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Non ebbi il coraggio, quella mattina, di uscire di casa. Avevo timore che, se avessi incontrato Marianna – e l’avrei sicuramente incontrata, ne ero certo –, avrebbe preso a presentarmi in giro come il suo ragazzo e a chiamarmi “amore”. Ero sicuro che si credesse già inserita in un legame stabile, dove la passione stava solo allignando prima di esplodere e in cui, comunque, doveva regnare già un mistico idem sentire tra di noi.

Alle undici mi arrivò un suo messaggio.

“Come mai non sei ancora venuto? Anche Carlini ha chiesto di te...”.

“Chiedigli scusa da parte mia, ma non mi sento bene”.

“Che succede? Non avrai mica preso freddo stanotte?”.

Poveretta, aveva timore di avermi scoperto inavvertitamente. Mi rivedevo sotto la coperta con lei. Non c’era niente da fare: era una visione mesta, per nulla eccitante.

“Allora, riposa oggi e cerca di riguardarti”, mi scrisse come chiosa, non senza lasciarsi sfuggire un cuoricino. Inequivocabilmente, ero vittima della concupiscenza di una donna!

Rimasi tutto il giorno sdraiato a letto a leggere, tra le lenzuola e le coperte pulite che mi aveva messo Marianna. Per un intellettuale indolente e privo di reale trasporto per il suo lavoro, non esiste piacere più grande dell’abbandonarsi alla lettura svagata di romanzi. Un uomo che abbia passato la vita a studiare, perché incapace di svolgere qualsiasi attività che abbia a che fare col concreto, sorbendosi solo testi dalla prosa viscosa e ridondante, può trovare sollievo esclusivamente perdendosi in una narrazione. Gli studiosi non amano la vita, la sua pragmatica trivialità, le incombenze. È da ritenersi un miracolo che esseri del genere, così antivitali, riescano ancora a scopare e riprodursi.

Sta di fatto che leggere romanzi era il solo e unico piacere pieno della mia esistenza. Ciò che avrei desiderato massimamente sarebbe stato poter passare la mia vita usando solo gli occhi, per spostarli dalle pagine di un romanzo a un altro. Non ho infatti mai provato alcun piacere all’idea di compiere il mio dovere. Si può dire che solo il timore dell’indigenza mi abbia impedito di relegarmi su un letto, in uno stato di torpore simile a quello di un malato scarsamente reattivo alle cure. Ero così felice della mia inoperosità in quelle lunghe ore passate in posizione supina. Non ero adatto alla lotta, non avevo propensione all’adattamento, non comprendevo il senso della competizione. Non mi rimanevano che la lettura e l’ozio. Fosse potuto essere così per sempre, sarebbe stato facile raggiungere uno stato di pace. La vita avrebbe continuato a non piacermi, ma almeno sarebbe stata tollerabile.

Avevo appena finito un racconto di Raymond Carver e mi stavo interrogando su che diavolo volesse dire, con quel suo finale apparentemente così insignificante e spiazzante, quando mi arrivò un messaggio di Marianna.

“Come ti senti, adesso?”.

“Meglio, grazie”.

“Che hai fatto tutto il giorno?”.

“Ho letto”.

“Stavi studiando per il tuo progetto?”.

“Assolutamente no. Stavo leggendo Raymond Carver”.

“Ah... Cos’hai mangiato a pranzo?”.

Con Marianna era così: se non parlavi di sociologia, per il resto potevi discutere solo di cosa avessi mangiato a pranzo e dei suoi giochini sul cellulare.

“Credo di essermi dimenticato di mangiare...”.

“Povero piccolo! Ma hai qualcosa per cena?”.

“Non so”.

“Se mi aspetti un’oretta, te la porto io qualcosa da mangiare”.

“Marianna, grazie, ma non devi”.

“Ci mancherebbe, per me è un piacere. Poi, stai male e sei pure solo”.

Mi venne da sorridere al pensiero dell’ostinazione assurda e immarcescibile con cui quella donna cercava di assumere importanza ai miei occhi, unica su tutto il genere femminile, che, al contrario, si teneva debitamente a distanza dal sottoscritto e non faceva nulla per andarmi a genio.

“Va bene, ti aspetto dopo”.

“Grazie di cuore”.

“No, grazie a te”.

