Parte seconda
L’ESILIO

I. In guerra con Firenze (1302-1304)

Arezzo e il blocco geopolitico antifiorentino

Sulla grande consorteria dei Guidi si veda Ernesto Sestan, I conti Guidi e il Casentino (1956), poi in Id., Italia medievale, cit., pp. 356-378; notizie sugli Ubaldini nella voce dell’ED di Renato Piattoli. Per Uguccione della Faggiola (o Faggiuola) rimando a Monti, Uguccione della Faggiola, cit., e alla voce del DBI di Christine E. Meek.

Il tradimento di Carlino dei Pazzi è raccontato da DAVIDSOHN, IV, pp. 318-319; il dannato Camicione parla a Dante in If XXXII 66-69.

L’Università dei Guelfi bianchi

Per la ricostruzione delle vicende dei Bianchi subito dopo l’esilio si vedano: DAVIDSOHN, IV; Pampaloni, I primi anni dell’esilio di Dante, cit., pp. 133-145; Giuseppe Indizio, Sul mittente dell’epistola I di Dante (e la cronologia della I e della II), RSD, II (2002), pp. 134-145, ai quali si aggiungano: Giorgio Petrocchi, La vicenda biografica di Dante nel Veneto, in Id., Itinerari danteschi, cit., pp. 88-103, e Francesco Bruni, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna, il Mulino, 2003, al quale rimando sia per Ildebrandino vescovo di Arezzo sia per la pratica di costituire universitates da parte degli sbanditi (pp. 54-56). Per il trasferimento ad Arezzo di Vieri dei Cerchi si legga Cino Rinuccini, Ricordi (1282-1460), Firenze, Piatti, 1840, p. VII: «A dì 4 d’Aprile 1302 fu cacciato di Firenze Messer Vieri de’ Cerchi e tutti i suoi consorti, e confiscato tutti i beni di detto Messer Vieri e messi in comune, il quale se n’andò a Arezzo e vi mandò un bando, che qualunche avessi avere da lui, mandassi là e sarebbe pagato cortesemente; e così fece pagare ognuno, e dicesi che pagò più di 80.000 fiorini, e dicesi che fu ricco di più di 600.000 fiorini».

Il contratto sottoscritto a San Godenzo è pubblicato da PIATTOLI, n. 92.

La carriera militare di Moroello Malaspina può essere così riassunta: «fu capitano dei fiorentini nel 1288 contro i ghibellini di Arezzo, capitano generale di guerra dei Guelfi bolognesi contro gli Este nel 1297 e quindi podestà. Poi capitano generale per Matteo Visconti nella lega contro i marchesi di Monferrato ed alleati nel 1299, capitano generale di lucchesi e fiorentini di parte guelfa «nera» contro Pistoia fra il 1302 ed il 1306, capitano del popolo in Pistoia» (Eliana M. Vecchi, Alagia Fieschi marchesa Malaspina. Una «domina» di Lunigiana nell’età di Dante, Lucca, maria pacini fazzi editore, 2003, p. 40); su Moroello informa dettagliatamente la voce del DBI di Enrica Salvatori. Vanni Fucci profetizzerà a Dante: «Tragge Marte vapor di Val di Magra / ch’è di torbidi nuvoli involuto; / e con tempesta impetüosa e agra / sovra Campo Picen fia combattuto; / ond’ ei repente spezzerà la nebbia, / sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto» (If XXIV 145-150).

Per Scarpetta Ordelaffi si veda la voce dell’ED Ordelaffi di Augusto Vasina.

Il cronista che parla della ferocia di Fulcieri da Calboli è VILLANI, IV LIX. In Pg XIV 58-63 dice Guido del Duca a Rinieri da Calboli: «Io veggio tuo nepote che diventa / cacciator di quei lupi [i Bianchi] in su la riva / del fiero fiume [l’Arno], e tutti li sgomenta. / Vende la carne loro essendo viva; / poscia li ancide come antica belva; / molti di vita e sé di pregio priva».

Per quanto riguarda i Polentani, a fianco di Scarpetta viene a trovarsi «Bernardino da Polenta, podestà-signore di Cervia, fratello di Francesca, marito a propria volta d’una Maddalena Malatesta sorella di Gianciotto e di Paolo» (CARPI, pp. 623-624).

Su Aghinolfo di Romena si veda la voce del DBI Guidi, Aghinolfo di Marco Bicchierai.

Per la biografia di Benedetto XI rimando alla voce dell’EP di Ingeborg Walter.

La solitudine dell’esule

Per i due Cione, di Bello e di Brunetto, si vedano le voci dell’ED di Renato Piattoli.

La citazione a p. 152 è da BOCCACCIO¹, 72; l’accenno ai «luoghi sacri» è in BOCCACCIO¹, 180. La presenza di Bernardo Riccomanni in Santa Croce è documentata solo fino al luglio 1299, e ciò ha suggerito l’ipotesi che «questi, raggiunti alla fine del secolo il sacerdozio e gli ordini maggiori, venisse destinato ad un altro convento, in altra sede» (Renato Piattoli, Codice Diplomatico Dantesco. Aggiunte, «Archivio storico italiano», CXXVII, disp. I-II [1969], pp. 3-108; la cit. a p. 83; di Piattoli si veda anche la voce dell’ED Riccomanni, Bernardo). L’ipotesi, comunque, non è suffragata da prova alcuna; negli anni Dieci del Trecento frate Bernardo sembra risiedere in Santa Croce. Secondo Giorgio Padoan, Introduzione a Dante, Firenze, Sansoni, 1975, p. 47, per «luoghi sacri» si intende «presso parenti ed amici ecclesiastici».

Per i provvedimenti contro i parenti dei condannati e i movimenti di Gemma si vedano DAVIDSOHN, IV, pp. 280-281 (al quale rimando anche per il ruolo dell’Acciaioli, p. 307), e, soprattutto, Barbi, Un altro figlio di Dante? cit., pp. 347-370.

Nella mischia

Che Dante facesse parte del Consiglio dei dodici è affermato da BRUNI, p. 546.

Per gli intrecci matrimoniali tra i Guidi e i Malatesta si veda Baldelli, Dante e Francesca, cit., pp. 26-27.

A San Benedetto avevano proprietà i Guidi di Romena, i quali, stando a BOCCACCIO³, XVI 74-75, avevano progettato di costruirvi un grande castello e a quel progetto non realizzato potrebbe alludere il verso «ove dovea per mille esser recetto». Per la fonte Branda si veda Giorgio Varanini, Dante e la fonte Branda di Romena, in Id., L’acceso strale. Saggi e ricerche sulla «Commedia», Napoli, Federico & Ardia, 1984, pp. 228-252.

La collaborazione tra Dante e Pellegrino Calvi è stata forse più preziosa per noi che per Dante stesso: i documenti epistolari raccolti dal Calvi nella sua cancelleria e qualche suo scritto cronachistico, andati tutti perduti, erano noti infatti all’umanista forlivese del Quattrocento Biondo Flavio, molto amico di Leonardo Bruni. Di alcuni di quei documenti Biondo ci ha conservato memoria, grazie alla quale possiamo ricostruire qualche tratto della vicenda biografica dantesca, come la missione a Verona in qualità di ambasciatore: cfr. le fondamentali voci dell’ED Biondo Flavio e Calvi, Pellegrino di Augusto Campana, ma anche ZINGARELLI, p. 188.

In missione a Verona

Per la ricostruzione dei soggiorni veronesi di Dante sono fondamentali Petrocchi, La vicenda biografica di Dante nel Veneto, cit., INDIZIO¹ e CARPI, passim.

Biondo Flavio (Historiarum ab inclinatione Romani imperii decades quattuor, Basileae, Froben, 1531, decade II, libro IX, p. 338), dopo aver affermato che i fatti «testimoniati dalle parole di Dante Alighieri, poeta fiorentino, sono di più sicura credibilità di quanto vediamo attestato da Villani e Tolomeo da Lucca», scrive che «Cangrande della Scala, che allora si era appena impadronito di Verona, su richiesta di tutte le parti suddette che operavano a Forlì per il tramite di un’ambasceria di Dante concesse aiuti militari di cavalleria e fanteria» (multa sunt secuta, quae Dantis Aldegherii, poetae Florentini, verbis dictata certioris notitiae sunt quam a Villano Ptolemaeoque Lucensi referri videamus … Et Canis Grandis Scaliger, Veronae tunc primum dominio potitus, a praedictis omnibus Fori Livii agentibus per Dantis legationem oratus, auxilia equitum peditumque concessit). Ovviamente, Biondo Flavio confonde Bartolomeo della Scala con il più celebre Cangrande, e neppure sembra fondata la notizia che gli Scaligeri abbiano mandato gli aiuti militari richiesti, ma non c’è motivo di dubitare della fondatezza dell’informazione sull’ambasceria di Dante. Notevole è il credito che Biondo concede alle epistole dantesche – da lui conosciute nella trascrizione che ne aveva fatto il Calvi –, tanto da sostenere che Dante è di più sicura credibilità dei cronisti Giovanni Villani e Tolomeo da Lucca (cioè Bartolomeo Fiadoni).

Fra i dantisti è ancora viva la discussione se il primo ospite veronese di Dante sia stato Bartolomeo o suo fratello Alboino, anche se proprio l’accenno allo stemma dovrebbe togliere ogni dubbio al riguardo: si vedano la voce dell’ED Della Scala, Bartolomeo e INDIZIO³, p. 224; propende invece per la candidatura di Alboino CARPI, pp. 71-74, 125 (da consultare, alle pp. 72-73, in merito ai giudizi negativi espressi da Dante nei confronti degli Scaligeri). Dell’aquila si fregeranno anche Cangrande, fratello di Bartolomeo, che sposerà una figlia (Giovanna) di Corrado d’Antiochia, nipote di Federico II, e il cugino Federico della Scala, sposo di Imperatrice (cfr. CARPI, p. 82), ma ciò in anni posteriori, anche se di poco. Non stupisca, infine, che Dante chiami «lombardo» un veronese: ai suoi tempi, infatti, Verona era considerata terra lombarda e perciò distinta dalla Marca Trevigiana, l’attuale Veneto; si leggano le osservazioni di Gianfranco Folena, La presenza di Dante nel Veneto, «Atti e memorie dell’Accademia patavina di scienze, lettere ed arti», 78 (1965-1966), pp. 483-509 (alle pp. 487-488), e di TAVONI, pp. 1248-1249, 1303-1304.

Asdente sarà collocato tra gli indovini di If XX (vv. 118-120); Guido da Castello ritornerà, insieme a Gherardo da Camino e Corrado da Palazzo, in Pg XVI 121-126. Per la fase filoguelfa e antiscaligera della vita di Dante si veda CARPI, pp. 517-520; la frase cit. a p. 157 è di FIORAVANTI, commento a Cv IV XVI 6.

Per quanto riguarda il prolungarsi del soggiorno veronese, a Michele Barbi (Una nuova opera sintetica su Dante, cit., pp. 29-85) non spiaceva l’ipotesi «che Dante o d’ambasciatore si trasmutasse quasi subito in ospite, venuta meno la ragione dell’ambasciata, o ritornasse a Verona poco dopo la disfatta di Pulicciano, e si ricongiungesse poi agli altri fuorusciti prima del marzo 1304», anche perché, a suo dire, «è probabile che Dante abbia cominciato le sue peregrinazioni per la penisola mentre era ancora legato coi compagni: andava e veniva, secondo il bisogno» (pp. 44-45).

Il fascino irresistibile di una biblioteca

Il sonetto dell’Angiolieri a Dante è commentato da De Robertis in Alighieri, Rime, cit., pp. 477-478; qui, alle pp. 481-482, è pubblicato anche il sonetto Cecco Angiolier, tu mi pari un musardo di Guelfo Taviani; sullo scambio si veda anche Giunta, Versi a un destinatario, cit., pp. 276-277.

In VE II VI 7, parlando del fenomeno sintattico che egli definisce «constructio suprema», Dante scrive che la si riscontra presso i poeti regolati (Virgilio, l’Ovidio delle Metamorfosi, Stazio e Lucano), ma anche in grandi prosatori come Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, «e molti altri che una sollecitudine amica ci invita a visitare» (et multos alios quos amica sollicitudo nos visitare invitat). Per i rapporti di Dante con la Capitolare di Verona si veda Gargan, Per la biblioteca di Dante, cit., pp. 161-193, in part. p. 175-177 (Gargan ritiene che la composizione del De vulgari sia cominciata a Verona in questo periodo), e, soprattutto, TAVONI, pp. 1451-1455. Particolarmente suggestiva è l’ipotesi di Tavoni che l’amico che introduce Dante nei segreti della Capitolare sia il notaio Giovanni de Matociis, detto Giovanni Mansionario, perché, almeno a partire dal 1311, era mansionarius, cioè sacrestano, della cattedrale (ma la sua attività è attestata a Verona già nel 1303): su di lui si legga la voce del DBI Matociis, Giovanni De’ (Giovanni Mansionario) di Marino Zabbia. Al contrario, per Billanovich «nessuna testimonianza, né alcuna eco delle sue opere ci prova che il poeta della Commedia varcò la soglia della biblioteca della cattedrale e che lì studiò qualcuno dei tanti autori, sacri e profani, noti e ignoti» (La tradizione del testo di Livio, cit., p. 55).

Viaggi tra le città venete

Che il primo libro del De vulgari eloquentia risalga al 1304 è provato dal fatto che in esso si cita come vivente (I XII 5) Giovanni I di Monferrato, deceduto nel gennaio 1305 (cfr. la voce del DBI Giovanni I, marchese di Monferrato di Aldo A. Settia).

Per la conoscenza da parte di Dante delle caratteristiche linguistiche dell’area veneta si legga VE I XIV 5-6; per quanto riguarda le localizzazioni geografiche si vedano: per Treviso, Cv IV XIV 12 e Pd IX 49; per gli argini del Brenta, If XV 7-9; per la «ruina» a sud di Trento, If XII 4-9; per l’arsenale di Venezia, If XXI 7-15. Che la conoscenza della geografia e della realtà linguistica venete risalga al primo soggiorno veronese è sostenuto da INDIZIO¹, pp. 41-52; altri ipotizzano un soggiorno a Treviso presso i Caminesi, datato, a seconda delle ipotesi, tra la seconda metà del 1304 e i primi mesi del 1306: sono di questo avviso, dubitativamente, Petrocchi, La vicenda biografica di Dante nel Veneto, cit., pp. 96-97, e, con più decisione, CARPI, il quale più volte insiste sull’ospitalità che i guelfi Gherardo e Rizzardo da Camino avrebbero dato a Dante.

Le vicende legate alla questione del sale sono descritte da INDIZIO¹, pp. 43-44.

Non è per caso che Dante, intorno al 1307, in una fase della sua vita nella quale per calcolo politico si mostra particolarmente favorevole ai Caminesi, tra gli usurai di Malebolge collochi Reginaldo e gli faccia predire la prossima venuta all’Inferno dell’altro banchiere implicato nei prestiti ai signori di Treviso, il cognato Vitaliano Del Dente (If XVII 64-69). Se nelle condanne di Reginaldo e Vitaliano la presa di posizione a favore dei Caminesi è implicita, la stoccata contro i poco amati Scaligeri è invece del tutto evidente: l’usuraio Vitaliano, infatti, era il padre della donna che Bartolomeo della Scala, rimasto vedovo di Costanza, aveva sposato poco prima di morire, nei mesi, quindi, in cui Dante era a Verona. Sugli Scrovegni e i Del Dente, appartenenti questi alla grande famiglia dei Lemizzi, è di grande interesse CARPI, pp. 72, 247, 408.

«Color di cener fatti son li Bianchi»

Sulla figura di Niccolò da Prato e sul suo operato a favore dell’incipiente cultura umanistica sono fondamentali le ricerche di Giuseppe Billanovich, del quale si vedano almeno Tra Dante e Petrarca, cit. e La tradizione del testo di Livio, cit., pp. 41-56.

Sul contrasto che vedeva schierati su fronti opposti Corso Donati e il vescovo Lottieri Della Tosa da un lato e Rosso e Rossellino Della Tosa, dall’altro, si legga CARPI, pp. 630-631.

Le vicende fiorentine nei mesi della legazione di Niccolò da Prato sono raccontate dettagliatamente da DAVIDSOHN, IV, pp. 369-390; qui, a p. 384, la descrizione dell’accoglienza popolare a Lapo degli Uberti. A sostegno della mediazione di Niccolò da Prato si muove anche Remigio dei Girolami, che, tra maggio e giugno, scrive un De bono pacis nel quale propone l’amnistia per gli esiliati e, in cambio, il condono delle espropriazioni dei beni dei Bianchi fatte dai Neri (si veda Bruni, La città divisa, cit., pp. 58-59).

Per il problema se il firmatario dell’epistola al cardinale sia Alessandro o, come io penso, il fratello Aghinolfo si veda Francesco Mazzoni, Le epistole di Dante, in Conferenze aretine 1965, cit., pp. 47-100, in part. p. 56.

Che dietro la «L.» si nasconda il frate domenicano Lapo da Prato è proposto in modo convincente da Emilio Panella, di cui si vedano Nuova cronologia remigiana, «Archivum fratrum praedicatorum», 60 (1990), pp. 221-222, e Cronologia remigiana (http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio2/re1304.htm).

Il sonetto di Guido Orlandi può essere parafrasato come segue: «I Bianchi sono inceneriti, e paurosi e vigliacchi come i granchi escono solo di notte, per paura che il leone [il Marzocco, il leone araldico di Firenze?] li abbranchi. Affinché il loro misfatto, l’essersi trasformati da guelfi in ghibellini, non venga mai cancellato, da questo momento in poi siano chiamati ribelli, nemici del Comune, come gli Uberti («Che non perdano mai la forfattura / – ché furon guelfi, ed or son ghibellini –, / da ora innanti sian detti ribelli, / nemici del Comun come gli Uberti», vv. 8-11). E così sia abbattuto il nome dei Bianchi attraverso una sentenza inappellabile, a meno che non si rassegnino a essere “offerti” a San Giovanni» (Pollidori, Le rime di Guido Orlandi, cit., son. XVIII; a questo lavoro rimando per l’interpretazione del testo e per le notizie biografiche sull’autore).

«La dolorosa povertade»

«Ildebrandino, vescovo di Arezzo dal 1290 per oltre vent’anni, fu la personalità di maggior spicco fra i Guidi della sua generazione, l’unico a tentare una politica nuova ed autonoma nell’Italia ormai postimperiale, né di rassegnazione a Firenze né di ostinazione in un ghibellinismo residuale» (CARPI, p. 575).

In assenza di documentazione, la questione della data di morte di Alessandro di Romena è quasi insolubile: Indizio, Sul mittente dell’epistola I di Dante, cit., ritiene che Alessandro sia defunto nei primi mesi del 1303 (e, di conseguenza, che l’epistola nelle edizioni correnti indicata come seconda sia in realtà la prima); io preferisco attenermi alla datazione tradizionale in considerazione del fatto che, mentre nella primavera del 1304 le condizioni economiche di Dante giustificavano l’implicita richiesta di aiuto contenuta nell’epistola, possiamo ritenere che, all’inizio del 1303, Dante, stabilmente inserito nell’organizzazione dell’Università, non avesse bisogno di avanzare quel genere di richieste. La formula «equis armisque vacantem» usata nell’epistola di condoglianze, più che a una mancanza reale di mezzi di trasporto, potrebbe alludere alla mancanza, per ragioni economiche, di un degno apparato di tipo cavalleresco necessario per poter sfilare con onore in un corteo funebre: si veda al riguardo Gian Paolo Marchi, «Equis armisque vacantem». Postille interpretative a un passo dell’epistola di Dante a Oberto e Guido da Romena, «Testo», XXXII (2011), pp. 239-252.

Per la falsificazione del fiorino da parte dei Guidi di Romena e per l’atteggiamento di Dante nei loro confronti rimando a Sestan, Dante e i conti Guidi, cit., pp. 344-345, e a CARPI, pp. 535, 647; la vicenda è ricostruita da DAVIDSOHN, III, pp. 251-253. Per le motivazioni che potevano aver indotto i Guidi a falsificare il fiorino, legate essenzialmente alla necessità di mantenere, anche nello spendere, il loro ruolo di grande famiglia comitale e alla scarsezza di risorse che sempre più li attanagliava, si veda Migliorini Fissi, Dante e il Casentino, cit., pp. 139-140.

Il documento notarile del mutuo contratto ad Arezzo da Francesco è pubblicato in PIATTOLI, n. 94.

L’Ottimo commento, a proposito di Pd XVII 61-68, accenna in modo non molto perspicuo a dissensi fra Dante e la Parte «bianca» «già guerreggiante», e attribuisce a quei dissensi il fatto che «elli si partìe da loro».

II. Il ritorno agli studi e alla scrittura (1304-1306)

Il precettore

Per ricostruire le vicende biografiche di Dante dopo la battaglia della Lastra gli antichi biografi non sono di aiuto. BOCCACCIO², 54-55 (più ordinato e corretto di BOCCACCIO¹, 74), riassume come segue gli spostamenti di Dante negli anni fra il 1302 e il 1315-1316: «uscito di quella città, nella qual mai tornar non dovea, sperando in brieve dovere essere la ritornata, più anni per Toscana e per Lombardia, quasi da estrema povertà costretto, gravissimi sdegni portando nel petto, s’andò avvolgendo. Egli primieramente rifuggì a Verona … quindi in Toscana tornatosene, per alcun tempo fu col conte Salvatico in Casentino. Di quindi fu col marchese Moruello Malespina in Lunigiana. E ancora per alcuno spazio fu co’ signori della Faggiuola ne’ monti vicini ad Orbino. Quindi n’andò a Bologna, e da Bologna a Padova, e da Padova ancor si tornò a Verona». BRUNI è informato sul biennio dell’Università, di cui invece Boccaccio tace, ma sa ben poco degli anni successivi, tanto è vero che tra le sedi in cui Dante ha soggiornato prima della discesa di Enrico VII nomina solo Verona.

