indovini un po’? Fa tic-tac, tic-tac...».

Raccolse la valigia.

«Povera figlia mia» disse.

«Non sono sua figlia» ribatté Claude. «Non sono né sua sorella né sua figlia. Vuole andarsene, per favore?».

«Informerò il vescovo della sua decisione. Se proprio voleva sciogliere i voti, avrei preferito che lo facesse in un modo più degno, ma dato che ormai è fatta, le chiedo solo una cosa. Per i suoi genitori e per quelli del ragazzo, per lei e per lui. La prego, lo riporti a casa! E al più presto! Ci risparmi almeno lo strazio di vederla sul banco degli imputati!».

«Lo riporterò a casa».

«Che Dio la perdoni».

«Mi ha già perdonato» disse Claude.

«Ha già cominciato a punirla» disse la superiora. «Lui regge il cielo e le stelle. Lui ha messo in moto quel tic-tac».

Era in piedi davanti alla porta aperta, con gli occhi sbarrati, pallidissima, e se ne andò, curva sulla valigia, lungo il sentiero accidentato e buio. La giovane indugiò sulla porta a guardarla allontanarsi. Le stelle brillavano sopra le cime degli alberi. Salì di corsa in camera, da Denis, lo imprigionò tra le sue braccia e lo strinse, se lo strinse forte al petto. Fece per parlare, ma lui glielo impedì, mettendole una mano sulla bocca.

«Lo so» disse. «Ho sentito tutto. Ti do il massimo dei voti».

Anche lui la strinse forte.

«Sei tu il mio amante» disse lei. «La superiora mi ha detto che devo essere l’amante di Cristo. Ma il mio amante sei tu».

Si spogliò e tornò a sdraiarsi accanto a lui. Erano soli. Loro due soli, insieme, con il loro amore vilipeso, ma vivo.