A Bologna la notorietà di Dante come uomo politico doveva in gran parte dipendere dal fatto che le basi per quel trattato di alleanza che avrebbe assicurato ai Bianchi il sostegno dei bolognesi anche dopo la loro cacciata erano state gettate durante il suo priorato.

Per gli Alighieri fattisi bolognesi si vedano le voci dell’ED, Alighieri, Bellino e Alighieri, Cione di Renato Piattoli.

Può essere stata proprio la pratica di maestro privato (praeceptor) ad aver generato l’equivoco, nel quale sembra essere caduto anche il figlio Pietro, che Dante possa avere tenuto una forma di «lettorato» presso lo Studio. Nella canzone Quelle sette arti liberali, scritta negli anni Trenta dopo le condanne degli scritti danteschi a opera di Bertrando del Poggetto (1329) e del Capitolo domenicano di Firenze (1335), Pietro Alighieri fa pronunciare un lamento a ciascuna delle arti liberali per come il «maestro loro» è stato indegnamente trattato: l’Astrologia, in particolare, si accusa di non essere riuscita ad «antivedere» la «finita» (la morte) «del suo maestro [Dante] che lesse a Bologna» (vv. 90-92; la canzone è edita da Domenico De Robertis, Un codice di rime dantesche ora ricostruito, SD, XXXVI [1959], pp. 137-205; pp. 196-205). Osserva De Robertis (p. 204) che nella canzone «riaffiorerebbe, attraverso una testimonianza ben più solida che non quella di Ubaldo Bastiani … la vecchia tesi, sollevata dallo Zingarelli … e da tempo abbandonata dell’insegnamento di Dante» (cfr. ZINGARELLI, p. 209; sulla canzone di Pietro si veda anche INDIZIO³, pp. 224-226). I versi di Pietro, in effetti, sono una delle più solide testimonianze del fatto che Dante soggiornò a Bologna (in un periodo non specificato, ma che sembra essere il 1304-1305), ma il tecnicismo «leggere» è fuorviante: sicuramente non può riferirsi a un insegnamento pubblico e istituzionale. O Pietro in quegli anni non si trovava a Bologna con il padre, e quindi ricostruisce a posteriori sulla base di notizie di seconda mano, o si trovava a Bologna, ma, essendo ancora un bambino, può avere male interpretato il fatto che Dante svolgesse un’attività privata di precettore.

Ubaldo di Bastiano da Gubbio, uomo di legge formatosi allo Studio bolognese e autore, intorno al 1326-1327, di un dialogo latino in forma di prosimetro tra lui e la Morte intitolato Teleutelogio, dichiara di avere avuto nell’adolescenza Dante come precettore, ma, stando ai dati anagrafici a disposizione, secondo i quali Ubaldo sarebbe sui venticinque-trent’anni quando scrive il dialogo nel quale la dichiarazione è contenuta, con quell’espressione non indicherebbe un insegnamento ricevuto di persona a Bologna, ma un discepolato esercitatosi tramite gli scritti. Da segnalare, inoltre, il fatto che nel Teleutelogio Ubaldo, legato agli angioini e inserito nella burocrazia guelfa di Firenze, polemizza, in data molto alta, con alcune posizioni della Monarchia: si vedano in proposito la voce dell’ED Ubaldo di Bastiano (o Sebastiano) da Gubbio di Attilio Bartoli Langeli; Leonella Coglievina, La leggenda sui passi dell’esule, in Dante e le città dell’esilio, cit., pp. 46-74, in part. pp. 60-64; Emiliano Bertin, Primi appunti su Ubaldo di Bastiano da Gubbio lettore e censore della «Monarchia», «L’Alighieri», XLVIII (2007), pp. 103-119.

Una pedagogia per la nobiltà italiana: il «Convivio»

Che il De vulgari eloquentia sia stato scritto a Bologna fra il 1304 e il 1305 è sostenuto in modo convincente da TAVONI, pp. 1091-1092, 1113-1116: lo studioso ritiene, contro l’ipotesi prevalente secondo la quale i primi tre libri sarebbero anteriori al 1306 (e scritti in gran parte a Bologna, come ipotizza anche FIORAVANTI) e il quarto risalirebbe al 1308, che anche il Convivio sia stato scritto prima della fuga da Bologna e della richiesta di perdono individuale (su quest’ultimo punto si veda anche Mirko Tavoni, Guido da Montefeltro dal «Convivio» all’«Inferno», NRLI, XIII [2010], pp. 167-198, in part. pp. 197-198). Già prima numerosi studiosi avevano ipotizzato un soggiorno bolognese di circa un biennio, durante il quale Dante avrebbe composto i due trattati: cfr. almeno ZINGARELLI, pp. 211-212; Renucci, Dante disciple et juge du monde gréco-latin, cit., pp. 63-66; Francesco Mazzoni, Prefazione a La Divina Commedia con il commento Scartazzini-Vandelli, Firenze, Le Lettere, 1978, p. XVI; INDIZIO¹, pp. 48-52; INDIZIO³, pp. 225-226; per il De vulgari, John A. Scott, Perché Dante?, trad. it. Roma, Aracne, 2010, pp. 71-72. Anche GORNI, p. 184, scrive che «tutto in effetti congiura a immaginare Dante a Bologna» nel biennio 1304-1306. Diversa è la ricostruzione, fatta sulla base di una logica «politica», degli spostamenti di Dante fra il 1304 e il 1306 proposta da Umberto Carpi, del quale, oltre a CARPI, passim, si vedano: Un «Inferno» guelfo, cit. e Tre donne intorno al cor mi son venute, in Dante Alighieri, Le quindici canzoni lette da diversi, II, 8-15, «Quaderni Per Leggere», Lecce, Pensa, 2011. Carpi pensa che Dante, dopo la sconfitta della Lastra, abbia soggiornato per breve tempo a Bologna, ma che poi si sia trasferito a Verona presso Alboino della Scala e, successivamente, a Treviso presso Gherardo da Camino; nel 1306, infine, approda in Lunigiana presso Moroello Malaspina e, l’anno dopo, ritorna nuovamente nel Casentino. L’intera ricostruzione ruota intorno all’evento basilare del pentimento di Dante e della sua ricerca di un accordo con i Neri fiorentini per rientrare a Firenze.

La frase cit. a p. 174 è presa dall’introduzione di FIORAVANTI.

L’etica del dono

Per la canzone Doglia mi reca sono rilevanti gli studi raccolti in Grupo Tenzone, Doglia mi reca ne lo core ardire, a c. di Umberto Carpi, Madrid, Departamento de Filología Italiana UCM - Asociación Complutense de Dantología, 2008 (in particolare quelli di Umberto Carpi, La destinataria del congedo e un’ipotesi di contestualizzazione, pp. 13-29, e di Enrico Fenzi, Tra etica del dono e accumulazione. Note di lettura alla canzone dantesca «Doglia mi reca», pp. 147-211).

La canzone è citata in VE II II 8, e quindi è anteriore all’inizio del 1305: sulla datazione cfr. anche Fenzi, Tra etica del dono e accumulazione, cit., pp. 147-149, il quale, in accordo con CARPI, pp. 75-80, la ritiene composta a Treviso (e non a Bologna come nella mia ipotesi).

La frase sull’«esperienza autobiografica» cit. a p. 176 è di Migliorini Fissi, Dante e il Casentino, cit., p. 126; a proposito degli stessi versi CARPI, p. 78 nota: «sembra la fotografia dell’esperienza di Dante presso Alboino e la corte scaligera, proprio l’opposto dell’esperienza di liberalità cortese che stava provando … nella Treviso caminese».

Sulla destinataria della canzone si vedano ancora Carpi, La destinataria del congedo, cit., e Fenzi, Tra etica del dono e accumulazione, cit. Invece Francesco Bausi, Lettura di «Doglia mi reca», in Le quindici canzoni lette da diversi, cit., ritiene che la destinataria sia Giovanna di Federico Novello, cioè una nipote della Bianca Giovanna Contessa di Guido Novello, sposata con dispensa al consanguineo Tegrimo II dei Guidi di Modigliana-Porciano. Bausi ritiene anche che la canzone risalga alla metà degli anni Novanta e che solo il congedo sia stato scritto nei primi anni dell’esilio (fine 1302 - inizio 1303): esso consisterebbe in una richiesta di protezione ai Guidi. Carpi (Tre donne intorno al cor mi son venute, cit.) obietta però che la canzone «trasuda esilio da ogni riga» e fa notare il particolare decisivo che la destinataria proposta da Bausi si chiama Giovanna, e non Bianca Giovanna.

Per i Bonacolsi di Mantova si vedano le voci del DBI, Bonacolsi Guido, detto Bottesella e Bonacolsi, Tagino (Tayno) di Ingeborg Walter. Nella scelta di Bianca Giovanna come interlocutrice forse è anche implicita una critica agli Scaligeri, stretti alleati del Guido Bonacolsi in guerra con gli Este, ai quali erano invece legati Tagino e il figlio.

La promozione del volgare

Per le osservazioni svolte in questo e nel prossimo paragrafo sono importanti le introduzioni di FIORAVANTI e TAVONI, pp. 1067-1116.

L’amore per la città natale non impedisce a Dante di vederne i limiti, che, per reazione, tende addirittura a enfatizzare: «Invece noi, a cui è patria il mondo come ai pesci il mare, benché abbiamo bevuto all’Arno da prima di essere svezzati, e benché amiamo Firenze al punto che, perché l’abbiamo amata, soffriamo ingiustamente l’esilio, noi … abbiamo tratto la convinzione, e fermamente giudichiamo, che esistono molte regioni e città e più nobili e più amabili della Toscana e di Firenze, di cui siamo nativi e cittadini, e che molti popoli e genti usano una lingua più bella e più utile di quella degli Italiani» (Nos autem, cui mundus est patria velut piscibus equor, quanquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste … multas esse perpendimus firmiterque censemus et magis nobiles et magis delitiosas et regiones et urbes quam Tusciam et Florentiam, unde sumus oriundus et civis, et plerasque nationes et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos; VE I VI 3).

Il «De vulgari eloquentia»

Che il piano del trattato prevedesse cinque libri è ipotizzato da TAVONI, p. 1363.

Si veda la protesta di novità con la quale il trattato si apre (VE I I 1): «non ci risulta che nessuno prima di noi abbia minimamente coltivato la dottrina dell’eloquenza volgare» (Cum neminem ante nos de vulgaris eloquentie doctrina quicquam inveniamus tractasse).

I professori dello Studio

Oltre all’amore («venus»), «salus» (la salvezza) e «virtus» sono i grandi argomenti («magnalia») che richiedono necessariamente di essere cantati in stile tragico. Ciascuno dei tre settori (poesia d’amore, poesia delle armi, e poesia morale) ha i suoi campioni: in provenzale, Arnaut Daniel per il primo, Bertran de Born per il secondo e Giraut de Borneil per il terzo; nel volgare illustre italiano, Cino da Pistoia per l’amore e Dante stesso per la rettitudine (VE II II). Manca ancora, in Italia, un campione nella poesia delle armi, o epica.

In assenza di una moderna biografia di Cino da Pistoia è necessario ricorrere ancora a Zaccagnini, Cino da Pistoia, cit.

Per le strategie dantesche nei confronti degli ambienti universitari si vedano Pier Vincenzo Mengaldo, Linguistica e retorica di Dante, Pisa, Nistri-Lischi, 1978, pp. 64-65, e soprattutto TAVONI, pp. 1364-1366, 1443-1444.

Il ruolo di mediatore di Cino tra Dante e gli ambienti universitari è messo in luce da INDIZIO¹, pp. 50-51 (che giustamente sottolinea la gratitudine di Dante nei confronti dell’amico espressa nell’Ep III), e da TAVONI nel commento; GORNI, p. 184, parla di un «Cino da Pistoia voglioso di “lanciare” l’amico fiorentino in ambito filosofico e accademico».

La frase cit. a p. 182 è di GIUNTA, p. 584.

III. Il pentito (1306-1310)

In fuga da Bologna

Per gli incerti equilibri tra le fazioni bolognesi dei Lambertazzi e dei Geremei si veda CARPI, pp. 480-481; a lui rimando anche per la figura di Venedico e per il ruolo della famiglia Caccianemici (pp. 411, 495-498). Si tenga presente che Venedico era ancora vivo nel 1300: sappiamo, infatti, che fa testamento nel gennaio 1303. Collocarlo tra i defunti è stato un errore di Dante o una scelta voluta?

Per le vicende bolognesi e pistoiesi della primavera del 1306 si veda DAVIDSOHN, IV, pp. 435-440. Dei bandi contro i Bianchi e i Ghibellini trattano Emilio Orioli, Documenti bolognesi sulla fazione dei Bianchi, Bologna, Tip. Garagnani e Figli (estratto da «Atti e memorie della R. Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna», III Serie, XIV, 1896, pp. 1-15), alle pp. 6-7, e Livi, Dante, suoi primi cultori, sua gente in Bologna, cit., p. 156.

L’inviato del papa

La storia della legazione dell’Orsini è raccontata da DAVIDSOHN, IV, pp. 446-475; per una valutazione storica dell’operato dell’Orsini e una analisi dei rapporti da lui intrattenuti con il fuoruscitismo guelfo e ghibellino si veda CARPI, pp. 437-438, 579, 631-632. Un rapido ritratto del cardinale Orsini è tracciato da Maire Vigueur, L’altra Roma, cit., pp. 252-253.

Una richiesta di perdono

Per Foresino e Niccolò Donati cfr. Michele Barbi, Per un passo dell’epistola all’amico fiorentino e per la parentela di Dante (1920), poi in BARBI², pp. 305-328, in part. pp. 309, 328, e Padoan, Introduzione a Dante, cit., p. 103.

Per lo scambio di sonetti Cino-Dante (Moroello) si veda GIUNTA, pp. 594-600; a Claudio Giunta, Codici. Saggi sulla poesia del Medioevo, Bologna, il Mulino, 2005, p. 178, rimando per la prassi di scrivere testi lirici responsivi «in persona di».

Per le posizioni politiche di Cino e la carica di giudice assunta a Pistoia nel 1307 si veda Zaccagnini, Cino da Pistoia, cit., pp. 145-148.

Il racconto di Boccaccio si legge in BOCCACCIO¹, 179-183, e BOCCACCIO³, VIII I 6-19. Il problema del rientro non si poneva per i figli maschi, dal momento che nel 1306 nessuno di loro aveva compiuto quattordici anni: vedremo che l’atto con il quale Dante nel 1311 sarà escluso dalla cosiddetta amnistia di Baldo d’Aguglione non nomina i figli, il che significa che a quella data non erano ancora soggetti al bando.

DAVIDSOHN, IV, pp. 280-281, pensa che «Gemma, certo per la sua appartenenza alla casata dei Donati, poté tornare a Firenze» (si vedano, però, le argomentazioni in contrario di Barbi, Un altro figlio di Dante?, cit., pp. 357-358). Come quella dei beni in comproprietà, anche la questione dei diritti della moglie sui beni sequestrati o confiscati a un condannato era molto dibattuta dalla giurisprudenza dell’epoca. Alberto Gandino ne tratta nella rubrica De bonis malefactorum del Tractatus maleficiorum: risulta che la prassi giudiziaria era divisa tra l’osservanza del diritto comune, che prescriveva il rispetto dei diritti dotali della moglie, e la fedeltà agli statuti, che imponevano la confisca se non la distruzione dei beni. Dalla quaestio discussa nel par. 3 (Kantorowicz, Albertus Gandinus und das Strafrecht der Scholastik, cit., pp. 349-350) si ricava che una moglie, in virtù della posizione privilegiata che la legge le accordava, soprattutto per quanto riguardava i diritti dotali, se non poteva impedire il sequestro, poteva tuttavia cercare di recuperare i frutti della porzione di patrimonio che garantiva la sua dote, e questo è per l’appunto il caso di Gemma. La quale, tuttavia, non riuscì nel suo intento, e solo dopo la morte di Dante «poté annualmente richiedere sui beni del defunto … i frutti della dote che aveva portato sposandosi» (Renato Piattoli, voce dell’ED Donati, Gemma). Al contrario, secondo Padoan, Introduzione a Dante, cit., p. 103, «qualcosa Gemma doveva fors’anche essere riuscita ad ottenere in restituzione dei beni sequestrati facendosi forte della propria dote, se ancora nel 1329 riceveva come corrispettivo dall’Ufficio dei beni dei ribelli l’assegnazione annua di 26 staia di grano».

«Popolo mio, che ti ho mai fatto?»

I passi dell’epistola perduta sono citati da BRUNI, p. 546. Bruni e quanti negano il lungo soggiorno bolognese di Dante a favore di soggiorni a Verona e Treviso affermano che le richieste di perdono, compresa Popule mee, furono inviate da Verona. Ma oltre alle considerazioni già fatte che rendono improbabile il soggiorno veronese in questi anni, per quanto attiene strettamente all’epistola risulterebbe davvero strano che Dante avesse inviato un testo nel quale, come vedremo, sconfessa la sua passata alleanza con i Ghibellini e chiede perdono di quello che per i fiorentini costituiva un autentico tradimento proprio da Verona, che era una delle capitali del ghibellinismo italiano. Bruni distingue tra lettere inviate a privati, a detentori di cariche pubbliche e al popolo: INDIZIO², p. 271, ritiene che Popule mee sia stata indirizzata al popolo, e non al «reggimento», come quella, invece, di cui parla VILLANI, X CXXXVI; ma l’affermazione del Bruni appare condizionata dall’incipit dantesco («Popule»), e non sembra verosimile che Dante abbia inviato una sorta di lettera aperta «collettivamente alla classe dirigente». A me sembra certo che sia Bruni sia Villani (oltre che Biondo Flavio) parlino della stessa epistola.

Il versetto di Michea (6,3), declamato nella liturgia del Venerdì santo proprio nella forma: «Popule mee, quid…», anziché «Populus meus…», è citato anche nella dantesca canzone trilingue Aï faus ris, pour quoi traï aves, vv. 2-3: «… et quid tibi feci, / che fatta m’hai sì dispietata fraude?». Aprire una lettera con un passo scritturale è, comunque, una caratteristica del Dante epistolografo: per esempio, l’epistola ai cardinali italiani (Ep XI) inizia con la citazione del primo versetto delle Lamentazioni («Quomodo sedet sola civitas…»), versetto che apriva anche l’epistola perduta ai «principi della terra» in morte di Beatrice.

Di «colpa» Dante parla nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, v. 88.

Con la frase citata a p. 189 COMPAGNI (II XXX) commenta la tortura e la decapitazione inflitte da Fulcieri da Calboli a Donato Alberti.

Sulla colpa di Dante ha scritto pagine definitive Carpi, Tre donne intorno al cor mi son venute, cit.

Il passo della predica di Giordano da Pisa è riportato da Bruni, La città divisa, cit., p. 39 (alle pp. 36-37 un breve profilo biografico del frate domenicano).

Ai piedi dei «monti di Luni»

Potrebbe collocarsi durante il viaggio da Bologna alla Lunigiana (viaggio che, dopo la caduta di Pistoia, non poteva seguire un itinerario toscano) l’ospitalità concessa a Dante da Guido di Castello, «il semplice Lombardo», nella sua casa di Reggio. Ne accenna Benvenuto da Imola commentando i vv. 124-126 di Pg XVI nei quali il nobile reggiano è ricordato insieme a Corrado da Palazzo e a Gherardo da Camino: «cuius liberalitatem poeta noster expertus est semel, receptus et honoratus ab eo in domo sua».

I dati sugli spostamenti di Moroello nella primavera-estate del 1306 si ricavano da Vecchi, «Ad pacem et veram et perpetuam concordiam devenerunt», cit., p. 110. Per i rapporti di Dante con i Malaspina sono rilevanti molti passi di CARPI, in part. le pp. 519-528. Suggestiva è l’ipotesi formulata da Giuseppe Ciavorella (Corrado Malaspina e sua «gente onrata». Ospitalità e profezia [Purgatorio VIII, 109-39], «L’Alighieri», LI [2010], pp. 65-85) che Moroello abbia consultato Cino «(mentre i due erano a Pistoia, o nei dintorni, durante l’assedio) per avere un parere sul modo di risolvere le annose controversie dei Malaspina con il vescovo di Luni» e che «Cino abbia proposto una intermediazione neutrale fra le due parti … e abbia fatto il nome di Dante come persona capace di trattare la complessa questione». I Malaspina avrebbero accettato la proposta e Cino avrebbe scritto a Dante, che a sua volta avrebbe accettato l’incarico (p. 75).

La testimonianza del presunto Pietro Alighieri è riportata da INDIZIO³, p. 223 (a cui rimando anche per i dubbi sull’effettiva paternità di Pietro della seconda e terza redazione del commento alla Commedia).

In If XXXII 28-30 scrive che il ghiaccio di Cocito è talmente spesso «che se Tambernicchi [la Tambura] / vi fosse sù caduto, o Pietrapana [la Pania della Croce], / non avria pur da l’orlo fatto cricchi». L’indovino Arunte «ne’ monti di Luni, dove ronca [dissoda, coltiva] / lo Carrarese che di sotto alberga, / ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca / per sua dimora; onde a guardar le stelle / e ’l mar non li era la veduta tronca» (If XX 47-51).

L’elogio dei Malaspina occupa ben quattro terzine di Pg VIII (vv. 121-132).

Per le azioni belliche di Franceschino di Mulazzo si veda la voce del DBI Malaspina, Franceschino di Franca Ragone.

La procura notarile e l’atto di pace del 6 ottobre 1306 sono editi in PIATTOLI, nn. 98, 99. Il contributo più rilevante intorno alla trattativa e ai documenti sottoscritti è quello di Vecchi, «Ad pacem et veram et perpetuam concordiam devenerunt», cit., al quale rimando anche per notizie su Antonio da Camilla (pp. 132-136); per la possibile paternità dantesca dell’arenga dell’atto di pace si veda Emiliano Bertin, La pace di Castelnuovo Magra (6 ottobre 1306). Otto argomenti per la paternità dantesca, IMU, XLVI (2005), pp. 1-34, ma anche Padoan, Tra Dante e Mussato, cit., pp. 38-39. Tra i testimoni dell’atto figura il frate minorita Guglielmo Malaspina, che ritroveremo in lite con Gherardino Malaspina per la nomina a vescovo di Luni, dopo la morte di Antonio da Camilla.

«Perdonare è bel vincer di guerra»

Sulla canzone Tre donne sono particolarmente interessanti gli studi più recenti, perché la mettono in rapporto con l’ammissione di colpa e la richiesta di perdono: su tutti spicca il saggio di Carpi, Tre donne intorno al cor mi son venute, cit., ma di rilievo sono anche quelli raccolti in Grupo Tenzone, «Tre donne intorno al cor mi son venute», Madrid, Departamento de Filología Italiana UCM - Asociación Complutense de Dantología, 2007 (in part. segnalo: Umberto Carpi, Il secondo congedo di «Tre donne», pp. 15-26; Natascia Tonelli, «Tre donne», il «Convivio» e la serie delle canzoni, pp. 51-71, e Enrico Fenzi, «Tre donne» 73-107: la colpa, il pentimento, il perdono, pp. 91-124) e l’articolo di Stefano Carrai, Il doppio congedo di «Tre donne intorno al cor mi son venute», in Le rime di Dante, cit., pp. 197-211. La datazione proposta in questi lavori, all’incirca tra la fine del 1304 e i primi mesi del 1305, a Verona, che pure abbassa quella tradizionale fissata tra il 1302 e il 1304, diverge dalla mia (fine del 1306: fra l’altro, il fatto che la canzone non sia citata nel De vulgari eloquentia potrebbe essere un ulteriore indizio a favore della tesi che essa sia posteriore al 1305) perché basata sulla convinzione che il pentimento di Dante sia di poco posteriore alla battaglia della Lastra.

Dell’interpretazione politica secondo la quale il «bel segno» del v. 81 alluderebbe a Firenze ha fatto giustizia Carpi, Tre donne intorno al cor mi son venute, cit., per il quale, se si parafrasasse «e se non fosse per il fatto che per lontananza mi è sottratta alla vista … quella bella Firenze da cui sono stato in foco miso … considererei lieve da sopportare ciò che così, invece, mi resta grave, cioè la lontananza da Firenze», si otterrebbe la «seguente, curiosissima ipotetica dell’assurdo: “se non fosse che mi è sottratto il vedere Firenze, non vedere Firenze mi sarebbe lieve”». Che l’espressione «bel segno» denoti un oggetto d’amore femminile è del resto avvalorato dai versi (1-9) di un sonetto di Giovanni Quirini (che uno dei tre testimoni assegna a Dante): «Se il bel aspetto non mi fosse tolto / di questa donna ch’io veder desiro, / per cui dolente qui piango e sospiro / cossì lontan dal suo ligiadro volto, / ciò che mi grava … / mi seria leve» (citati da GIUNTA, p. 537), ai quali si possono aggiungere quelli più tardi di Nicolò de’ Rossi: «Da che mego veço merçé tradita, / e sopra me pietate stuta e morta, / et humeltà che ver’ me sdegno porta, / e la fede d’amor rotta e falita, / e che la spene di tornare èe ita, / e ’l bel segno che plu no mi conforta, / e l’ombra di paçe starmi pur torta, / poco curo che sia ormai de mia vita» (vv. 1-8; edito in Furio Brugnolo, Il canzoniere di Nicolò de’ Rossi, vol. I: Introduzione, testo e glossario, Padova, Editrice Antenore, 1974, p. 217).

La citazione di p. 196 sull’assenza di significati riposti nella canzone è presa da GIUNTA, p. 538; anche GIUNTA (p. 537) fa il nome di Gemma a proposito della donna allusa con l’espressione «bel segno», ma egli parla di «Gemma rimasta in città» e non di Gemma ritornata in città.

«Amore tremendo e imperioso»

La citazione di p. 198 è presa da BOCCACCIO¹, 74. I rapporti di Dante con i Faggiolani e i Guidi di Dovadola sono esplorati in modo assai persuasivo da CARPI, pp. 360-383; a lui si deve anche l’identificazione di Rinieri o Ranieri da Corneto con il padre di Uguccione (cfr. pp. 375-383). La Corneto montefeltrana non va confusa con la Corneto (Tarquinia) citata da Dante a designare i confini della Maremma: «tra Cecina e Corneto i luoghi cólti» (If XIII 9).

Benché guelfo, Guido Salvatico si era imparentato con i ghibellini conti di Montefeltro sposando Manentessa, figlia del Buonconte morto a Campaldino e perciò nipote del condottiero Guido: ma queste erano alleanze locali che prescindevano dagli schieramenti politici. Un nipote di Guido Salvatico, di nome Marcovaldo II, aveva sposato Fiesca, figlia di Moroello e di Alagia Fieschi.

Di Guido Guerra, Dante scrive: «nepote fu de la buona Gualdrada [la figlia di Bellincion Berti nella quale Dante vedeva incarnate le buone virtù del tempo antico]; / Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita / fece col senno assai e con la spada» (If XVI 37-39).

Della imponente bibliografia sulla «montanina» ricordo soltanto alcuni interventi più recenti: i saggi raccolti in Grupo Tenzone, Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, a c. di Emilio Pasquini, Madrid, Departamento de Filología Italiana UCM - Asociación Complutense de Dantología, 2009 (in particolare quello di Umberto Carpi, Un congedo da Firenze?, pp. 21-30, e la rassegna delle diverse letture della canzone fatta da Enrico Fenzi, La «montanina» e i suoi lettori, pp. 31-84); Dante Alighieri, La canzone «montanina», a c. di Paola Allegretti, con una prefazione di Guglielmo Gorni, Verbania, Tararà Edizioni, 2001; Anna Fontes Baratto, Le Diptyque «montanino» de Dante, «Arzanà. Cahiers de littérature médiévale italienne», 12 (2007), pp. 65-97; Natascia Tonelli, Amor, da che convien pur ch’io mi doglia. La canzone montanina di Dante Alighieri (Rime, 15): nodi problematici di un commento, «Per leggere», X, 19 (2010), pp. 7-36.

Per la proprietà di Pratovecchio da parte di Guido Salvatico si veda Alfred Bassermann, Orme di Dante in Italia. Vagabondaggi e ricognizioni, a c. di Francesco Benozzo, Sala Bolognese, Arnaldo Forni Editore, 2006 (rist. anast. dell’ed. Zanichelli del 1902; 1a ed. Heildelberg 1897), pp. 92-93, 189. L’affermazione del cosiddetto Anonimo fiorentino (in relazione a Pg XXIV 43-45) è riportata da Migliorini Fissi, Dante e il Casentino, cit., pp. 127-128; sull’Anonimo, che se fosse possibile identificare con Antonio di San Martino a Vado sarebbe di origine casentinese, si vedano le voci di BELLOMO, pp. 97-101, e di Francesca Geymonat nel CCD. Malato, Dante, cit., p. 56, ritiene che la «montanina» sia stata scritta «forse in Lunigiana».

Una fervida analisi della passione distruttiva che colpisce Dante nel Casentino e della sua verità autobiografica in Emilio Pasquini, Vita di Dante. I giorni e le opere, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 53-59; dell’autobiograficità di questo amore si dichiara convinto anche CARPI, pp. 761-762. La notizia della donna casentinese «gozzuta» si legge in BOCCACCIO², 35. La documentazione della presenza di Moroello in Lunigiana nel maggio 1307 è fornita da Vecchi, «Ad pacem et veram et perpetuam concordiam devenerunt», cit., p. 110.

Per il congedo della «montanina» si veda Tonelli, Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, cit., pp. 15-16; per quanto riguarda la datazione, secondo Carpi (Un congedo da Firenze?, cit., p. 28) «siamo portati verosimilmente in pieno 1307, direi verso il 1308 quando si stanno ormai profilando le sconfitte del “nero” trattativista Corso all’interno di Firenze e del “ghibellino” cardinal paciaro Napoleone Orsini all’esterno».

Sotto l’ombrello dei Malaspina

Per uno sguardo d’insieme del rapporto di Dante con Lucca si veda Giorgio Varanini, Dante e Lucca, in Dante e le città dell’esilio, cit., pp. 91-14.

Di aver conosciuto Alessio Interminelli quand’era ancora in vita lo dice Dante stesso (If XVIII 120-122). Per l’atteggiamento critico di Dante nei confronti dei lucchesi e per la figura di Alessio Interminelli si veda CARPI, pp. 162-163, 503-505.

L’indicazione cronologica relativa agli eventi svoltisi nella bolgia dei barattieri si ricava da If XXI 112-114: «Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’ otta, / mille dugento con sessanta sei / anni compié che qui la via fu rotta»; la citazione del Buti di p. 202 è presa dal Commento di Francesco da Buti sopra la «Divina Commedia» di Dante Allighieri, a c. di Crescentino Giannini, Pisa, Nistri, 1858, 3 voll. (rist. anast. Pisa, Nistri-Lischi, 1989), vol. I, p. 548 (sul Buti, che scrive negli ultimi anni del Trecento, si vedano BELLOMO, pp. 346-359, e la voce del CCD di Fabrizio Franceschini). La straordinaria coincidenza della data di morte di Martino Bottaio con il suo arrivo all’Inferno è evidenziata per la prima volta da Guido da Pisa nel commento a If XXI 38: «Ad quorum omnium notitia est sciendun, quod anno domini MCCC°, die scilicet XXVI martii, in civitate lucana mortuus est quidam popularis maximus antianus qui vocabatur Martinus Bottarius, quia vegetes faciebat»: su Martino e sull’episodio si veda Francesco Paolo Luiso, L’Anziano di Santa Zita, in Miscellanea lucchese di studi storici e letterari in memoria di Salvatore Bongi, Lucca, Scuola Tipografica Artigianelli, 1931, pp. 61-75.

Malebranche è il nome di una famiglia di Lucca; i soprannomi Cagnasso, Graffiacane, Scarmiglione figurano in numerosi documenti dell’Archivio di Stato di quella città (cfr. Luiso, L’Anziano di Santa Zita, cit., pp. 73-74; Varanini, Dante e Lucca, cit., p. 99; CARPI, p. 163).

Quanto a Gentucca, l’ipotesi di identificazione che gode di maggior credito la vuole figlia di un Ciucchino di Guglielmo Morla e poi sposa a Buonaccorso di Lazzaro di Fondara, detto Coscio o Cosciorino (Morla e Fondara sono entrambe famiglie di Lucca): si veda Varanini, L’acceso strale, cit., pp. 130-135.

Il crollo delle speranze

La morte di Corso è raccontata dettagliatamente da DAVIDSOHN, IV, pp. 485-494.

Parigi o Avignone?

Sulla vita culturale lucchese e, in particolare, sulla dotazione libraria del convento domenicano di San Romano (sede di uno Studium in naturis, nel quale, cioè, si studiavano i trattati fisici di Aristotele) informa l’introduzione di FIORAVANTI; sempre in quella sede Fioravanti esprime i dubbi sulla frequentazione dantesca dell’università parigina riportati a p. 206.

Le affermazioni degli antichi biografi intorno al soggiorno parigino di Dante sono analizzate da INDIZIO², pp. 281-282. Particolarmente rilevante è la testimonianza di BOCCACCIO², 56-57: «Ma, essendo già dopo la sua partita di Firenze più anni passati, né apparendo alcuna via da potere in quella tornare, ingannato trovandosi del suo avviso, si dispose del tutto d’abandonare Italia; e, passati gli Alpi, come poté n’andò a Parigi, acciò che, quivi a suo potere studiando, alla filosofia il tempo, che nell’altre sollecitudini vane tolto l’avea, restituisse. Udì dunque quivi e filosofia e teologia alcun tempo, non senza gran disagio delle cose opportune alla vita. Da questo il tolse una speranza presa di potere in casa sua ritornare con la forza d’Arrigo di Luzimborgo, imperatore. Per che, lasciati gli studii e in Italia tornatosi…». Tra gli studiosi moderni la tesi che Dante abbia frequentato gli ambienti dell’università di Parigi è sostenuta con grande determinazione da CARPI, pp. 651-656, ed è data per certa da Gargan, Per la biblioteca di Dante, cit., p. 169.

A poca distanza da Lerici scorre il fiume Magra, «che per cammin corto / parte lo Genovese dal Toscano» (Pd IX 89-90), che cioè per un breve tratto segna il confine fra la Toscana e la Liguria: ma questa è un’osservazione ovvia per chi, come Dante, conosce bene la Lunigiana, e quindi non è rapportabile a una precisa e circoscritta esperienza di viaggio (per l’interpretazione del «cammin corto» della Magra si veda Bassermann, Orme di Dante in Italia, cit., pp. 348-349; qui, alle pp. 200-202, si trova anche una accurata descrizione della discesa a Noli).

A parte il cenno alle imprese compiute dall’aquila imperiale nelle mani di Cesare delle quali fu testimone «ogne valle onde Rodano è pieno» (Pd VI 60), il riferimento più preciso alla Provenza è fatto da Carlo Martello: «Quella sinistra riva che si lava / di Rodano poi ch’è misto con Sorga» (Pd VIII 58-59).

CARPI (pp. 651-655), che dichiara di credere poco all’informazione indiretta e fa notare «che a quei tempi non esistevano i repertori fotografici e neppure i viaggi pittorici dei nostri nonni e bisnonni, che le stesse cronache di viaggio erano molto scarne e non indulgevano certo alle descrizioni paesaggistiche», ritiene che gli indizi sparsi nella Commedia siano frutto di esperienza personale, ivi compresa la visione della necropoli di Arles. Si spinge anche oltre, sostenendo che gli accenni alle Fiandre, e segnatamente a Bruges («Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, / temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa, / fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia», If XV 4-6; «Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia [Douai, Lille, Gand e Bruges]», Pg XX 46), possono essere il segno di «una puntata dalla vicina capitale francese, richiamato anche dalla presenza, soprattutto a Bruges, d’una colonia di mercanti e banchieri fiorentini e toscani con cui aveva una certa intrinsichezza, quei Frescobaldi per esempio» che, tramite Dino, gli avevano fatto pervenire il «quadernetto» ritrovato. Accettare queste ipotesi significherebbe, in ogni caso, postulare almeno una parziale riscrittura dei canti infernali interessati. Risulta più difficile da accettare l’idea che la concezione della città di Dite, collocata al centro di una palude, possa adombrare la situazione geografica di Aigues Mortes, «città di recente fondazione», «fatta costruire dal re di Francia Luigi IX» al centro di un’immensa gora: è difficile da accettare perché il riferimento a una esperienza diretta in questo caso non implicherebbe solo una riscrittura parziale, ma collocherebbe l’invenzione dell’intera geografia di quei canti in un periodo posteriore al 1309.

Sul cardinale Luca Fieschi si veda la voce del DBI di Thérèse Boespflug; per i rapporti tra i Fieschi e i Malaspina di Giovagallo si vedano Vecchi, Alagia Fieschi marchesa Malspina, cit., ed Ead., Legami consortili fra i Malaspina e Genova nell’età di Dante, «Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienze “G. Capellini”», LXXV (2005), pp. 229-252; Eliana M. Vecchi, Per la biografia del vescovo Bernabò Malaspina del Terziere [† 1338], «Studi Lunigianesi», XXII-XXIX (1992-1999), pp. 109-141, in part. pp. 121-125.

Non esiste documentazione alcuna di un soggiorno di Dante ad Avignone; solo due commentatori tardi accennano in modo vago a un suo viaggio e soggiorno nella città dei papi: Francesco da Buti, commentando Pg XXXII 142-160, scrive che l’autore profetizza «che tosto Roma debbe essere libera da questa avarizia [dei prelati] o che Iddio mutrà tosto li cuori loro, o che la corte [papale] si partirà quinde», e aggiunge: «e questo credo fusse la ’ntenzione de l’autore: imperò che passò a Vignone»; il già ricordato Anonimo fiorentino, a proposito di If III 52-57, afferma che «alcuno chiosatore» sostiene che, «trovandosi l’Autore a Vignone, et veggendo tanti gaglioffi quanti sono quelli che seguitano la corte del Papa», «usò di dire le parole del testo». Nessuna delle due affermazioni ha valore documentario, ma forse entrambe testimoniano che esisteva una qualche debole tradizione orale intorno a quell’evento.

Ad Avignone, in quel periodo, soggiornavano parecchi fiorentini che Dante avrebbe potuto conoscere prima dell’esilio: per esempio, il domenicano e storico Bartolomeo Fiadoni, noto come Tolomeo da Lucca, che era stato priore di Santa Maria Novella dal luglio 1300 al luglio 1302, anni nei quali sicuramente Dante frequentava quello Studio, e che risiedeva ad Avignone proprio a partire dal 1309: si veda la voce del DBI Fiadoni, Bartolomeo (Tolomeo, Ptolomeo da Lucca) di Ludwig Schmugge. Ancora: nei primi mesi del 1309 Francesco da Barberino, coetaneo di Dante, si era trasferito ad Avignone per accompagnarvi, in qualità di esperto di diritto, una ambasceria della Repubblica veneta e lì si era fermato almeno fino al marzo-aprile 1313. Ora, la prima citazione della Commedia, più precisamente dell’Inferno, si trova in una chiosa latina apposta dal Barberino ai suoi Documenti d’Amore: essa, per alcuni scritta nel secondo semestre del 1314 (ma secondo Alberto Casadei da datare al giugno-luglio 1313 [comunicazione orale]), afferma che in una sua opera detta Commedia, nella quale tra molte altre cose tratta di argomenti infernali, Dante loda Virgilio come suo maestro («Hunc [Virgilium] Dante Arigherij in quodam suo opere quod dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat, commendat protinus ut magistrum»). La chiosa può provare che a quella data l’Inferno era stato pubblicato e che il Barberino ne aveva preso visione (si veda al riguardo Giuseppe Indizio, Gli argomenti esterni per la pubblicazione dell’«Inferno» e del «Purgatorio», SD, LXVIII [2003], pp. 17-47). La stessa chiosa, però, potrebbe essere spiegata diversamente se nel 1309 Dante si fosse trovato lui pure ad Avignone e, stante la conoscenza che doveva esserci tra i due (il Barberino aveva esercitato la professione di notaio in Firenze tra il 1297 e il 1303) e considerando pure che i corregionali all’estero tendevano a instaurare rapporti tra loro, gli avesse parlato di quella prima cantica ormai conclusa e, magari, gliene avesse dato anche qualche saggio di lettura.

Un nuovo re di Germania

Sulla datazione del canto VI del Purgatorio e sull’atteggiamento scettico di Dante nei confronti dell’elezione di Enrico VII si veda CASADEI, pp. 125-128.

Il rimprovero ad Alberto d’Asburgo, e al padre Rodolfo, è in Pg VI 97-105; per quanto riguarda il verso: «tal che ’l tuo successor temenza n’aggia», Umberto Carpi (Il canto VI del «Purgatorio», «Per leggere», 10 [2006], pp. 5-30) concorda con quanti credono che non sia «affatto necessario ritenere [Enrico VII] già in carica, al momento della sua scrittura» (p. 25). Un accenno a Enrico è contenuto anche nel canto VII, dove Rodolfo d’Asburgo è accusato di avere «negletto» l’Italia: «Rodolfo imperator … che potea / sanar le piaghe c’hanno Italia morta, / sì che tardi per altri si ricrea» (Pg VII 94-96); per molti, tra i quali Carpi (Il canto VI del «Purgatorio», cit., pp. 24-26), il verso: «sì che tardi per altri si ricrea» va inteso «come la constatazione del fallimentare sforzo di restaurare [l’Italia] tentato da Arrigo VII». Così interpretato, si tratterebbe di «un intervento post factum, attuato nell’ambito di quella revisione del Purgatorio che Dante avrebbe compiuto dopo la fine di Arrigo»; invece per CASADEI, p. 127, anche quel verso è riconducibile al «clima di disincantata attesa» che aleggia sulle prime notizie dell’avvenuta elezione. Si noti infine che già nel Convivio Dante si era espresso sulla vacanza dell’impero in questi termini: «Federigo di Soave, ultimo imperatore delli Romani – ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo [Adolfo di Nassau] e Alberto poi eletti siano, apresso la sua morte e delli suoi discendenti» (IV III 6).

Dello stupore con il quale i lombardi e gli italiani in genere accolsero la notizia dell’imminente arrivo di Enrico VII parla Gabriele Zanella, L’imperatore tiranno. La parabola di Enrico VII nella storiografia coeva, in Il viaggio di Enrico VII in Italia, a c. di Mauro Tosti-Croce, Ministero per i beni culturali e ambientali, Edimont, 1993, pp. 43-56, in part. pp. 43-44.

La scrittura dell’attualità: la «Commedia»

Ho sviluppato i temi accennati in questo paragrafo in SANTAGATA, pp. 9-13, 343-347, 357-364.

L’«Inferno» guelfo

Un «Inferno» guelfo è il titolo del fondamentale saggio di Umberto Carpi più volte citato che, sviluppando e rielaborando molte osservazioni contenute nel libro sulla nobiltà di Dante (CARPI), fornisce un’interpretazione della cantica, collocata nel periodo nel quale Dante cerca di ottenere l’amnistia personale, dalla quale non si può prescindere. Le mie pagine devono molto alle sue.

Il passo dell’epistola a Moroello è controverso: per alcuni le «meditationes assiduas» sono quelle dei trattati, e in particolare del Convivio (che molti ritengono ancora in lavorazione nel 1308), per altri quelle della Commedia. Sono del primo parere, per esempio, Enrico Fenzi, Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla «montanina» di Dante, «Tenzone», 4 (2003), pp. 43-84; De Robertis in Dante Alighieri, Rime, cit., p. 199; Giuliano Tanturli, Come si forma il libro delle canzoni?, in Le rime di Dante, cit., pp. 117-134, in part. p. 131; la seconda ipotesi è sostenuta fra gli altri da Ferretti, I due tempi della composizione della Divina Commedia, cit., pp. 64-66; PADOAN, pp. 35-36; PASQUINI, pp. 9-10.

Per quanto attiene alla datazione delle prime due cantiche offre ancora spunti di grande interesse lo schema elaborato succintamente da Barbi, Una nuova opera sintetica su Dante, cit., pp. 69-77, e ripreso, ampliato e anche modificato da Parodi, La data della composizione e le teorie politiche dell’«Inferno» e del «Purgatorio», cit., pp. 233-313. Sulle date di pubblicazione dell’Inferno e del Purgatorio è importante la messa a punto di Indizio, Gli argomenti esterni per la pubblicazione dell’«Inferno» e del «Purgatorio», cit. La questione, comunque, non può ritenersi chiusa: per esempio, CASADEI, p. 140, ritiene che entrambe le cantiche possano «essere state portate a compimento e diffuse da Dante anche per manifestare la propria fedeltà all’Imperatore, quindi prima della sua morte» nell’agosto 1313.

Due figure esemplari della storia fiorentina

Per l’interpretazione politica dei canti X e XV dell’Inferno rimando a Carpi, Un «Inferno» guelfo, cit., pp. 117-120; un’analisi dell’incontro con Farinata in Marco Santagata, La letteratura nei secoli della tradizione. Dalla «Chanson de Roland» a Foscolo, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 63-73, e in SANTAGATA, pp. 330-333, 351-355.

In VE I XII 4 Dante aveva definito Federico II e Manfredi «eroi luminosi» che avevano perseguito «ciò che è umano, sdegnando ciò che è da bruti» (illustres heroes … humana secuti sunt, brutalia dedignantes).

Del Tesoretto (edito in Poeti del Duecento, cit., vol. II, pp. 175-277) si leggano i vv. 156-162: «mi disse immantinente / che guelfi di Firenza / per mala provedenza / e per forza di guerra / eran fuor de la terra, / e ’l dannaggio era forte / di pregioni e di morte» e i vv. 186-190: «e io, in tal corrotto, / pensando a capo chino, / perdei il gran cammino, / e tenni a la traversa / d’una selva diversa». Si osservi anche che il testo dantesco, poco dopo l’inizio, definisce Firenze una «città partita» (If VI 61), proprio come Brunetto parla di una guerra civile offensiva del naturale desiderio di ogni uomo che la propria città non sia «in divisa», «ché già non può scampare / terra rotta di parte» (vv. 166-179). A proposito del motivo dell’esilio nel Tesoretto, Giuliano Milani (Brunetto Latini e l’esclusione politica, «Arzanà» [2012], in corso di stampa) osserva come Brunetto esprima «una generale considerazione sulla necessità, per una città, di essere amministrata in concordia, senza che gli interessi di una parte, quale essa sia, trionfino in modo esclusivo». Di «macroscopico antecedente dell’incipit della Commedia» parla Giorgio Inglese (voce del DBI Latini, Brunetto); anche Beltrami (introduzione a Brunetto Latini, Tresor, cit., p. XXV) osserva come, per l’inizio del Tesoretto, sia «immediato il confronto con l’avvio della Commedia», salvo avvertire che al poema dantesco il «Tesoretto non dà comunque molto più di un semplice spunto».

I toscani folli che, «nella loro dissennatezza, pretendono di arrogarsi il titolo del volgare illustre» sono «Guittone Aretino, che mai s’indirizzò al volgare curiale, Buonagiunta Lucchese, Gallo Pisano, Mino Mocato Senese, Brunetto Fiorentino, i versi dei quali, se ci sarà spazio per frugarci dentro, si riveleranno non curiali ma solo municipali» (qui propter amentiam suam infroniti titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur … puta Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum, quorum dicta, si rimari vacaverit, non curialia sed municipalia tantum invenientur; VE I XIII 1). Alcuni studiosi cercano di attenuare la censura dantesca riferendola non al Tesoretto e al Favolello, ma alla produzione lirica di Brunetto; invece TAVONI (pp. 1282-1283), tenendo conto dell’assoluta marginalità della lirica brunettiana e dei caratteri tutt’altro che «mediocri» della lingua dei pochi esemplari pervenuti, ipotizza che si riferisca proprio ai poemetti didascalici. Questi sono ricchi di vocaboli e modi municipali, gli stessi che, in funzione caratterizzante e priva di ogni intento polemico, Dante «metterà in bocca a Brunetto personaggio nell’Inferno, infarcendo il suo discorso di espressioni popolari, proverbiali, idiomatiche».

Una reticenza carica di significato

Il discorso sulla reticenza dantesca intorno alle vicende politiche fiorentine e al suo bando è sviluppato più ampiamente in SANTAGATA, pp. 330-333. Anche Sestan (Dante e Firenze, cit., pp. 273-274) osserva che Dante nella Commedia passa sotto silenzio molti dei fatti «che punteggiarono la vita politica» della città negli anni in cui lui vi viveva: fra questi, «la figura e l’azione di un Giano della Bella e di un Corso Donati; e anche le lotte feroci fra Bianchi e Neri». Le osservazioni di Sestan sono state riprese poi da Girolamo Arnaldi, Pace e giustizia in Firenze e in Bologna al tempo di Dante, in Dante e Bologna nei tempi di Dante, a c. della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1967, pp. 163-177, in part. p. 165.

Si rileggano i versi della predizione di Farinata: «“S’elli han quell’arte”, disse, “male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto. / Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia de la donna che qui regge, / che tu saprai quanto que quell’arte pesa…”» (If X 77-81): sul significato della profezia si veda Carpi, Un «Inferno» guelfo, cit., p. 117.

Il medievista citato a p. 217 è Girolamo Arnaldi, Il canto di Ciacco (Lettura di Inf. VI), «L’Alighieri», XXXVIII (1977), pp. 7-20; la cit. alle pp. 14-15.

Quasi una palinodia: i primi canti del «Purgatorio»

Per la datazione dei canti purgatoriali fino al XVI compreso mi rifaccio sostanzialmente a CASADEI.

«In tutto l’Inferno non si fa menzione dell’Impero se non una sola volta, quasi di sfuggita, nelle note parole del secondo canto, che, mentre lo glorificano come predestinato da Dio, sembrano però disconoscergli una sua propria finalità … Dante sembra trarre la conseguenza che il fine ultimo e della fondazione di Roma e dell’istituzione dell’Impero era stato di preparar la sua sede al Vicario di Cristo» (Parodi, La data della composizione e le teorie politiche dell’«Inferno» e del «Purgatorio», cit., pp. 253-254).

Sull’equazione ghibellinismo-eresia si vedano le osservazioni di Gian Maria Varanini, nella voce Ezzelino III da Romano del Dizionario storico dell’Inquisizione, cit.

Il canto XXVII dell’Inferno e l’ottica politica con la quale è osservata la figura di Guido da Montefeltro sono oggetto di una innovativa analisi di Tavoni (Guido da Montefeltro dal «Convivio» all’«Inferno», cit., di cui qui riprendo le linee di fondo); è lui a suggerire che l’espressione «lo nobilissimo nostro latino» significhi «il più nobile degli italiani» (p. 169).

Gratitudine e risentimento

Per quanto concerne la parentela tra i Guidi di Dovadola e i Malaspina di Giovagallo si ricordi che Marcovaldo, nipote di Guido Salvatico, aveva sposato Fiesca, figlia di Moroello e di Alagia.

Le complesse trame parentali tra Malaspina, Visconti e Fieschi, ulteriormente complicate dalle vicende dei possedimenti di Sardegna e dai progetti coltivati dai Doria di Genova e dagli Este di Ferrara, si possono ricostruire attraverso l’indice dei nomi e le tavole genealogiche di CARPI: in particolare, per Alagia, Beatrice d’Este, Eleonora Fieschi e i Doria si vedano le pp. 413-416, mentre per le intricate vicende matrimoniali di Giovanna figlia di Nino Visconti si veda p. 415 (alle pp. 452-453 un breve ritratto della donna). Sulla figura di Adriano V si vedano i contributi di Giuseppe Indizio, Adriano V in Dante e nel secolare commento. Leggenda e storia nel canto XIX del «Purgatorio», pp. 267-280, e di Daniele Calcagno, In merito alla conversione di Ottobuono Fieschi - Adriano V, «Giornale storico della Lunigiana e del territorio lucense», n.s., LIX (2008), pp. 281-296. Per quanto riguarda Alagia e i rapporti tra i Malaspina e i Fieschi rimando ai citati lavori di Eliana Vecchi: Alagia Fieschi marchesa Malaspina e Legami consortili fra i Malaspina e Genova nell’età di Dante.

Alberico presenta sé stesso e Branca Doria nel canto XXXIII dell’Inferno, vv. 118-147. Notizie sul faentino frate gaudente Alberico dei Manfredi, autore di una strage familiare perpetrata al termine di un banchetto, si trovano nella voce dell’ED Alberigo, Frate di Vincenzo Presta e in CARPI, passim. Su Michele Zanche (per il quale si veda anche If XXII 88) si legga la voce dell’ED di Giorgio Petrocchi.

Per quanto concerne i difficili rapporti tra i Doria e i Malaspina, si consideri che Branca Doria aveva progettato di dare in sposa la Giovanna figlia di Nino Visconti a un suo nipote, figlio di quel Bernabò con il quale era sposata Eleonora Fieschi, cugina di Alagia. Per la questione di Lerici occupata da Branca Doria rinvio a CARPI, pp. 639-640. Tra i canali di informazione sull’oscura vicenda della morte di Michele Zanche sui quali potevano contare i Malaspina, va segnalato quello rappresentato dagli Spinola, altra cospicua famiglia ghibellina di Genova strettamente legata ai Doria, dal momento che una Spinola era Orietta, moglie di Corrado II, e una delle figlie di Michele Zanche era maritata proprio con uno Spinola. Dante dice che Branca aveva compiuto il delitto con l’aiuto di «un suo prossimano» (If XXXIII 16), e costui è identificabile, cosa degna di nota, con Giacomino Spinola.

Una questione delicata

In Pd XVI 94-98 Dante depreca che sulla porta della dimora fiorentina dei conti Guidi adesso (nel 1300) campeggi l’insegna dei Cerchi, che l’avevano acquistata nel 1280. Quanto alla loro recente inurbazione, Ciacco li definisce «la parte selvaggia» (If VI 65), mentre Cacciaguida afferma che se non ci fosse stato tale deprecabile fenomeno, ancora «sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone» (Pd XVI 65), cioè nella parrocchia d’Acone in Val di Sieve. All’opposto, già nell’antica Firenze di Cacciaguida «lo ceppo di che nacquero i Calfucci [ceppo che comprendeva i Donati] / era già grande» (Pd XVI 106-107).

A parlare di «apologia» dei Donati è CARPI, p. 176 (ma si vedano anche le pp. 136-138).

Per Cianghella, cugina di Rosso Della Tosa e moglie di Lito degli Alidosi, famiglia guelfa di Imola collegata ai Della Tosa, si vedano CARPI, pp. 175-177, e SANTAGATA, pp. 346-347.

Dante è un umorale che quasi mai riesce a liberarsi dall’odio nei confronti di chi gli ha fatto torto o l’ha oltraggiato. E ciò vale anche per i pur rispettati Donati. Nell’Inferno nomina due Buoso Donati: il più anziano, tra i contraffattori di persona; il più giovane, tra i ladri. Il primo, però, è una vittima, il secondo un colpevole. Si racconta che Simone Donati (padre di Corso, Forese e Piccarda) avesse indotto Gianni Schicchi dei Cavalcanti a prendere il posto del morente Buoso di Vinciguerra Donati: Gianni, travestitosi così bene che nemmeno il notaio si era accorto della sostituzione di persona, avrebbe dettato un testamento a favore di Simone. In If XXX 42-45 è l’alchimista Griffolino d’Arezzo (per il quale cfr. CARPI, pp. 674-675) a dire a Dante: «l’altro che là sen va [Gianni Schicchi], sostenne, / per guadagnar la donna de la torma [la regina del branco], / falsificare in sé Buoso Donati, / testando e dando al testamento norma». Anche se così come è riportato dai commentatori ha molti aspetti da novella, il racconto deve contenere un nucleo di verità relativo ai rapporti patrimoniali di due potenti famiglie come i Donati e i Cavalcanti. Perché Dante attacchi in modo infamante il padre dei fratelli Donati non sappiamo. Sicuramente egli era addentro ai retroscena dell’accaduto, e altrettanto sicuramente sapeva che i fiorentini avrebbero capito. È del tutto chiaro, invece, perché abbia attaccato il secondo Buoso (nipote del Buoso contraffatto e zio paterno di Corso, Forese e Piccarda) tacciandolo di ladro (If XXV 140). Buoso di Forese Donati era padre di Gasdia sposata con Baldo d’Aguglione, e quando c’è di mezzo questo giurista, Dante non si trattiene. Per i due Buoso Donati rimando a CARPI, pp. 138-140.

IV. Arriva un imperatore (1310-1313)

Una partita a quattro

Nella ricchissima bibliografia relativa a Enrico VII e alla sua spedizione in Italia segnalo gli studi di cui mi sono soprattutto servito: DAVIDSOHN, IV, pp. 477-759; Francesco Cognasso, Arrigo VII, Milano, Dall’Oglio, 1973; i saggi raccolti in Il viaggio di Enrico VII in Italia, cit. (in part.: Franco Cardini, La Romfahrt di Enrico VII, pp. 1-11; Hannelore Zug Tucci, Henricus coronatur corona ferrea, pp. 29-42; Gabriele Zanella, L’imperatore tiranno. La parabola di Enrico VII nella storiografia coeva, pp. 43-56; Achille Tartaro, Dante e l’«alto Arrigo», pp. 57-60).

Per le concessioni fatte da Enrico al papa sul tema della superiorità della potestà spirituale su quella temporale si veda ZINGARELLI, p. 251.

Di Simone di Filippo Reali si veda lo schizzo biografico tracciato da DAVIDSOHN, IV, pp. 524-525.

Poco importante in sé, ma significativo nell’ottica dantesca, è il fatto che nell’Aretino i commissari di Enrico ricevano il giuramento di fedeltà di Aghinolfo di Romena, l’antico capitano dei fuorusciti «bianchi». A differenza di molti altri esponenti della consorteria dei Guidi, Aghinolfo e il fratello, il vescovo Ildebrandino, si manterranno sempre fedeli alla causa imperiale. Aghinolfo combatterà nell’esercito imperiale durante l’assedio di Firenze; Ildebrandino (che morirà nel 1313) sarà nominato vicario di Arezzo (cfr. CARPI, pp. 578-579).

Aspettando l’imperatore

Palesemente erronee sono le illazioni sul fatto che Dante possa essersi aggregato al corteo di Enrico VII che scendeva in Italia: uno dei pochi dati certi, infatti, è che egli si trovava in Italia almeno cinque o sei mesi prima che Enrico cominciasse il suo viaggio. Da valutare con attenzione, invece, è la testimonianza di Boccaccio, secondo il quale Dante si sarebbe mosso da Parigi «sentendo» che il neoeletto lasciava la Germania «per soggiogarsi Italia»; a parte Parigi, l’informazione è sostanzialmente corretta. Boccaccio prosegue poi dicendo che, «ripassate le Alpi» e «con molti nemici di Fiorentini e di lor parte congiuntosi», Dante, con ambascerie e lettere, cercò di distogliere Enrico dall’assedio di Brescia e di convincerlo ad attaccare Firenze (BOCCACCIO¹, 76-78). L’assedio a cui si riferisce è quello di Cremona, e non di Brescia, ma anche questa informazione contiene molta verità, purché non la si riferisca a un periodo immediatamente successivo al rientro in Italia.

Biondo Flavio, che sembra basare il suo racconto su una cronaca («traditur»), forse scritta da Pellegrino Calvi, dopo avere riferito dettagliatamente dell’ambasceria a Firenze, aggiunge: «Dante Alighieri, che a quel tempo dimorava a Forlì, in un’epistola indirizzata a Cangrande della Scala veronese a nome suo e dei fuoriusciti della fazione dei Bianchi, che Pellegrino Calvi lasciò scritta, dice cose tali, a proposito della risposta alle suddette disposizioni dell’imperatore data dai Fiorentini che allora tenevano il potere della città, per le quali taccia di imprudenza, insolenza e cecità coloro che governavano, tanto che Benvenuto da Imola, che crederei abbia letto gli scritti di Pellegrino, dichiara che Dante, da questo momento in poi, abbia cominciato a chiamare i fiorentini con l’epiteto di “ciechi”» (Dantes Aldegherius, Fori Livii tunc agens, in epistola ad Canem Grandem Scaligerum veronensem, partis Albae extorrum et suo nomine data, quam Peregrinus Calvus scriptam reliquit, talia dicit de responsione supradictae expositioni a Florentinis urbem tenentibus tunc facta, per quae temeritatis et petulantiae ac caecitatis sedentes ad clavum notat, adeo ut Benvenutus Imolensis, quem Peregrini scripta legisse crediderim, Dantem asserat hinc cepisse Florentinos epitheto «caecos» appellare; Historiarum ab inclinatione Romani imperii decades quattuor, cit., decade II, libro IX, p. 342). Benvenuto da Imola non accenna mai a questo episodio della vita di Dante, nemmeno quando si dilunga a spiegare, a proposito di If XV 67, l’origine del detto popolare che chiamava ciechi i fiorentini. Sul fatto che Dante abbia scritto a Cangrande nel 1310 è dubbioso Michele Barbi, Sulla dimora di Dante a Forlì (1892), in BARBI¹, pp. 189-195, in part. p. 194; molto scettico CASADEI, p. 129, al quale «risulta ben improbabile che, nella seconda metà del 1310, Dante scrivesse a nome suo e degli esuli “partis Albae”»; a suo avviso, anche in questo caso Biondo potrebbe avere «male interpretato i riferimenti», come già gli era accaduto quando aveva parlato della missione diplomatica a Verona nel 1304. Non poggia su nulla l’idea che l’epistola a Cangrande di cui parla Biondo possa essere stata scritta nella primavera del 1310 (PETROCCHI, p. 150) o nella seconda metà del 1311 (Padoan, Tra Dante e Mussato, cit., p. 37).

Per la missione dei legati di Enrico a Verona si veda Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 102-103.

Sul fatto che Dante, nella seconda metà del 1310, si muova in un contesto collettivo e parli a nome di un gruppo, che non può essere che quello dei fuorusciti, sono illuminanti le scarne annotazioni di INDIZIO², p. 290; ma si veda anche PETROCCHI, p. 149.

Con i vecchi compagni di lotta

Solo l’anno prima (1309) era stato celebrato il matrimonio tra un fratello di Scarpetta, di nome Sinibaldo, e una sorella di Fulcieri, di nome Onestina. Fulcieri, si ricorderà, era stato il podestà che aveva infierito sui Bianchi dopo averli sconfitti a Pulicciano (1303) e che in un canto del Purgatorio, composto forse pochi mesi prima del suo arrivo a Forlì, Dante aveva bollato come spietato «cacciator» dei suoi compagni (Pg XIV 58-66). Desumo le notizie sul matrimonio Ordelaffi-Calboli e sul rientro dei Calboli in città da CASADEI, pp. 129-130.

La corona di ferro

Non era la prima volta che Enrico veniva in Italia: vi era già stato, in visita per così dire privata, dieci anni prima, quando, dopo aver soggiornato a lungo a Torino, aveva accompagnato a Roma Ludovico I di Savoia-Vaud, che si recava a Napoli per sposarvi, il 1° maggio 1301, Isabella d’Aulnay (Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 96-97).

Per le vicende dell’incoronazione e della «corona ferrea», che probabilmente, così come veniva allora vagheggiata da chi mai l’aveva vista, era una semplice leggenda, si vedano Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 136-139, e, soprattutto, Zug Tucci, Henricus coronatur corona ferrea, cit.

Un manifesto politico

Nell’Ep VII 2 a Enrico (aprile 1311) Dante scrive: «ti ho visto assai benigno, come si addice alla maestà imperiale, e ti ho udito pronunciarti con assoluta clemenza, quando le mie mani toccarono i tuoi piedi e le mie labbra sciolsero il loro debito» ([ego] velut decet imperatoriam maiestatem benignissimum vidi et clementissimun te audivi, cum pedes tuos manus mee tractarunt et labia mea debitum persolverunt).

L’Ep V (dell’autunno del 1310) termina con le seguenti parole: «Questi è colui che Pietro, vicario di Dio, ci esorta a onorare; che Clemente, ora successore di Pietro, illumina con la luce della benedizione apostolica; e dove non è sufficiente il raggio spirituale, ivi risplenda la luce del minor luminare» (Hic est quem Petrus, Dei vicarius, honorificare nos monet; quem Clemens, nunc Petri successor, luce Apostolice benedictionis illuminat; ut ubi radius spiritualis non sufficit, ibi splendor minoris luminaris illustret). Il carattere politico dell’epistola è stato colto molto bene da DAVIDSOHN, IV, pp. 562-563, che però ne deduce un programma troppo preciso: «Da questa epistola del Poeta si scorge a che cosa mirassero i Bianchi ed i Ghibellini, loro alleati, quando egli, loro fervido interprete, rendeva omaggio al re dei Romani. Essi volevano che Firenze divenisse città libera dell’Impero: come tale avrebbe avuto dal futuro Imperatore l’investitura con la giurisdizione e il diritto di batter moneta e percepire tutte le altre regalie. In cambio la città si sarebbe obbligata a pagare un tributo e a fornire armati su richiesta del sovrano». Per quanto riguarda i «due luminari» scrive Pasquini, Vita di Dante, cit., p. 69: «Nella chiusa dell’epistola Dante sembra avallare … la teoria dei duo luminaria (sole e luna, come icone di papato e Impero), ribadita da Clemente nella lettera Divine sapientie, inviata ad Arrigo da quel pontefice il 26 luglio 1309».

Se si considera quali e quante rappresaglie venivano messe in atto nelle città comunali a ogni cambio di regime, l’invito a perdonare che Dante rivolge agli esuli e l’assicurazione in tal senso che rilascia a Enrico appariranno nel loro giusto valore politico. È sintomatico che nell’Ep IV 2 a Moroello egli, per illustrare l’imperio d’Amore su di lui, ricorra metaforicamente all’immagine di «un signore scacciato dalla patria» che «dopo un lungo esilio, rimpatriando nelle terre che sono solo sue, annienta, caccia o incatena qualsiasi cosa gli sia stata contraria» (hic ferox, tanquam dominus pulsus a patria post longum exilium sola in sua repatrians, quicquid eius contrarium fuerat … vel occidit vel expulit vel ligavit).

Il senso dell’epistola dantesca collima perfettamente con quanto emerge dal verbale di una affollata assemblea di fuorusciti guelfi e ghibellini tenutasi a Pisa, nella chiesa di San Michele in Borgo, il 18 ottobre 1310. I convenuti – tra i quali troviamo nomi a noi ben noti come quelli del vecchio Lapo degli Uberti, figlio di Farinata, Ricovero dei Cerchi, Andrea Gherardini (il persecutore dei Neri di Pistoia), Gherardino Diodati (priore insieme al Saltarelli, poi condannato a morte) – decidono di inviare al sopravveniente Enrico un’ambasceria capeggiata da Lapo degli Uberti, con il mandato di accettare tutte le condizioni che l’imperatore vorrà loro porre e di rimettersi completamente al suo arbitrio. Il verbale della riunione è pubblicato da PADOAN, pp. 229-235, del quale si veda anche Tra Dante e Mussato, cit., pp. 30-31.

Tra i possibili mediatori si possono segnalare il cappellano di Enrico, il canonico di Cambrai Galasso dei conti Alberti di Mangona, vicino al cardinale Niccolò da Prato (dal quale era stato nominato vicario a Pistoia quando, nel 1304, aveva tentato di farvi rientrare i Bianchi) e l’ottimo conoscente di Dante, il giurista, molto influente a corte, Palmiero degli Altoviti, che era stato priore nei mesi in cui i Cerchieschi avevano deciso di cacciare i Neri da Pistoia e che a Dante era stato accomunato nella sentenza di morte. Per Galasso degli Alberti di Mangona si veda DAVIDSOHN, IV, pp. 175, 380, 437, 567.

Un vincitore vinto

A Milano Dante avrebbe potuto incontrare molti vecchi amici e conoscenti: tra gli amici, Cino da Pistoia, politicamente «nero» ma sostenitore delle idee imperiali, nei fatti e negli scritti (da Milano Cino avrebbe raggiunto a Roma il neosenatore Ludovico di Savoia, al fianco del quale sarebbe rimasto come consigliere giuridico fino all’estate dell’anno dopo). Tra i conoscenti, il guelfo «bianco» e rimatore Sennuccio del Bene, allontanatosi da Firenze, non si sa se volontariamente o per forza, all’avvento dei Neri e che poi parteciperà all’assedio della sua città nelle file dell’esercito imperiale. Dante doveva averlo conosciuto nella seconda metà degli anni Novanta del Duecento, quando questi ricopriva incarichi nell’amministrazione del Comune; è improbabile, tuttavia, che sia di Dante il sonetto Sennuccio, la tua poca personuzza (Rime dubbie 4): si veda GIUNTA, pp. 682-683.

Per avere un’idea di quanto forte fosse la pressione esercitata su Enrico dai Ghibellini e dagli esuli «bianchi» basta scorrere l’elenco dei vicari da lui nominati fra il 1311 e il 1312: sono signori ghibellini Alboino e Cangrande della Scala, vicari a Verona (poi Cangrande, morto il fratello nel novembre 1311, anche a Vicenza), Rizzardo da Camino, che aveva abbandonato lo schieramento guelfo, a Treviso, Franceschino Malaspina a Parma, Uguccione della Faggiola a Genova; sono sbanditi fiorentini Lapo degli Uberti, vicario a Mantova, Lamberto dei Cipriani a Piacenza, Francesco di Tano degli Ubaldini a Pisa. Sono «bianchi» i numerosi membri della famiglia pistoiese dei Vergiolesi, costretta all’esilio nel 1306, che rivestono la carica di vicario: Guidaloste a Modena, Soffredi (o Goffredo) a Cremona, Lando a Bergamo. Si aggiunga che Filippo Vergiolesi (padre della Selvaggia amata da Cino), il quale, dopo l’esilio, si era dato alla guerriglia antifiorentina sull’Appennino, svolge incarichi diplomatici di rilievo. Incarichi rilevanti sono affidati anche al fiorentino Palmiero degli Altoviti. Notizie su Lamberto dei Cipriani in DAVIDSOHN, IV, pp. 571, 642, 776; sempre lì, alle pp. 488, 494, 571, 642, si leggono notizie su Francesco degli Ubaldini, figlio di Tano; per i Vergiolesi rimando a Vinicio Pacca, Un ignoto corrispondente di Petrarca: Francesco Vergiolesi, NRLI, IV (2001), pp. 151-206.

Per il decreto di revoca dei bandi e per la questione dei beni confiscati rimando a Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 151-153 (ivi la frase citata a p. 238).

Lo storico citato a p. 239 è DAVIDSOHN, IV, p. 593.

Un ghibellino a oltranza

Nel luglio-agosto 1311 il nuovo vicario della Romagna, Gilberto de Santilla, succeduto a Niccolò Caracciolo, interviene con mano pesante a Forlì imprigionando sia Scarpetta Ordelaffi sia Fulcieri da Calboli (cfr. CASADEI, p. 130).

Sono molti ad affermare che le epistole VI e VII sono state scritte a Poppi: per esempio, Mazzoni, Le epistole di Dante, cit., p. 67; il commento di Arsenio Frugoni a Dante Alighieri, Epistole, p. 550; PETROCCHI, pp. 149-150; Cardini, La Romfahrt di Enrico VII, cit., p. 1. Invece ZINGARELLI, p. 264, scrive che la precisazione «sub fontem Sarni» contenuta in entrambe le lettere «ci porta immediatamente col pensiero a Porciano, a cinque miglia sotto le sorgenti dell’Arno»; dello stesso parere era anche Corrado Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, nuova edizione con 47 illustrazioni, premessa e appendice di aggiornamento a c. di Eugenio Chiarini, Ravenna, Edizioni «Dante» di A. Longo, 1965 (1a ed. 1891), pp. 14-17; più sfumato DAVIDSOHN, IV, p. 591, secondo il quale l’Ep VI sarebbe stata scritta «da uno dei castelli dei ghibellini Guidi in Casentino». A ragione ZINGARELLI, pp. 263-264, sottolinea che presso i Guidi di Battifolle Dante non avrebbe potuto esprimere idee così radicalmente antifiorentine.

Per lo stile biblico-profetico delle epistole politiche di Dante si vedano le osservazioni di Mazzoni (Le epistole di Dante, cit., pp. 77, 95) sulla prevalenza del lessico e del fraseggiare biblico-liturgico nel latino letterario delle cancellerie.

Dei progetti monetari di Enrico tratta Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 160-163.

Sulla questione della prescrizione dei diritti imperiali si sofferma con grande intelligenza DAVIDSOHN, IV, pp. 562-566 (ricavo da qui la notizia dell’elenco di castelli di cui si pretendeva la restituzione stilato dalla cancelleria imperiale), ma si vedano anche: Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 186, 189; Alberto Casadei, «Sicut in Paradiso Comedie iam dixi», SD, LXXVI (2011), pp. 179-197, in part. pp. 186-187, e, soprattutto, l’introduzione di Diego Quaglioni alla sua edizione commentata della Monarchia in corso di stampa in Dante Alighieri, Opere, vol. II. Scrive CARPI (p. 561) che la Chiesa e Firenze, nel tentativo di affermare la propria giurisdizione sulla Romandiola e la Tuscia, interpretano «come mera proprietà dei feudatari (da comprare o confiscare) ciò che era stato per diploma imperiale pieno dominium» e, pertanto, ne riducono «ad arbitrio o crimine gli atti amministrativi e di governo».

Di un Dante «ghibellino a oltranza» (p. 242) parla DAVIDSOHN, IV, p. 566.

Alla morte di Guido Guerra III, i figli avevano chiesto a Boncompagno da Signa, giurista a loro personalmente vicino, un parere sull’opportunità di dividere la contea: Boncompagno aveva risposto con una epistola-trattato (Epistola mandativa ad comites palatinos) nella quale raccomandava prudenza, facendo rilevare come le divisioni avessero fatto decadere già molte famiglie marchionali e comitali, soprattutto nelle zone geografiche nelle quali erano presenti «dominia» di città. Città che egli, con ottica feudale, bolla per l’appunto come «sanguisuge». Su questo episodio si leggano le osservazioni di CARPI, pp. 553-554; l’epistola di Boncompagno è pubblicata on line da Steven M. Wight (http://scrineum.unipv.it/wight/epman.htm). Per le vicende dei vari rami dei Guidi, il loro atteggiamento nei confronti di Firenze e, poi, di Enrico VII ha scritto pagine fondamentali CARPI (pp. 534-580); i modi attraverso i quali il Comune di Firenze riuscì gradatamente a impadronirsi delle proprietà e dei diritti della consorteria dei Guidi, fino a distruggerla, sono descritti da Sestan, I conti Guidi e il Casentino, cit., pp. 359-362.

Passaggi della lettera dei priori di Firenze a Roberto d’Angiò sono pubblicati da DAVIDSOHN, IV, p. 594.

A proposito delle lettere di Gherardesca a Margherita di Brabante, esemplifica bene quale considerazione i dantisti abbiano del carattere indefettibile e orgogliosamente autonomo di Dante ciò che Mazzoni (Le epistole di Dante, cit., p. 78) obietta alla tesi, peraltro non condivisibile nelle sue linee di fondo, di Fredi Chiappelli (Osservazioni sulle tre epistole dantesche a Margherita Imperatrice, GSLI, CXL [1963], pp. 558-565), secondo la quale l’ultima epistola sarebbe più fredda nei confronti della parte imperiale, e cioè «che l’Alighieri [non] avrebbe mai preso l’imbeccata dai suoi patroni al punto di dosare il peso del proprio entusiasmo e il calore delle espressioni in rapporto ad un giudizio possibilista, da diplomatico, sugli avvenimenti».

L’amnistia di Baldo d’Aguglione

Sulla questione del regno di Arles si veda Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 59-60, 70, 194-195 (per una storia del regno negli anni immediatamente precedenti, si veda Paul Fournier, Le Royaume d’Arles et de Vienne et ses rélations avec l’Empire da la mort de Fréderic II à la mort de Rodolphe de Hasbourg [1250-1291], Paris, Victor Palmé éditeur, 1886).

Particolarmente grave fu ciò che accadde a seguito dell’uccisione di Betto Brunelleschi, lo stesso che nel giugno dell’anno prima aveva risposto sprezzantemente ai messi di Enrico. I Donati lo avevano ritenuto, insieme a Pazzino dei Pazzi, responsabile della morte di Corso nel 1308. Nel febbraio 1311 due giovani Donati vendicano l’illustre congiunto uccidendo Betto. Uno degli assalitori muore a sua volta, colpito da un figlio del Brunelleschi. Ne nascono tumulti in città. Alla salma di Corso, esumata, viene riservato un ricco funerale. A sua volta, il funerale è motivo, a causa della divisione di una sostanziosa elemosina, di un lungo e aspro scontro degenerato in rissa tra i domenicani di Santa Maria Novella e il clero del Capitolo di Santa Maria del Fiore. Nei giorni successivi, la lite per i proventi del funerale si estende fino a coinvolgere tutto il clero secolare della città: ai domenicani viene perfino proibito di predicare in chiese non loro. La disputa durerà ben dieci anni, e si chiuderà solo nel 1321, dopo essere transitata perfino per la curia avignonese, con l’intervento del generale dell’Ordine (cfr. DAVIDSOHN, IV, pp. 546-548).

La provvisione del 2 settembre si legge in PIATTOLI, n. 106, che però pubblica solo i nomi degli esclusi del sesto di Porta San Piero (l’edizione integrale è nel Libro del Chiodo, cit., pp. 283-308).

L’assenza di riferimenti ai figli di Dante nel testo della provvisione non è sfuggita a DAVIDSOHN, IV, p. 620, secondo il quale Iacopo e Pietro, che lui presume sbanditi, in seguito a quell’atto, non essendo stati nominati, «avrebbero potuto fin da allora fare ritorno nella città che il padre non doveva più rivedere».

L’amnistia non pacificò gli animi dei fiorentini. Nel gennaio 1312, pochi mesi dopo la sua promulgazione e quando già Enrico aveva pronunciato il bando dell’impero contro Firenze, anche Pazzino dei Pazzi venne ucciso per vendetta. Questa volta furono i Cavalcanti a vendicare l’esecuzione di un loro congiunto, avvenuta nove anni prima, di cui attribuivano a Pazzino la responsabilità. E anche questa volta l’uccisione di un uomo potente dell’oligarchia provocò tumulti popolari che culminarono con l’incendio delle case dei Cavalcanti, che erano state ricostruite dopo il grande rogo del 1304. La fuga di quasi tutti i capi della consorteria e la distruzione degli immobili causarono la rovina della loro compagnia commerciale (cfr. DAVIDSOHN, IV, pp. 448-450).

L’ombra del passato

Per valutare quanto fosse ancora attuale la vicenda di Ugolino, che pure risaliva a più di trent’anni prima, si pensi che Guelfo, un nipote del conte imprigionato nel giugno 1288 quando era di pochi mesi, nel 1313 era ancora rinchiuso in carcere, dal quale lo libererà un intervento di Enrico, peraltro osteggiato dai Ghibellini pisani; si vedano DAVIDSOHN, III, p. 435; IV, p. 639.

La parentela di Moroello con Ugolino della Gherardesca passava attraverso la sorella Manfredina, che nel 1285 aveva sposato Banduccio, figlio illegittimo ma riconosciuto del conte; cfr. Vecchi, Alagia Fieschi marchesa Malaspina, cit., p. 35.

Padoan, Tra Dante e Mussato, cit., p. 37, ritiene che Dante lasci il Casentino dopo il maggio 1311 per «raggiungere gli altri fuorusciti toscani» (il che, sembrerebbe di capire, sarebbe avvenuto a Forlì); CARPI, p. 664, pensa, invece, che la permanenza di Dante nel Casentino possa essere durata per quasi tutto l’anno; è ancora lui (pp. 669-670) a parlare di Pisa «sempre infida e pericolosa sia nella sua [di Dante] memoria di vecchio guelfo legato a Nino Visconti (e nei mesi precedenti anche alla figlia del conte Ugolino…), sia nella sua esperienza recente di intellettuale alla antipisana e filolucchese corte dei Malaspina».

Per l’ambasceria respinta dai fiorentini e approdata dai Guidi rimando a: DAVIDSOHN, IV, pp. 605-613; Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 251-252; CARPI, pp. 664-666 (qui è riportato il brano della relazione del Butrinto relativo all’incontro con i Guidi); Giuseppe Indizio, Un episodio della vita di Dante: l’incontro con Francesco Petrarca, «Italianistica», XLI [2012], in corso di stampa (che riporta la traduzione dello stesso brano citato da Carpi). Per notizie sulla Relatio de itinere Henrici VII ad Clementem V del Butrinto si veda CARPI, p. 769; un dettagliato racconto di quella sfortunata ambasceria è fatto da Isidoro Del Lungo, Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII. Pagine di storia fiorentina per la vita di Dante, Milano, Hoepli, 1899, pp. 435-441.

Tra i genovesi «pien d’ogne magagna»

Per Bernabò Doria si veda Monti, Uguccione della Faggiola, la battaglia di Montecatini e la «Commedia» di Dante, cit., pp. 139-141.

La notizia dell’incontro con Dante è fornita da Petrarca nella Fam. XXI 15, 7-8, del 1359. La ricostruzione degli spostamenti della famiglia di Petrarca tra il 1310 e il 1312 fatta da Arnaldo Foresti (Aneddoti della vita di Francesco Petrarca, nuova edizione corretta e ampliata dall’autore, a c. di Antonia Tissoni Benvenuti con una premessa di Giuseppe Billanovich, Padova, Editrice Antenore, 1977, pp. 1-7 [il saggio risale al 1923]) è corretta in modo persuasivo da Indizio, Un episodio della vita di Dante, cit.

I racconti della bastonatura che Dante avrebbe subito su mandato del Doria sono pubblicati da Giovanni Papanti, Dante secondo la tradizione e i novellatori, Livorno, Vigo Editore, 1873, pp. 151-153.

Incoronazione e catastrofe

La frase cit. a p. 254 sulla dimensione della battaglia combattuta tra le vie di Roma è di Maire Vigueur, L’altra Roma, cit., p. 42.

Per l’enciclica di Enrico VII ai sovrani e la risposta di Filippo IV si veda Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 289-290, 303.

Il banchetto successivo all’incoronazione è descritto da DAVIDSOHN, IV, pp. 656-657.

Per la diceria che Enrico VII fosse stato avvelenato e le accuse rivolte all’Ordine domenicano rimando a DAVIDSOHN, IV, pp. 750-752, e a Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 369-370. La notizia dell’avvelenamento non sembra del tutto infondata a Indizio, Un episodio della vita di Dante, cit., il quale, anzi, parla di «probabile avvelenamento», anche sulla scorta della moderna perizia medico-legale di Francesco Mari e Elisabetta Bertol, Veleni. Intrighi e delitti nei secoli, Firenze, Le Lettere, 2001, pp. 37-47.

Il significato di «suppe» e l’ipotesi che quel termine alluda a un avvelenamento sono proposti da Filippo Bognini, Per Purg., XXXIII, 1-51: Dante e Giovanni di Boemia, «Italianistica», XXXVII (2008), pp. 11-48, in part. pp. 33-44; Bognini identifica il «vaso» con Enrico VII, ma il contesto non lascia dubbi sul fatto che si tratti del «carro» della Chiesa.

La «Monarchia»

L’ipotesi che già verso la metà del 1312 Dante si trasferisca dalla Toscana a Verona, formulata da Giorgio Petrocchi (Itinerari danteschi, cit., pp. 98-101, e PETROCCHI, p. 154) e riproposta più di recente da Malato, Dante, cit., pp. 62-63 («In quel biennio 1312-’13 Dante ha soggiornato probabilmente a Verona, ospite di Cangrande della Scala»), non è sostenibile alla luce, fra l’altro, delle convincenti argomentazioni di CARPI, pp. 666-671, e INDIZIO¹, pp. 52-59. Risulta più verosimile che, almeno fino alla morte di Enrico e poco dopo, Dante «non abbia voluto allontanarsi dal raggio d’azione di Arrigo VII e dalla Toscana» (CARPI, p. 669) e che abbia trascorso il biennio 1312-1313 a Pisa (Padoan, Tra Dante e Mussato, cit., p. 32). Indizio, Un episodio della vita di Dante, cit., limita questo soggiorno al primo semestre del 1312.

I passi dell’Historia augusta (V I) nei quali il Mussato parla di Niccolò da Prato come principale riferimento dei Ghibellini sono riportati da Billanovich, La tradizione del testo di Livio, cit., p. 46. L’ipotesi che Dante, forse grazie alla mediazione di Niccolò da Prato, possa aver collaborato, per così dire, da esterno con la cancelleria imperiale è avanzata da Padoan, Tra Dante e Mussato, cit., pp. 38-45.

Per l’assenza di Dante all’assedio di Firenze si veda BRUNI, p. 547; l’assenza è confermata dalla circostanza che il suo nome non compare nella lista di coloro che si erano schierati con l’imperatore tra il settembre 1312 e il marzo 1313 (Lista compilata dai Capitani di Parte guelfa nel marzo 1313 dei nomi di coloro che fra il settembre 1312 e il marzo 1313 si erano schierati con Arrigo VII di Lussemburgo, in Il libro del Chiodo, cit., pp. 319-334).

Datare le opere di Dante può essere disperante, e anche la Monarchia non fa eccezione, tanto più che si tratta di un libro privo di espliciti riferimenti autobiografici. Delle due principali ipotesi cronologiche a confronto, l’una la vuole composta intorno al 1317-1318 a sostegno dei diritti del vicario imperiale Cangrande della Scala nella disputa che in quegli anni dovette sostenere con il successore di Clemente V, Giovanni XXII; l’altra l’assegna al periodo della discesa in Italia di Enrico VII. Tuttavia, mentre la tesi che sia stata scritta per il protettore scaligero non trova nel testo alcun elemento che alluda in maniera diretta o indiretta a quella contesa, la tesi che la colloca fra l’incoronazione milanese di Enrico (gennaio 1311) e la sua morte (agosto 1313) può avvalersi di numerosi indizi, interni ed esterni, a cominciare dalla testimonianza di BOCCACCIO¹, 195, il quale afferma con sicurezza che «nella venuta d’Arrigo VII imperatore [Dante] fece uno libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia». Per una rassegna delle diverse ipotesi di datazione della Monarchia si può ricorrere alla voce omonima dell’ED di Pier Giorgio Ricci. Nuovi convincenti argomenti a favore della datazione del trattato negli anni di Enrico VII hanno prodotto di recente Casadei, «Sicut in Paradiso Comedie iam dixi», cit., pp. 179-197, e Diego Quaglioni nel commento alla Monarchia in corso di pubblicazione in Dante Alighieri, Opere, vol. II. A loro rimando per l’analisi delle questioni specifiche; sottolineo solamente che entrambi concordano nel considerare non dantesco l’inciso di Mn I 12 6: «Sicut in Paradiso Comedie iam dixi», inciso che, rinviando a Pd V 19-22, porterebbe a un periodo posteriore al 1314. Per Quaglioni si tratterebbe di una corruttela, della quale è possibile ricostruire la genesi, di una frase di Dante (da cui il «iam dixi») che rimandava a ciò che il testo diceva poco sopra (Diego Quaglioni, Un nuovo testimone per l’edizione della «Monarchia» di Dante: il Ms. Additional 6891 della British Library, «Laboratoire italien», 11 [2011], pp. 231-278).

«Verità mai da altri tentate»

La frase su Dante che si emancipa dai cliché della tradizione è di GIUNTA, p. 44. Sul carattere costantemente innovativo delle scritture dantesche si veda SANTAGATA, pp. 98-104.

La frase di p. 259 relativa alla varietà delle fonti della Monarchia è di Diego Quaglioni (introduzione al commento, cit., in corso di pubblicazione).

A proposito del passo di Mn II 1-5 contro i re della terra e i principi che congiurarono con l’Unto del Signore vanno tenute presenti le osservazioni di Casadei, «Sicut in Paradiso Comedie iam dixi», cit., pp. 182-187, il quale sostiene, attraverso riscontri soprattutto con l’Ep VI ai fiorentini, che «non occorre pensare all’opposizione [a Enrico] successiva alla sua incoronazione il 29 giugno 1312», ma piuttosto a quella sviluppatasi fra il 1311 e il 1312.

Per i complessi problemi relativi ai rapporti che il trattato dantesco sembra avere con le Constitutiones pisanae e con le decretali clementine (la cui datazione è assai controversa) rimando alla citata introduzione in corso di stampa di Diego Quaglioni, secondo il quale la Monarchia, che «sembra riflettere appunto la radicalizzazione ulteriore del conflitto, verosimilmente prima della morte dell’imperatore», sarebbe «portata a compimento intorno» al periodo dell’emanazione delle costituzioni pisane, «forse intorno alla loro elaborazione e pubblicazione». Anche per DAVIDSOHN, IV, pp. 740-745, il trattato «deve la sua origine» alle discussioni che animano la Penisola nei mesi in cui si profila lo scontro finale tra Enrico VII e il sovrano angioino; lo storico ne fissa la composizione nell’«estate 1313, forse il luglio di quell’anno». Di diverso avviso è Casadei, «Sicut in Paradiso Comedie iam dixi», cit., p. 190, il quale ritiene che il trattato possa essere datato «solo in un periodo che vedeva nel pieno delle loro funzioni Arrigo e Clemente, ancora non contrapposti nei fatti, come avverrà poco dopo l’incoronazione romana del giugno 1312». Per i rapporti con l’attualità politica si veda anche Cristaldi, Dante di fronte al gioachimismo, I. Dalla «Vita Nova» alla «Monarchia», cit., pp. 400-410, che fissa il termine post quem di composizione al luglio-agosto 1312, ma fa slittare quello ad quem al 1314-1316.

Quando tra il successore di Clemente V, Giovanni XXII, e quello di Enrico VII, Ludovico di Wittelsbach detto il Bavaro, si arriverà a uno scontro di una asprezza molto maggiore di quello che aveva diviso i loro predecessori (si giungerà perfino a eleggere un antipapa), il Bavaro e i «suoi seguaci» «cominciarono ad usare» a loro vantaggio «molti degli argomenti» proposti da Dante nella Monarchia, e ciò fece sì che nascesse una pubblicistica di parte ecclesiastica mirata a confutarne le tesi. Il libro dantesco fu coinvolto nella diatriba al punto che, nel 1329, il legato papale cardinale Bertrando del Poggetto, a Bologna, ordinò che fosse messo al rogo. In quel frangente le ossa di Dante, accusato di eresia, rischiarono di essere dissepolte e arse, come era capitato tanti anni prima a quelle di Farinata degli Uberti. A Bologna, epicentro dello scontro, tra il 1327 e il 1334 il frate domenicano Guido Vernani scrisse, probabilmente prima del 1329, una Reprobatio Monarchiae: si vedano al riguardo Michele Maccarrone, Dante e i teologi del XIV-XV secolo, «Studi Romani», 5 (1957), pp. 20-28, e Casadei, «Sicut in Paradiso Comedie iam dixi», cit., p. 193. Il racconto della fortuna «ghibellina» della Monarchia e del processo intentato da Bertrando del Poggetto (sul cui operato informa la voce dell’ED di Beniamino Pagnin) si legge in BOCCACCIO¹, 195-197. La notizia che Dante, a causa della Monarchia, fu «quasi» condannato come eretico è confermata dal giurista Bartolo da Sassoferrato (per il quale si veda la voce del DBI di Francesco Calasso).

DAVIDSOHN, IV, p. 743, scrive: «gli avvenimenti, subito dopo che il lavoro fu scritto, rendevano il contenuto [della Monarchia] per il momento praticamente inutile, mentre, al tempo di Ludovico il Bavaro, toccava di nuovo scottanti questioni d’attualità».

Per diritto ereditario

Sulla rivalutazione dantesca della nobiltà di sangue è fondamentale CARPI (non a caso il libro è intitolato: La nobiltà di Dante).

Di Enea, Dante scrive (Mn II III 7): «Quanta sia stata la nobiltà di questo padre invittissimo e piissimo, considerata non solo la sua virtù, ma anche quella dei suoi progenitori e delle mogli, la nobiltà dei quali e delle quali confluì in lui per diritto ereditario, non saprei compiutamente spiegare» (Qui quidem invictissimus atque piissimus pater quante nobilitatis vir fuerit, non solum sua considerata virtute sed progenitorum suorum atque uxorum, quorum utrorunque nobilitas hereditario iure in ipsum confluxit, explicare nequirem).

V. Il profeta (1314-1315)

La consapevolezza di una missione

La canzone Da poi che la Natura ha fine posto di Cino da Pistoia si legge in Poeti del Duecento, cit., vol. II, pp. 678-679.

Sull’epistola ai cardinali si vedano: Arsenio Frugoni, Dante tra due Conclavi - La lettera ai Cardinali italiani, «Letture classensi», 2 (1969), pp. 69-91; Ovidio Capitani, Una questione non ancora chiusa: il paragrafo 10 (Ed. Toynbee) della lettera ai Cardinali italiani di Dante, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di Lettere e Filosofia, s. III, III (1973), pp. 471-485; Raffaello Morghen, La lettera di Dante ai Cardinali italiani e la coscienza della sua missione religiosa, in Id., Dante profeta tra la storia e l’eterno, Milano, Jaca Book, 1983, pp. 109-138.

Che l’epistola sia pervenuta ai destinatari è suggerito dal fatto che essa «dovette conservarsi tra i curiali pontifici, da Avignone a Roma: se presto la riecheggiarono il Petrarca e Cola di Rienzo» (Billanovich, La tradizione del testo di Livio, cit., p. 46); cfr. anche Morghen, La lettera di Dante ai Cardinali italiani, cit., pp. 111-112.

Il racconto dell’irruzione nel conclave dei Guasconi, che gridavano «Moriantur Cardinales italici; volumus Papam, volumus Papam», è fatto dagli stessi cardinali in una lettera enciclica mandata alle abbazie cistercensi: cfr. Mazzoni, Le epistole di Dante, cit., p. 82.

Per Giovanni XXII si veda la voce dell’EP di Christian Trottmann.

Una situazione politica intricata

Su Giovanni di Lussemburgo si vedano: Bognini, Per Purg., XXXIII, 1-51, cit., pp. 11-48 (e relativi rimandi bibliografici), e Cognasso, Arrigo VII, cit., pp. 373-374. Nell’Ep VII 5 Dante scrive: «Giovanni, tuo regio primogenito e re, che i discendenti prossimi attendono dopo il tramonto del giorno che ora sorge [cioè dopo la morte del padre], è per noi un secondo Ascanio [figlio di Enea], che, seguendo l’esempio del grande genitore, ovunque, come un leone, infierirà contro i Turni [i Rutuli] e, come un agnello, sarà mite verso i Latini» (Iohannes namque, regius primogenitus tuus et rex, quem, post diei orientis occasum, mundi successiva posteritas prestolatur, nobis est alter Ascanius, qui vestigia magni genitoris observans, in Turnos ubique sicut leo deseviet et in Latinos velut agnus mitescet).

Sui possibili rapporti di Federico III d’Aragona e Dante si veda la voce dell’ED di Raul Manselli. In Pd XIX 130-131 le anime beate, disposte a formare l’immagine di un’aquila, collocano Federico d’Aragona tra i cattivi principi cristiani; «Vedrassi l’avarizia e la viltate / di quei che guarda l’isola del foco [la Sicilia]»; in Pd XX 62-63 l’Italia meridionale, che piange sotto il regno di Carlo II d’Angiò e di Federico d’Aragona, ricorda con nostalgia il buon re Guglielmo II d’Altavilla: «Guglielmo fu, cui quella terra plora / che piagne Carlo e Federigo vivo». Per quanto riguarda i mutamenti dei giudizi su Federico pronunciati da Dante nel corso degli anni si leggano CARPI, pp. 444-446, e TAVONI, pp. 1271-1272.

Un fervido utopista

A proposito del profetismo dell’epistola ai cardinali italiani Morghen, La lettera di Dante ai Cardinali italiani, cit., p. 152, osserva: «V’è un documento che, a mio giudizio, convalida l’opinione che, in un certo momento, Dante ebbe la coscienza di aver quasi avuto dall’alto l’autorità di parlare ai grandi della terra e a tutto il popolo cristiano col tono ammonitore del profeta: è l’epistola ch’egli diresse ai cardinali riuniti per il conclave di Carpentras». Insiste sul profetismo dell’epistola anche Frugoni, Dante tra due Conclavi, cit., pp. 80, 84.

Beatrice investe Dante della missione profetica in Pg XXXII 103-105 e XXXIII 52-54; Cacciaguida in Pd XVII 124-29; san Pietro, infine, in Pd XXVII 61-66.

La frase sui segni oggettivi che Dante deve fornire del suo carisma profetico citata a p. 271 è di Gorni, Lettera, nome, numero, cit., p. 111; di segni oggettivi, però, Gorni ne individua uno solo: nel libro di Daniele (12,11-12) si legge: «Dal tempo in cui fu soppresso il sacrificio quotidiano per erigere l’abominio devastatore: milleduecentonovanta giorni. Beato chi aspetta e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni» (Et a tempore cum ablatum fuerit iuge sacrificium, et posita fuerit abominatio in desolationem, dies mille ducenti nonaginta. Beatus qui expectat et pervenit ad dies mille trecentos triginta quinque); ebbene, traslati i «giorni» in «anni», si ottengono due date, 1290 e 1335, che, se riferite alla vita di Dante, risulterebbero molto significative: la prima, infatti, è quella della morte di Beatrice; la seconda, tenendo conto che per Dante il mezzo della vita cade a trentacinque anni, rappresenterebbe l’anno in cui egli, nato nel 1265, potrebbe morire «beato» come Daniele. Insomma, «Dante, che si sentiva eletto da Dio nel 1300, si concepiva beato nel 1335» (p. 127). Non sono del tutto persuaso dell’esistenza di questa relazione (anche se la «suggestiva scoperta» di Gorni è accolta da Malato, Dante, cit., pp. 381-384); in ogni caso, quella coincidenza di cifre, se poteva non risultare nascosta all’intelligenza di Dante (che però del rapporto tra le due date non fa cenno), difficilmente poteva essere il segno oggettivo che lui doveva dare al suo tempo.

Per il significato della rottura del battezzatoio in If XIX è d’obbligo il rimando a Tavoni, Effrazione battesimale, cit.

Dice Niccolò III di Clemente V: «Nuovo Iasón sarà, di cui si legge / ne’ Maccabei; e come a quel fu molle / suo re, così fia lui chi Francia regge» (If XIX 85-87).

Solo pochi studiosi sostengono la tesi che il canto XIX nella sua interezza possa risalire al 1314 (per esempio, Gianluigi Berardi, Dante, «Inferno» XIX, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, vol. II, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 97-103). Saverio Bellomo (Le muse dell’indignazione: il canto dei simoniaci [Inferno XIX], «L’Alighieri», 37 [2011], pp. 111-131), il quale giustamente insiste sui rapporti tra il canto e l’epistola ai cardinali, oscilla tra l’idea che non solo l’episodio dei papi confitti nei fori, ma «probabilmente l’intero canto, in quanto la figura di Clemente V aleggia anche nell’invettiva finale», siano stati scritti dopo l’aprile 1314, e l’ipotesi che sia la profezia sulla morte di Clemente sia il canto «quasi per intero» siano «frutto di una revisione dell’ultimo momento, a cantica completata e non ancora pubblicata». Assume una posizione di compromesso Indizio, La profezia di Niccolò e i tempi della stesura del canto XIX dell’«Inferno», cit., pp. 73-97, che ipotizza una composizione del canto all’indomani del concilio di Vienne (1312) e l’inserimento dei versi relativi a papa Clemente nella primavera del 1314. Diversa invece è la ricostruzione di CASADEI, pp. 138-141: a suo parere, il ritocco al canto è stato effettuato prima della morte di Clemente V, tra la seconda metà del 1312 e l’agosto 1313 (nell’imminenza della pubblicazione dell’Inferno, che Casadei colloca prima dell’agosto 1313, prima cioè della morte di Enrico VII). Quella della morte di Clemente sarebbe dunque una «profezia ante eventum», resa possibile dalle «pessime condizioni di salute del pontefice, che si erano di molto aggravate a partire dall’aprile del 1312».

Il «Purgatorio» e la vacanza dell’impero

Sulla cronologia dei canti purgatoriali la bibliografia è imponente e dispersa: un attendibile quadro d’insieme, però, si può ottenere incrociando le osservazioni di Parodi, La data della composizione e le teorie politiche dell’«Inferno» e del «Purgatorio», cit., con quelle di CASADEI.

Per una convincente lettura politica di Pg VI rinvio a Carpi, Il canto VI del «Purgatorio», cit.

Dell’apostrofe all’Italia si rileggano i versi: «e ora in te non stanno sanza guerra / li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro e una fossa serra. / Cerca, misera, intorno da le prode / le tue marine, e poi ti guarda in seno, / s’alcuna parte in te di pace gode … Vieni [Alberto tedesco] a veder Montecchi e Cappelletti, / Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: / color già tristi, e questi con sospetti! / Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura / d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; / e vedrai Santafior com’è oscura! / Vieni a veder la tua Roma che piagne / vedova e sola, e dì e notte chiama: “Cesare mio, perché non m’accompagne?”» (Pg VI 82-114). Guido del Duca dipinge in termini bestiali gli abitanti della valle dell’Arno in Pg XIV 40-54; Marco Lombardo tratteggia la situazione della Lombardia in Pg XVI 115-120.

Nella valletta dei principi (Pg VII) Sordello nomina, nell’ordine, Rodolfo d’Asburgo, Ottocaro di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III d’Aragona e Sicilia, Carlo I d’Angiò, Alfonso III d’Aragona, Enrico III d’Inghilterra, Guglielmo VII di Monferrato (solo di Pietro d’Aragona dice che «d’ogne valor portò cinta la corda», v. 114). A un padre inadeguato, con le eccezioni di Enrico d’Inghilterra e Alfonso d’Aragona, succede un figlio ancor più inadeguato: Ottocaro genera Venceslao, «cui lussuria e ozio pasce» (v. 102); Filippo III e il consuocero Enrico di Navarra generano il «mal di Francia» (v. 109), cioè Filippo il Bello; il figlio di Carlo I d’Angiò, Carlo II, è tale che «Puglia e Proenza già si dole» (v. 126); quelli di Pietro d’Aragona, Giacomo e Federico, hanno sì ereditato i reami, ma «del retaggio miglior nessun possiede» (v. 120); infine Giovanni di Monferrato, figlio di Guglielmo, proprio a causa del padre ha scatenato una guerra sanguinosa che «fa pianger Monferrato e Canavese» (v. 136).

Dei tre Carli e del «novo Pilato» (Filippo), che non sazio di ciò che ha fatto ad Anagni, egli vede «sanza decreto / portar nel Tempio le cupide vele», Ugo Capeto o Ciappetta parla in Pg XX 67-93.

Per Fulcieri da Calboli cfr. Pg XIV 58-66; per Sapia, Pg XIII 109-123; per gli Aldobrandeschi si veda l’autoritratto tratteggiato da Omberto in Pg XI 58-72; per i Fieschi, conti di Lavagna, l’accenno alla loro malvagità fatto da Adriano V in Pg XIX 143-144; per gli Scaligeri, infine, si rileggano le parole dell’abate di San Zeno (Pg XVIII 118-126).

I canti di Forese (Pg XXIII-XXIV) sono i soli del Purgatorio nei quali Firenze abbia un ruolo centrale; il fatto che, rispetto all’Inferno, la città passi in secondo piano si spiega considerando che la situazione, dopo il fallimento dei Bianchi e quello personale di Dante, era così bloccata che non poteva dare adito a nessun altro discorso che non ruotasse intorno al trauma della guerra civile e dell’esilio.

Per Bonagiunta, Guinizelli e Arnaut Daniel si vedano Pg XXIV e XXVI.

La profezia di Beatrice

Un’ampia analisi dei canti dell’Eden, del significato della profezia di Beatrice e una proposta di datazione in SANTAGATA, pp. 234-287. Per le allegorie edeniche sono importanti le osservazioni di Lino Pertile, La puttana e il gigante. Dal «Cantico dei Cantici» al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna, Longo Editore, 1998.

In If I 101-111 Virgilio aveva preconizzato che un «veltro» avrebbe ucciso l’«avarizia», l’avidità, ricacciandola all’Inferno da cui proveniva: «Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapïenza, amore e virtute, / e sua nazion sarà tra feltro e feltro».

Le numerose ipotesi di identificazione del «cinquecento diece e cinque» che si sono susseguite dai primi commenti agli anni Settanta del Novecento sono passate in rassegna nella voce dell’ED Cinquecento diece e cinque di Pietro Mazzamuto; quelle successive alla pubblicazione dell’Enciclopedia, da Bognini, Per Purg., XXXIII, 1-51, cit., pp. 12-18.

La tesi che il «messo di Dio» sia Enrico e che Dante abbia scritto gli ultimi canti del Purgatorio e poi pubblicato le prime due cantiche in un periodo compreso tra l’incoronazione del 1312 e la morte dell’imperatore nell’agosto 1313 è sostenuta con grande coerenza anche da CASADEI (a p. 278 cito una sua frase da p. 140).

PASQUINI, pp. 165-166, il quale ritiene che il canto XXXII del Purgatorio sia stato composto «non più tardi del 1314» e che l’epistola ai cardinali segua «a breve distanza», nota acutamente che l’originalità dei tratti con i quali Dante descrive la decadenza della Chiesa avignonese fa passare «in secondo piano la stessa profezia del “Cinquecento diece e cinque” (il Dux)».

L’identificazione del «cinquecento diece e cinque» con Giovanni di Boemia e la conseguente decrittazione dell’enigma si devono a Bognini, Per Purg., XXXIII, 1-51, cit., del quale, però, non si può accettare l’identificazione della «puttana sciolta» con Firenze e del gigante suo drudo con Roberto d’Angiò: Firenze e il re di Napoli, infatti, romperebbero in maniera incongrua la coerenza del quadro allegorico che rappresenta la progressiva degradazione della Chiesa nella storia (di Bognini si vedano anche: Gli occhi di Ooliba. Una proposta per Purg., XXXII 148-60 e XXXIII 44-45, RSD, VII [2007], pp. 73-103; Id., Dante tra solitudine e protezione [Pg XXXII 148-160 e XXXIII 1-5], in Novella fronda. Studi Danteschi, a c. di Francesco Spera, Napoli, D’Auria Editore, 2008, pp. 177-197). Era stato Gorni, Lettera, nome, numero, cit., p. 121, a segnalare che «il sintagma “messo di Dio” è un calco dal prologo del Vangelo di Giovanni, “Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Iohannes”». Il cifrario è contenuto, sotto il titolo Formate epistole, nell’Elementarium di Papia (risalente alla metà dell’XI secolo): cfr. Bognini, Per Purg., XXXIII, 1-51, cit., pp. 30-33.

Per la «puttana sciolta» si veda Ap 17,1-5; la frase citata a p. 280 è di Anna Maria Chiavacci Leonardi (Dante Alighieri, Commedia, vol. II, Purgatorio, Milano, Mondadori, 1994, p. 954). Secondo CASADEI, p. 135, nella scena dell’adescamento della puttana «Dante funge da esponente di coloro che hanno creduto alla buona fede di Clemente V e dunque … hanno sostenuto l’alleanza dell’Imperatore con la Chiesa: salvo poi essere smentiti dai fatti nel periodo dell’incoronazione romana di Arrigo. Il tentativo di adescamento, quindi, corrisponde alla fase di possibile alleanza tra Clemente e Arrigo, seguita da un ulteriore definitivo allontanamento del Papa dal contesto italiano perché di nuovo succube della volontà di Filippo».

La ricostruzione della scena allegorica in riferimento alle vicende del conclave di Carpentras si deve ad Antonio Alessandro Bisceglia, Due nuove proposte esegetiche per «Purgatorio» XXXII, «Studi e problemi di critica testuale», 77 (2008), pp. 115-124. Va rilevato che non mancano consonanze fra l’epistola dantesca e quella che i cardinali italiani mandarono nel settembre 1314 alle abbazie cistercensi e nella quale parlano della loro cacciata: le consonanze sono indicate da Mazzoni, Le epistole di Dante, cit., pp. 82-83. Si aggiunga che la lettera di Napoleone Orsini a Filippo il Bello scritta quando i cardinali italiani vennero messi in minoranza a Carpentras contiene «accenti e giudizi storici per molti versi complementari a quelli della lettera dantesca indirizzata ai cardinali italiani (cioè, proprio e innanzi tutto, al medesimo Napoleone Orsini)» (CARPI, pp. 628-629).

Ogni dubbio sulla posteriorità della profezia rispetto alla morte di Enrico VII sarebbe fugato se si accettasse l’interpretazione del v. 36 «che vendetta di Dio non teme suppe» come una allusione all’avvelenamento dell’imperatore.

CASADEI, p. 140, fa notare che se le due prime cantiche non fossero state portate a compimento e diffuse prima della morte di Enrico, «arriveremmo al singolare paradosso di un Dante “reale” fautore toto corde della causa di Arrigo che non scrive mai di lui (a parte il riferimento fugace di Par. XVII, 82) prima dell’esaltazione abbondantemente postuma di Par. XXX, 133 ss.».

Le traversie di un vescovo

Per quanto riguarda gli spostamenti di Dante dopo la morte di Enrico VII (a parte l’insostenibile ipotesi di PETROCCHI, p. 154, che si sia trasferito a Verona già nel 1312) si legga, a titolo di esempio, CARPI, pp. 670-671: «Morto Arrigo, è molto probabile che verso la Verona di Cangrande, il più potente fra i tiranni del Nord divenuti imperiali, Dante si sia mosso, se non subito, assai presto».

Ad attestare la presenza di Dante a Forlì nel marzo 1314 sarebbe una breve lettera in volgare pubblicata nel 1547 da Anton Francesco Doni in un volume da lui stampato di Prose antiche di Dante, Petrarcha, et Boccaccio. Il 30 marzo 1314 Dante l’avrebbe inviata a Guido Novello da Polenta durante il viaggio di ritorno a Ravenna da Venezia, dove si sarebbe recato a portare l’omaggio del signore ravennate al doge da poco eletto. Il contenuto della missiva è uno sfogo di Dante nei confronti della classe dirigente veneziana, la quale, a suo dire, non solo non conosce il latino, ma anche dell’italiano ha una conoscenza alquanto approssimativa. La lettera è sempre stata creduta un falso del Doni fino a quando Rosetta Migliorini Fissi, nel procurarne l’edizione critica (La lettera pseudo-dantesca a Guido da Polenta. Edizione critica e ricerche attributive, SD, XLVI [1969], pp. 103-272), ha mostrato che il Doni ne era stato solo l’editore. Che l’autore della lettera (la quale, scritta originariamente in latino, sarebbe poi stata tradotta da ignoto) sia Dante è stato sostenuto solamente da PADOAN, pp. 57-91, seguito, con troppa fiducia, da INDIZIO¹, pp. 54-57 (e, dubitativamente, da Malato, Dante, cit., pp. 62-63). I loro tentativi di sanare le palesi incongruenze storiche contenute nel testo urtano contro l’estrema inverosimiglianza che Dante si prendesse la briga di mandare un messo a Ravenna solamente per consegnare un suo sfogo privo di vere notizie e, soprattutto, che un ambasciatore rilasciasse, in un’epistola destinata a esser protocollata presso la cancelleria, giudizi così pesantemente ingiuriosi nei confronti di uno Stato con il quale Ravenna doveva fare conti difficili e delicati. Ma soprattutto urtano contro il fatto che il falsario, come già aveva rilevato e documentato Migliorini Fissi, presenta un ben definito profilo e che risulta evidente lo scopo della falsificazione: si tratta di un fiorentino che scrive o nei primi decenni del Cinquecento o, meno probabilmente, negli anni Quaranta di quel secolo, prendendo spunto dal racconto di Filippo Villani di una ambasceria a Venezia per conto dei Polentani nella quale a Dante sarebbe stato impedito di parlare. A questo periodo rimandano sia la polemica politico-civile antiveneziana, propria degli ambienti medicei antirepubblicani, sia le osservazioni di tipo linguistico, inquadrabili all’interno delle accese discussioni, imperniate su Dante, che nei primi decenni del secolo impegnavano molti intellettuali fiorentini.

Emilio Pasquini (Vita di Dante, cit., p. 83) scrive che dopo la condanna a morte del 1315 i figli maschi di Dante «forse vissero già con lui presso Uguccione», con ciò avallando l’idea che Dante si trovasse ancora a Pisa e che Uguccione fosse il suo protettore; già Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, cit., p. 61, aveva scritto: «noi pensiamo che quando si svolse la guerra che si chiuse con la sconfitta dei guelfi a Montecatini, Dante fosse in Toscana».

Per Niccolò Donati si vedano la voce dell’ED di Renato Piattoli e BARBI², p. 328. A partire dal 1315, anche Gemma potrebbe essere stata di aiuto dopo aver ereditato dalla madre Maria, della quale ignoriamo la data di morte, ma che risulta aver fatto testamento tra febbraio e maggio 1315 (il testamento è pubblicato in PIATTOLI, n. 113).

L’eccezione del vescovo di Luni, secondo Frugoni (Dante tra due Conclavi, cit., p. 83), «sorprende» per il «brusco cambiamento di tono».

Sulle vicende del vescovato di Luni e sulle figure di Guglielmo e Gherardino Malaspina porta nuovi dati Vecchi, «Ad pacem et veram et perpetuam concordiam devenerunt», cit. Frate Guglielmo Malaspina è stato a volte erroneamente identificato con Bernabò Malaspina del Terziere, vescovo a Sarzana negli anni Venti e Trenta del Trecento (cfr. Eliana M. Vecchi, Per la biografia del vescovo Bernabò Malaspina del Terziere [† 1338], cit., pp. 109-141). Per le vicende di Gherardino successive all’invasione di Lucca da parte di Uguccione della Faggiola si veda anche DAVIDSOHN, IV, pp. 816-817 (sua la citazione a p. 283); per il ruolo di Castruccio la voce del DBI Castracani degli Antelminelli, Castruccio di Michele Luzzati. Su Spinetta Malaspina informa la voce del DBI Malaspina, Spinetta (Spinetta il Grande di Fosdinovo) di Franca Ragone.

Nella chiesa francescana di Genova era stato sepolto, nel 1310, Niccolò Fieschi, padre di Alagia, e nel 1340 vi sarà tumulato un figlio di Alagia e Moroello di nome Luchino. Si presti attenzione anche al fatto che in prossimità di quella chiesa sorgeva l’abitazione della sorella di Moroello, Manfredina, la quale, dopo il primo matrimonio con il Gherardesca, aveva sposato il genovese Alaone Grimaldi (e sono attestati lunghi soggiorni di Alagia, dopo la vedovanza, presso la casa della cognata). Rimando ancora a Vecchi, «Ad pacem et veram et perpetuam concordiam devenerunt», cit., pp. 145-148, per il sistema viario in cui era inserito il monastero di Santa Croce al Corvo. Per il significato dell’espressione «ad partes ultramontanas» rinvio a Casadei, Considerazioni sull’epistola di Ilaro, cit., pp. 15-18.

La seconda sentenza di morte

Le vicende dei ribandimenti del 1315-1316 e dell’amnistia dell’autunno del 1315 sono ricostruite da Michele Barbi (in dialogo con ZINGARELLI) in Una nuova opera sintetica su Dante (1904), poi in BARBI¹, pp. 29-85, in part. pp. 51-56.

«Per identificare il corrispondente [dell’Ep XII] importa fissare la lezione: “Per litteras vestri meique nepotis” [“Dalle lettere del vostro e mio nipote”], come legge il manoscritto unico, o “Per litteras vestras meique nepotis necnon aliorum quamplurium amicorum’’ [“Dalle lettere vostre e di mio nipote e di parecchi altri amici”], come pensano i dantisti, segnatamente Pistelli, editore critrico del testo, e Barbi? … non c’è alcuna certezza in proposito. Sicché è meglio distinguere ecclesiastico e nipote» (GORNI, p. 225). Una diversa soluzione, però, propone Piattoli (Codice Diplomatico Dantesco. Aggiunte, cit., pp. 3-108; pp. 75-108) correggendo, sulla scorta di nuovi documenti, le tesi di Michele Barbi (Per un passo dell’epistola all’amico fiorentino e per la parentela di Dante [1920], poi in BARBI², pp. 305-328), e cioè di intendere il destinatario come un religioso che è anche nipote di Dante. Si aprirebbe così la possibilità di identificarlo, come fa il Piattoli, con quel Bernardo Riccomanni, figlio di Lapo e di Tana, che abbiamo ipotizzato aver cooperato a nascondere, quando era un giovane frate in Santa Croce o in altro convento francescano limitrofo, i beni di Dante che stava per essere bandito.

Come gli altri, anche il Ciolo nominato da Dante (che si tende a identificare con un Ciolo degli Abati) era sicuramente un delinquente comune: si veda la voce dell’ED Ciolo.

Le sentenze dell’ottobre e del novembre 1315 si leggono in PIATTOLI, nn. 114, 115.

VI. Uomo di corte (1316-1321)

Al di là dell’Appennino

Le ultime parole dell’epistola all’Amico Fiorentino sono: «Quippe nec panis deficiet» (Ep XII 4).

Che Dante non conoscesse Cangrande di persona lo si evince anche dall’inizio dell’Ep XIII, là dove egli dice di essersi recato a Verona per verificare la fondatezza della fama che circondava il suo signore.

La data del 1316 per il trasferimento a Verona è indicata anche, al termine di un percorso biografico diverso da quello da me proposto, da INDIZIO¹ e da altri: per esempio, da GORNI, p. 184.

L’encomio necessario

Su Cangrande della Scala informa adeguatamente l’ampia e approfondita voce del DBI di Gian Maria Varanini, da incrociare con quella di Alboino, sempre di Varanini.

È sintomatico che alla creazione del mito scaligero non collabori Boccaccio, il quale esprime dubbi anche sulla dedica a Cangrande del Paradiso (BOCCACCIO¹, 193-194).

Sul Paradiso, di cui promette la dedica al destinatario, l’epistola a Cangrande recita (Ep XIII 3): «E non ho trovato nulla di più adatto alla vostra grandezza della sublime cantica della Commedia che si intitola Paradiso: che, offerta con questa lettera, come con un epigramma di dedica, vi attribuisco, offro, e anche raccomando» (Neque ipsi preheminentie vestre congruum comperi magis quam Comedie sublimem canticam que decoratur titulo Paradisi; et illam sub presenti epistola, tanquam sub epigrammate proprio dedicatam, vobis ascribo, vobis offero, vobis denique recommendo).

Per quanto riguarda la parte esegetica dell’epistola, e in particolare le perplessità che suscitano la definizione del genere «commedia» e la spiegazione del titolo del poema, si vedano: Mirko Tavoni, Il titolo della «Commedia» di Dante, NRLI, I (1998), pp. 9-34, in part. pp. 21-23, e Andrea Mazzucchi, «Tertia est satira, idest reprehesibilis, ut Oracius et Persius»: Cino da Pistoia, Pietro Alighieri e Gano di Lapo da Colle, in «Però convien ch’io canti per disdegno». La satira in versi tra Italia e Spagna dal Medioevo al Seicento, a c. di Antonio Gargano, con una introduzione di Giancarlo Alfano, Napoli, Liguori Editore, 2011, pp. 1-30. Per una diversa prospettiva si veda Claudia Villa, La protervia di Beatrice. Studi per la biblioteca di Dante, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2009, pp. 163-181.

La citazione a p. 290 è desunta da Alberto Casadei, Il titolo della «Commedia» e l’Epistola a Cangrande, «Allegoria», 60 (2009), pp. 167-181 (la cit. a p. 178), il quale ipotizza in modo assai persuasivo che a un nucleo dantesco, risalente al 1316 (che doveva contenere «la promessa di una dedica a Cangrande del Paradiso»), negli anni Quaranta del Trecento sia stata congiunta la seconda parte esegetica «forse nell’ambito delle numerose leggende create per (ri)costruire la trafila delle ultime opere del poeta»; di Casadei si legga anche Allegorie dantesche, in Atlante della letteratura italiana, a c. di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, vol. I, a c. di Amedeo De Vincentiis, Torino, Einaudi, 2010, pp. 199-205.

L’accenno alla povertà contenuto alla fine della lettera (Ep XIII 32): «mi incalza infatti l’angustia delle vicende familiari, cosicché sono obbligato a tralasciare questa e altre cose utili all’interesse pubblico» (urget enim me rei familiaris angustia, ut hec et alia utilia reipublice derelinquere oporteat), spurio o autentico che sia, non fa che rendere esplicita la situazione sottesa agli elogi dell’inizio.

Per le vicende degli abati di San Zeno e per come Cangrande può aver reagito al racconto che Dante ne fa nel Purgatorio si veda CARPI, pp. 667-668.

L’aneddoto petrarchesco si trovava già, per esempio, in Novellino XLIV, ma riferito a Marco Lombardo, il protagonista del canto XVI del Purgatorio. Billanovich (Tra Dante e Petrarca, cit., pp. 27-28) è convinto che Petrarca, con le frasi inserite in Rerum memorandarum libri II 83 («Dantes Allegherius, et ipse concivis nuper meus … exul patria cum apud Canem Magnum veronensem, comune tunc afflictorum solamen ac profugium, versatur, primo quidem in honore habitus deinde pedetentim retrocedere ceperat minusque in dies domino placere»), testimonii «veracemente … sul contubernio ingrato che a Dante toccò sopportare con Cangrande e con i suoi cortigiani».

Sarebbe interessante appurare se Dante, durante la sua seconda permanenza a Verona, avesse riallacciato i rapporti con il già citato Giovanni Mansionario, con il quale è ipotizzabile fosse entrato in relazione nel 1303-1304. Sull’isolamento del Dante veronese si vedano le osservazioni di Girolamo Arnaldi nella voce dell’ED Verona.

Sotto il segno di Marte

Le anime del cielo di Giove formano il primo versetto del Liber Sapientiae.

Sull’apostrofe a Giovanni XXII si veda CASADEI, pp. 123-125, il quale osserva che «l’incursione nel presente» costituita dall’uso del «tu» accompagnato dal presente indicativo («scrivi») «proprio per la sua eccezionalità nella compagine del poema non può non essere pensata per un effettivo obiettivo polemico immediato, e dà senso solo se la si immagina scritta a ridosso dell’episodio cui fa riferimento, e quindi per un appoggio diretto alla causa di Cangrande probabilmente nella prima metà del 1318». A p. 125 Casadei scrive che «Dante in pratica oblitera la storia posteriore al 1318». Sul tema cfr. anche SANTAGATA, pp. 334-335.

Le predizioni di Cunizza

Per il mutato atteggiamento di Dante nei confronti dei Guelfi e dei Ghibellini si vedano le osservazioni di CARPI, pp. 649-650.

La profezia di Cunizza è in Pd IX 46-60. Nei suoi ultimi anni, dopo una tumultuosa vita sentimentale caratterizzata da una rocambolesca storia d’amore con il trovatore Sordello, Cunizza si era ritirata a Firenze, dove era morta tra gli anni Settanta e Ottanta del Duecento. A Firenze, in almeno un’occasione, aveva soggiornato nella casa di Cavalcante dei Cavalcanti. Dante non frequentava allora i Cavalcanti e non avrà sicuramente avuto occasione di conoscere Cunizza, ma non è azzardato supporre che nel decennio successivo Guido o suo padre gli abbiano parlato di quella donna: si veda Valter Leonardo Puccetti, Fuga in «Paradiso». Storia intertestuale di Cunizza da Romano, Ravenna, Longo Editore, 2010.

Le frasi citate a p. 297 relative a Rizzardo da Camino e allo schieramento guelfo che si contrapponeva alla Verona ghibellina sono di CARPI, pp. 514-515. Anche per INDIZIO¹, p. 52, «il canto IX del Paradiso presuppone ineludibilmente la presenza a Verona e l’adesione alla causa scaligera».

La battaglia di Montecatini è descritta dallo stesso Uguccione in una lettera spedita il 2 settembre 1315 ai ghibellini genovesi Gherardo Spinola e Bernabò Doria: cfr. Monti, Uguccione della Faggiola, la battaglia di Montecatini e la «Commedia» di Dante, cit. (qui, alle pp. 146-147, si legge l’edizione critica dell’epistola).

Per quanto riguarda l’allocuzione a Clemenza e l’allusione alla battaglia di Montecatini, rimando a SANTAGATA, pp. 375-377 (avvertendo, però, che in quella sede ritenevo che il canto fosse stato scritto a Verona).

Una fama di negromante

Racconti dettagliati delle vicende legate al tentativo di maleficio dei Visconti ai danni di Giovanni XXII si trovano in DAVIDSOHN, IV, pp. 898-900, e, soprattutto, in Gerolamo Biscaro, Dante Alighieri e i sortilegi di Matteo e Galeazzo Visconti contro papa Giovanni XXII, «Archivio Storico Lombardo», XLVII (1920), pp. 446-481.

I commenti che certe donne di Verona avrebbero fatto al passaggio di Dante e la sua reazione compiaciuta sono riferiti da BOCCACCIO¹, 113.

La frase sulla lettura allegorica del poema citata a p. 300 è di Saverio Bellomo, La «Commedia» attraverso gli occhi dei primi lettori, in Leggere Dante, a c. di Lucia Battaglia Ricci, Ravenna, Longo Editore, 2003, pp. 73-84 (la cit. a p. 77).

Tra i meglio informati dell’affaire del maleficio contro il papa era il cardinale del Poggetto: fino a quando non aveva lasciato Avignone per iniziare la sua legazione in Lombardia era stato membro della commissione segreta incaricata dal papa delle indagini, e di sicuro era stato tenuto al corrente degli sviluppi anche dopo quella data. Non sarà anche a causa delle illazioni emerse a carico di Dante durante quell’inchiesta che, dopo la sua morte, il cardinale cercherà di condannarlo per eresia?

L’ultimo rifugio

Sulle possibili implicazioni cronologiche dell’episodio del tentato maleficio relativamente alla vita di Dante si veda INDIZIO¹, pp. 59-60.

Le affermazioni sulla durata del soggiorno ravennate sono in BOCCACCIO¹, 81, 84.

Per la data del trasferimento a Ravenna ricordo solo alcuni degli interventi più significativi: Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, cit., opta per il 1317; a favore del 1318 o, al più, dell’inizio del 1319 si esprimono Petrocchi, La vicenda biografica di Dante nel Veneto, cit., pp. 101-103; Alberto Casadei, Sulla prima diffusione della «Commedia», «Italianistica», XXXIX (2010), pp. 57-66, in part. p. 63; CASADEI, p. 125; pensa invece al 1319 o alla prima metà del 1320 Girolamo Biscaro, Dante a Ravenna, «Bullettino dell’Istituto storico italiano», n. 41, 1921, pp. 1-117; per i primi mesi del 1320 si schiera anche INDIZIO¹, pp. 57-64. La notizia, fornita dalla cronaca anonima Annales Caesenates, che nel biennio 1318-1319 in Romagna si fosse diffusa un’epidemia di peste, che avrebbe potuto sconsigliare a Dante di trasferirsi proprio in quel periodo (cfr. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, cit., pp. 60-61), va molto ridimensionata: probabilmente l’epidemia ci fu, ma circoscritta alla città di Cesena (si vedano Renzo Caravita, Rinaldo da Concorezzo arcivescovo di Ravenna (1303-1321) al tempo di Dante, Firenze, Olschki, 1964, pp. 180-185, e Petrocchi, La vicenda biografica di Dante nel Veneto, cit., p. 102).

La ricostruzione più accurata degli anni ravennati di Dante si deve a Caravita, Rinaldo da Concorezzo, cit., pp. 167-203.

La sentenza di condanna di Pietro è pubblicata in PIATTOLI, n. 126; la vicenda del beneficio è dettagliatamente ricostruita da Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, cit., pp. 46-55, e, soprattutto, da Biscaro, Dante a Ravenna, cit., pp. 40-51, ma si vedano anche Caravita, Rinaldo da Concorezzo, cit., pp. 173-177, e INDIZIO³, pp. 188-189.

La caduta di Lucifero

L’autenticità della Questio è stata sostenuta con grande vigore soprattutto da Francesco Mazzoni (del quale si vedano le pagine, che condensano i suoi interventi precedenti, poste come introduzione all’edizione della Questio in Dante Alighieri, Opere minori, vol. II) e da PADOAN, pp. 163-180 (sua anche la voce dell’ED dedicata al Moncetti). Altrettanto vigoroso è il dissenso espresso da Bruno Nardi, La caduta di Lucifero e l’autenticità della «Quaestio de aqua et terra» (1959), da ultimo in Id., «Lecturae» e altri studi, a c. di Rudy Abardo, con saggi introduttivi di Francesco Mazzoni e Aldo Vallone, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 227-265.

I caratteri eccentrici della Questio sono messi in luce da Stefano Caroti nell’introduzione al suo commento in corso di stampa in Dante Alighieri, Opere, vol. III.

A proposito dell’autografia, in Questio I 3 si legge: «E affinché l’invidia di molti … non muti dietro le spalle quanto fu ben detto, parve altresì opportuno consegnare in questa carta, scritta di mia mano, quanto da me determinato, e definire con la penna i termini di tutta la disputa» (Et ne livor multorum … post tergum bene dicta transmutent, placuit insuper in hac cedula meis digitis exarata quod determinatum fuit a me relinquere, et formam totius disputationis calamo designare).

Lucifero, il principe degli angeli ribelli, precipitò nell’emisfero australe, dove allora emergeva la terra, e questa, per il terrore che egli le fece, si ritirò emergendo nell’emisfero opposto e, sempre per evitare il contatto con quell’essere demoniaco, si ritrasse anche dal suo centro formando la montagna del Purgatorio (If XXXIV 121-126).

Il passo di Pietro Alighieri è leggibile in Pietro Alighieri, Comentum super poema Comedie Dantis. A Critical Edition of the Third and Final Draft of Pietro’s Alighieri’s Commentary on Dante’s «The Divine Comedy», ed. by Massimiliano Chiamenti, Tempe, Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, 2002, pp. 277-278. Sul problema della paternità della terza redazione del commento è d’obbligo rimandare a INDIZIO³: si noti, tuttavia, che Indizio crede di poter avvalorare la testimonianza, anche se non riferibile direttamente a Pietro, ipotizzando, sulla base della localizzazione veneta dell’unico testimone manoscritto che la contiene, che «la notizia possa risalire comunque a Pietro o ad altro testimone della Questio scaligera. La notizia, autentica, fu introdotta quindi nel testo come elemento di indubbio pregio» (p. 218); ma si leggano anche i dubbi sull’autorevolezza della testimonianza espressi da Enrico Malato, Per una nuova edizione commentata delle opere di Dante, RSD, IV (2004), pp. 88-89. Perplesso sulla possibilità che Dante da Ravenna sia ritornato a Verona per tenervi la lezione sul tema delle acque emerse è anche Casadei, Sulla prima diffusione della «Commedia», cit., p. 64.

Un «tiranno» letterato

I dati sulla popolazione di Ravenna in Caravita, Rinaldo da Concorezzo, cit., pp. 199-200.

Scrive Biscaro, Dante a Ravenna, cit., p. 55: «Aderendo all’invito o sollecitandolo, Dante era convinto che Guido non sarebbe mai per cedere alle ingiunzioni della curia perché avesse a consegnarlo mani e piedi agli sgherri dell’inquisitore».

Per quanto riguarda i possibili rapporti di Dante con famiglie signorili della Romagna, si noti che Benvenuto da Imola, a proposito dell’incontro con Pier da Medicina (If XXVIII 70-75), afferma che Dante fu ospite della corte (curia) dei «cattani», cioè signori, di Medicina, «villa grossa et pinguis inter Bononiam et Imolam».

È quasi sicuro che Dante aveva avuto occasione di conoscere Bernardino da Polenta, nipote di Guido il Vecchio e fratello di Francesca, dedito soprattutto al mestiere delle armi e per un certo tratto di tempo signore di Cervia e di Cesena. Benché guelfo per convinzione e tradizione familiare, come tutti i signorotti di Romagna aveva oscillato dall’uno all’altro partito a seconda delle convenienze. E così, dopo aver combattuto contro i Ghibellini romagnoli capitanati da Guido da Montefeltro ed essersi schierato con i fiorentini nella guerra antighibellino-aretina della seconda metà degli anni Ottanta, si era alleato con l’Ordelaffi e Aghinolfo di Romena nella campagna mugellana dei fuorusciti «bianchi» contro i Neri: e in quei mesi Dante molto probabilmente lo aveva conosciuto. E forse lo aveva incontrato nuovamente a Bologna, dove Bernardino, divenuto alleato dei Neri, nella sua veste di podestà aveva sedato il tumulto che nel maggio 1306 aveva messo in fuga Napoleone Orsini. Negli anni successivi aveva combattuto, in alleanza con i Guidi di Dovadola e di Battifolle, contro Enrico VII, ed era diventato podestà di Firenze nel primo semestre del 1313 (e lì, nell’aprile, era morto): molte notizie su di lui fornisce CARPI, passim. Il paragone tra il fruscio delle foglie della «divina foresta» dell’Eden e quello che «di ramo in ramo si raccoglie / per la pineta in su ’l lito di Chiassi, / quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie» (Pg XXVIII 19-21) sembra presupporre che Dante, già prima del 1314, si fosse inoltrato nella pineta ravennate di Classe. Mi chiedo se nel maggio 1303 Dante non avesse fatto parte della delegazione dell’Università dei fuorusciti che aveva trattato con Bernardino l’alleanza antifiorentina.

Le sei ballate attribuite a Guido Novello, più altre nove anonime, sono edite da Domenico De Robertis, Il Canzoniere escorialense e la tradizione «veneziana» delle rime dello Stil novo, GSLI, Supplemento n. 27, 1954, pp. 210-223, e ripubblicate da Eugenio Chiarini in appendice a Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, cit., pp. 514-521; quattro delle sei ballate certe sono ripubblicate, con commento, in Rimatori del Trecento, a c. di Giuseppe Corsi, Torino, UTET, 1969, pp. 33-39.

Le citazioni relative a Guido Novello a p. 306 sono prese da BOCCACCIO¹, 80.

L’importanza di ospitare un poeta

Sulla vicenda della cessione a Pietro dei diritti delle due chiese da parte delle cugine Malvicini si vedano le osservazioni di CARPI, pp. 579-580 (sua è la frase ironica di p. 306 sui benefici che Dante aveva ottenuto dall’estinzione della linea maschile dei conti di Bagnacavallo), e di Biscaro, Dante a Ravenna, cit., p. 52: «Un’antica relazione di Dante con i parenti della moglie di Guido ed il culto alle muse con discreto successo professato dal Polentano darebbero ragione dell’invito che questi, secondo quanto narra il Boccaccio, gli rivolse di aggradire la sua ospitalità, quando non fosse stato Dante medesimo a sollecitare in forma riguardosa l’invito col fargli presente le proprie angustie». Anche Francesco Filippini, Dante scolaro e maestro (Bologna, Parigi, Ravenna), Genève, Olschki, 1929, pp. 164-165, scrive che «l’antica relazione familiare con i Guidi da Romena è sufficiente per sé stessa a spiegare l’andata di Dante a Ravenna, molto più in unione col beneficio ecclesiastico concesso da Caterina e Idane a Pietro».

Un’esistenza tranquilla

Scrive Biscaro, Dante a Ravenna, cit., p. 53: «il conferimento della rettoria costituì l’adempimento di una condizione posta dal Poeta per la sua venuta presso il Polentano come garanzia che non gli sarebbero mancati i mezzi per vivere»; e ancora: «Il beneficio era stato conferito [a Pietro] perché il padre suo ne fruisse le rendite» (p. 65). Suggestiva, ma tutta da dimostrare, l’idea che Biscaro esprime con sicurezza: «Alla provvisione della rettoria per il figlio si coordina il collocamento della figlia Beatrice nel chiostro di S. Stefano dell’Oliva, che dovè seguire intorno alla stessa epoca, per intercessione di Guido Novello; collocamento gratuito, e cioè senza il conferimento della congrua dote che si soleva richiedere per il collocamento delle donzelle nei monasteri». Risulta per certo che una suor Beatrice, figlia di Dante, si trovava in quel monastero nel 1350 (quando forse ricevette la visita di Boccaccio). Nel 1371 Donato degli Albanzani (amico sia di Boccaccio sia di Petrarca) consegnò da parte di un donatore che voleva restare anonimo 3 ducati a quel monastero in quanto esso era erede di suor Beatrice del fu Dante Alighieri: si vedano la voce dell’ED Alighieri, Antonia (suor Beatrice) e Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, cit., pp. 236-238.

Sulla possibile presenza di Gemma a Ravenna si veda quanto scrive Giorgio Petrocchi, Biografia, nell’ED, Appendice, p. 50. Biscaro, Dante a Ravenna, cit., pp. 139-141, parla della casa di Dante a Ravenna. L’unica testimonianza al riguardo è quella di Boccaccio che accenna «alla casa nella quale era Dante prima [di morire] abitato» (BOCCACCIO¹, 88; BOCCACCIO², 63).

Gli accenni a Dante insegnante di retorica volgare sono in BOCCACCIO¹, 84, e in BOCCACCIO², 62. Sul presunto insegnamento di Dante si vedano Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, cit., pp. 64-74 (che pensa proprio a un insegnamento presso lo Studio), e Silvio Bernicoli, Maestri e scuole letterarie in Ravenna nel secolo XIV, «Felix Ravenna», 32 (1927), pp. 61-63, in part. pp. 61-62. Che Dante insegnasse «da pubblica cattedra» è sostenuto anche da Filippini, Dante scolaro e maestro, cit., pp. 51, 173-174; Barbi, Vita di Dante, cit., p. 31, non esclude la possibilità di un insegnamento pubblico. Il fatto che intorno a Dante si raccolgano solamente medici e notai, e manchino del tutto i legisti, è sottolineato da Augusto Campana, Guido Vacchetta e Giovanni del Virgilio (e Dante), «Rivista di cultura classica e medioevale», VII (1965), pp. 252-265.

La citazione relativa al Perini è presa da BOCCACCIO³, VIII I 13. La prima egloga di Dante racconta che Melibeo (Dino Perini) è ansioso di conoscere il contenuto dello scritto che Mopso (Giovanni del Virgilio) ha inviato a Titiro (Dante); questi, allora, dopo averlo benevolmente irriso in quanto inesperto di letteratura («Pascua sunt ignota tibi que Menalus alto / vertice declivi celator solis inumbrat» [Tu non conosci i pascoli su cui il Menalo getta la sua ombra nascondendo con l’alta vetta il sole cadente], Eg II 11-12), glielo rivela; nella seconda egloga dantesca il giovane Melibeo è rappresentato mentre arriva correndo e ansando («calidus et gutture tardus anhelo» [accaldato e con la gola chiusa per l’affanno], Eg IV 28) a portare a Titiro e Alfesibeo (Fiduccio dei Milotti), impegnati in dotti discorsi filosofici, il testo di risposta di Mopso.

Sul Giardini si veda BOCCACCIO³, I I 5.

Per Menghino Mezzani rimando alla voce dell’ED di Augusto Campana, a BELLOMO, pp. 330-338, e ad Andrea Mazzucchi, CCD, pp. 340-353; per Fiduccio dei Milotti, alla voce dell’ED di Aurelia Accame Bobbio e a Livi, Dante, suoi primi cultori, sua gente in Bologna, cit., pp. 176, 268 (a riprova dell’importanza di Fiduccio si tenga presente che un suo zio, Sinibaldo, era stato vescovo di Imola); per Guido Vacchetta, infine, rimando a Campana, Guido Vacchetta e Giovanni del Virgilio (e Dante), cit. Non risulta che Dante abbia avuto qualche rapporto con la figura più rappresentativa della Ravenna di quegli anni, e cioè l’arcivescovo Rinaldo da Concorezzo (cfr. Caravita, Rinaldo da Concorezzo, cit., pp. 193-203).

Il sonetto di Antonio Beccari, Non è mester el caval de Medusa, si legge con commento in Le Rime di Maestro Antonio da Ferrara (Antonio Beccari), introduzione, testo e note di Laura Bellucci, Bologna, Pàtron, 1972.

Un invito e una sfida

Per la biografia di Giovanni del Virgilio rimando a Giuseppe Indizio, Giovanni del Virgilio maestro e dantista minore, SD, LXXVII (2012), in corso di stampa. Sullo scambio bucolico, data per acquisita l’autenticità delle egloghe, che Aldo Rossi (del quale si veda il riassuntivo Dossier di un’attribuzione. Dieci anni dopo, «Paragone», XIX [1968], pp. 61-125) avrebbe voluto opera di Boccaccio, esiste una ricca bibliografia; ricordo solo alcuni dei lemmi più rilevanti: Carlo Battisti, Le egloghe dantesche, SD, XXXIII (1955), pp. 61-111; Guido Martellotti, Dalla tenzone al carme bucolico. Giovanni del Virgilio, Dante, Boccaccio, IMU, VII (1964), pp. 325-336, poi nel volume postumo Dante e Boccaccio e altri scrittori dall’Umanesimo al Romanticismo, a c. di Vittore Branca e Silvia Rizzo, Firenze, Olschki, 1983; Giuseppe Velli, Sul linguaggio letterario di Giovanni del Virgilio, IMU, XXIV (1981), pp. 136-158; Luciano Gargan, Dante e Giovanni del Virgilio: le «Egloghe», GSLI, CXXVII (2010), pp. 342-369. Per la figura intellettuale e per le altre opere rimando a: Paul O. Kristeller, Un’«ars dictaminis» di Giovanni del Virgilio, IMU, IV (1961), pp. 181-200; Gian Carlo Alessio, I trattati grammaticali di Giovanni del Virgilio, IMU, XXIV (1981), pp. 159-212; Matteo Ferretti, Boccaccio, Paolo da Perugia e i commentari ovidiani di Giovanni del Virgilio, «Studi sul Boccaccio», XXXV (2007), pp. 85-110.

Per la datazione del primo invio di Giovanni, oltre ai saggi citati, forniscono utili indicazioni INDIZIO¹, pp. 61-63, e Casadei, Sulla prima diffusione della «Commedia», cit., p. 63.

Nei versi iniziali del carme che invia a Dante dopo il loro incontro (Eg I 1-16): «Pyeridum vox alma, novis qui cantibus orbem / mulces letifluum … evolvens triplicis confinia sortis / indita pro meritis animarum – sontibus Orcum, / astripetis Lethen, epyphebia regna beatis, / tanta quid heu semper iactabis seria vulgo? … clerus vulgaria tempnit, / et si non varient, cum sint ydiomata mille» (Sacra voce delle Pieridi, tu che con nuovi canti plachi il mondo dei morti … disvelando i regni della triplice sorte assegnati in ragione dei meriti delle anime – l’Orco ai colpevoli, il Lete a chi aspira alle stelle, i regni oltre il sole ai beati – ahi, a che continuerai sempre a spargere tra il volgo così sublimi temi, e noi dotti … nulla potremo leggere della tua poesia di vate? … il pubblico dotto disprezza gli idiomi volgari, anche se non fossero instabili e diversificati, come in realtà invece sono, in mille varietà) Giovanni del Virgilio mostra di conoscere la tesi centrale, e di più assoluta novità, del trattato dantesco, e cioè che le lingue naturali sono frammentate nello spazio e instabili nel tempo (VE I X 7): «a voler contare le variazioni primarie e secondarie e subsecondarie del volgare d’Italia, anche solo in questo minimo angolo di mondo si arriverebbe alla millesima diversificazione della lingua, anzi si arriverebbe anche molto più in là» (si primas et secundarias et subsecundarias vulgaris Ytalie variationes calculare velimus, et in hoc minimo mundi angulo non solum ad millenam loquele variationem venire contigerit, sed etiam ad magis ultra). L’aderenza al testo dantesco è spinta fino a recepire l’iperbole della «millenam … variationem» (devo i riscontri a Gabriella Albanese, che sta lavorando al commento delle Egloge per il secondo volume delle Opere di Dante). Claudia Villa (La «Lectura Terentii», I. Da Ildemaro a Francesco Petrarca, Padova, Antenore, 1984, pp. 178-183) segnala che i vv. 8-13 del carme inviato a Dante contengono al loro centro («et secreta poli vix experata Platoni [i segreti del cielo, che a stento Platone distillò dalle arcane sfere]» una «citazione» sintetica di Cv III V 4-8.

Intorno al 1327 il frate carmelitano Guido da Pisa nella Declaratio (un componimento volgare in terza rima, accompagnato da glosse latine, che funge da introduzione al suo commento alla Commedia) riferisce che i dotti estendono il loro disprezzo per il genere letterario e per la lingua anche al contenuto del poema: «udendo questo nome, Commedia, e vedendola scritta in volgare, trascurano e disprezzano il frutto in essa nascosto» (Audientes hoc nomen Comedie et videntes ipsam vulgari sermone compositam, fructum qui latet in ipsa negligunt et aborrent; Guido da Pisa, Declaratio super Comediam Dantis, ed. critica a c. di Francesco Mazzoni, Firenze, Società Dantesca Italiana, 1970, p. 34).

La convinzione dantesca di ottenere l’alloro poetico con la pubblicazione del Paradiso è espressa nitidamente in Eg II 48-51: «Tunc ego: “Cum mundi circumflua corpora cantu / astricoleque meo, velut infera regna, patebunt, / devincire caput hedera lauroque iuvabit: / concedat Mopsus”» (Quando i volumi del mondo che ruotano in cerchi concentrici e le anime abitatrici delle stelle si dispiegheranno nel mio canto, come già i regni infernali, allora sì che mi piacerà cingere il capo della corona d’edera e alloro: lo consenta Mopso!).

Casadei, Sulla prima diffusione della «Commedia», cit., p. 65, ritiene che nei «dieci vasetti» promessi vadano ravvisati dieci testi bucolici.

La notizia che la Commedia era ancora inedita al momento della morte di Dante è data da BOCCACCIO¹, 183; Boccaccio scrive pure che «egli era suo [di Dante] costume, quale ora sei o otto o più o meno canti fatti n’avea, quegli, prima che alcuno altro gli vedesse, donde che egli fosse, mandare a messer Cane della Scala», ma quest’ultima cosa sembra alquanto improbabile.

Il congedo dalla storia

Per la complicata questione Pier Damiani/Pietro Peccatore rimando alla voce dell’ED Pier Damiano di Arsenio Frugoni.

Anche nel canto XXVII, ancora su invito di Beatrice, Dante si volgerà a guardare l’«aiuola» (v. 86), ma questo secondo sguardo fissa le coordinate del viaggio e non ha dunque il significato di un congedo come ha invece quello del canto XXII.

La nostalgia del «bello ovile»

Per il «cappello» di Pd XXV 9 si legga Villa, La protervia di Beatrice, cit., pp. 198-200.

La subordinazione della chiesa-battistero alla cattedrale viene sancita dalla riforma liturgica del vescovo Antonio degli Orsi (1310), che pone fine al secolare rapporto rituale tra le due chiese.

Per i rapporti tra Santa Reparata e Santa Maria del Fiore rimando ad Anna Benvenuti, Stratigrafie della memoria: scritture agiografiche e mutamenti architettonici nella vicenda del «Complesso cattedrale» fiorentino, in Il bel San Giovanni e Santa Maria del Fiore. Il centro religioso a Firenze dal tardo antico al Rinascimento, a c. di Domenico Cardini, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 95-128; Ead., Arnolfo e Reparata. Percorsi semantici nella dedicazione della cattedrale fiorentina, in Arnolfo’s Moment, Acts of an International Conference, Villa I Tatti, May 26-27, 2005, ed. by David Friedman, Julian Gardner, Margaret Haines, Firenze, Olschki, 2009, pp. 233-252, e a Marica S. Tacconi, Cathedral and civic Ritual in late medieval and Renaissance Florence. The Service Books of Santa Maria del Fiore, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.

Un sofferto rifiuto

Livi, Dante, suoi primi cultori, sua gente in Bologna, cit., p. 175, ritiene che Fiduccio dei Milotti abbia svolto il ruolo di intermediario tra Giovanni del Virgilio e Dante.

Un numero cospicuo di glosse, raccolte da Boccaccio nello Zibaldone Laurenziano, ci consente di individuare i personaggi che si celano dietro ai nomi pastorali. Per la ricezione scolastica trecentesca delle egloghe si vedano: Giuseppe Billanovich, Giovanni del Virgilio, Pietro da Moglio, Francesco da Fiano, IMU, VI (1963), pp. 203-234; VII (1964), pp. 279-324; Giuseppina Brunetti, Le «Egloghe» di Dante in un’ignota biblioteca del Trecento, «L’Ellisse. Studi storici di letteratura italiana», I (2006), pp. 9-36; Giuliano Tanturli, La corrispondenza poetica di Giovanni del Virgilio e Dante fra storia della tradizione e critica del testo, «Studi medievali», LII (2011), pp. 809-845. Per la fortuna umanistica: Giuseppe Velli, Tityrus redivivus: the Rebirth of Vergilian Pastoral from Dante to Sannazaro (and Tasso), in Forma e parola. Studi in memoria di Fredi Chiappelli, a c. di Dennis J. Dutschke et al., Roma, Bulzoni, 1992, pp. 68-78; Gabriella Albanese, Tradizione e ricezione del Dante bucolico nell’Umanesimo. Nuove acquisizioni sui manoscritti della Corrispondenza poetica con Giovanni del Virgilio, NRLI, XIII (2010), pp. 238-327.

La postilla relativa all’egloga inviata da Giovanni del Virgilio ad Albertino Mussato, contenuta nello Zibaldone di Boccaccio, recita: «Nam postquam magister Johannes misit Danti eglogam illam Forte sub irriguos etc. stetit Dantes per annum ante quam faceret Velleribus colchis et mortuus est ante quam eam micteret».

Per l’insurrezione contro il Pepoli si veda DAVIDSOHN, IV, pp. 894-895; per la data di insediamento di Fulcieri si veda Casadei, Sulla prima diffusione della «Commedia», cit., p. 63.

Sullo stato di incompiutezza dell’ultima egloga insiste Lino Pertile, Le «Egloghe», Polifemo e il «Paradiso», SD, LXXI (2006), pp. 285-302.

L’egloga di Giovanni del Virgilio a Mussato si legge ora in La corrispondenza bucolica tra Giovanni Boccaccio e Checco di Meletto Rossi. L’egloga di Giovanni del Virgilio ad Albertino Mussato, ed. critica, commento e introduzione a c. di Simona Lorenzini, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento (Quaderni di «Rinascimento», 49), Firenze, Olschki, 2011, pp. 175-210.

L’ultima ambasceria

Le testimonianze sulla data di morte oscillano fra il 13 settembre (giorno riportato negli epitafi composti da Giovanni del Virgilio e Menghino Mezzani) e il 14 (attestato, fra gli altri, da BOCCACCIO¹, 86, e BOCCACCIO², 62): per conciliare le due date si è pensato che il trapasso sia avvenuto dopo il tramonto del 13. Ancora BOCCACCIO¹, 87-91, racconta delle esequie solenni e degli epitafi (tra cui quello di Giovanni del Virgilio, che egli riporta) composti poco dopo.

Per le vicende del sepolcro e degli epitafi si veda Saverio Bellomo, Prime vicende del sepolcro di Dante, «Letture classensi», 28 (1999), pp. 55-71; sulla complessa questione, anche attributiva, degli epitafi funebri fa il punto Giuseppe Indizio, Saggio per un dizionario dantesco delle fonti minori. Gli epitafi danteschi: 1321-1483, SD, LXXV (2010), pp. 269-323.

Il «Paradiso» ritrovato

Il racconto del sogno e delle modalità del ritrovamento degli ultimi canti è in BOCCACCIO¹, 183-185.

La Divisione e il sonetto Acciò che le bellezze, Signor mio di Iacopo sono editi in Iacopo Alighieri, Chiose all’«Inferno», a c. di Saverio Bellomo, Padova, Antenore, 1990; la Divisione anche da Camilla Giunti, L’«antica vulgata» del capitolo di Jacopo Alighieri. Con una edizione (provvisoria) del testo, in Nuove prospettive sulla tradizione della «Commedia». Una guida filologico-linguistica al poema dantesco, a c. di Paolo Trovato, Firenze, Cesati, 2007, pp. 583-610.

Per la ricostruzione delle fasi finali di lavorazione e di pubblicazione del Paradiso mi avvalgo di Casadei, Sulla prima diffusione della «Commedia», cit., pp. 57-62.