Mi inviò un cuoricino. Era eclatante che da parte sua non si trattasse di puro spirito filantropico, ma di amore, ovvero di un sentimento nella sua essenza molto meno nobile e spassionato. Altrimenti, non mi avrebbe mai ringraziato per aver accettato la sua proposta di aiuto. Solo l’egoismo può spingersi fino a essere così sfrontatamente contraddittorio.

Ci misi molto anche quel giorno prima di aprirle, malgrado fossi sveglio. Sperai che desistesse, ma non lo fece. Era sempre molto contenta di vedermi, direi scoppiettante.

«Anche oggi ceniamo insieme. Non lo trovi bellissimo?», mi chiese, facendo finta che, accettando che mi facesse la spesa, io l’avessi tacitamente anche invitata a desinare in mia compagnia.

Fu solo in quel momento che realizzai di non essermi lavato in tutta la giornata. Era una cosa che mi capitava non di rado. Non sentivo mai la mia puzza, prima di avere qualcuno al mio fianco.

«Forse è il caso che mi faccia una doccia», le dissi. «Non mi sono lavato da ieri».

«Oh tranquillo, per me non è un problema».

«Dai, ci metto solo cinque minuti. Aspettami un secondo».

Anche se non desideravo sedurla, non mi andava di mancarle di rispetto col mio olezzo animalesco.

Andai nel piccolo bagno cieco di casa mia, praticamente uno stretto corridoio senza finestre, e mi misi sotto la doccia. Fu solo alla fine che mi resi conto di aver scordato l’asciugamano. Avevo l’abitudine di uscire bagnato e andare fino alla stanza principale per prenderne uno dal cassettone, lì dove tenevo questo genere di articoli. Solo che, quella volta, nell’altra stanza c’era Marianna. Ma non avevo scelta, dovevo chiederle aiuto.

«Marianna, scusa», gridai. La sentii avvicinarsi.

«Sì, dimmi».

«Ho scordato l’asciugamano. Saresti così gentile da portarmene uno? Sono nel cassettone, lì dove stavi tu».

«Certo, subito».

Ci mise, in realtà, un minuto e mezzo buono a trovarne uno in quel marasma. Dovevano essere mescolati come in uno strambo cocktail, tra calzini e mutande sparse.

Arrivò dicendomi: «Bisogna che metta un po’ d’ordine nei tuoi cassetti».

Avevo aperto un’anta della doccia e da lì facevo sporgere la testa e il busto.

Lei mi sorrise. Doveva essere elettrizzata all’idea che, dietro quegli scorrevoli, io fossi nudo e completamente zuppo d’acqua.

«Vuoi che ti aiuti?».

Mi accigliai, in un moto naturale di disgusto.

«Aiutarmi?», le chiesi.

«Magari sei abituato alla mamma che ti asciugava la schiena da ragazzino...».

«Marianna, sono un uomo. Nessuno mi ha mai asciugato la schiena».

«Te lo chiedevo per venirti incontro. Tu sei così timido e potresti avere dei problemi a fare una simile richiesta. Comunque, se dovessi aver bisogno, sappi che per me non è un problema».

Immaginai lei che mi frizionava il corpo con l’asciugamano, con fare materno, e poi mi prendeva in mano lo scroto al fine di asciugarlo per bene. Impossibile permettere un tale scempio!

«Grazie, grazie davvero. Potrei avere l’asciugamano?».

Me lo passò.

«Io, nel mentre, metto in ordine il resto della tua roba nei cassetti».

«Grazie, Marianna».

«Me lo merito o no un bacino?», mi chiese. Indubitabilmente, questo giochino infantile, volto alla ricerca del compenso affettivo, la doveva soddisfare a un livello quasi erotico. Supposi facesse così anche con suo padre. Ebbi un fremito di repulsione al pensiero.

Mi si avvicinò e io la baciai sulla guancia. Sorrise con le mani raccolte dietro la schiena. Aveva proprio un sistema di soddisfacimento delle necessità emotive di tipo prepuberale.

Quando tornai in camera, avevo l’asciugamano intorno ai fianchi e mi dovevo vestire.

«Marianna, dovrei vestirmi».

«Ah, già, scusa!», disse e si girò verso il muro.

Cominciai a infilarmi le mutande.

«Comunque», mi disse lei, «col bel corpo che ti ritrovi, non dovresti aver paura a farti vedere nudo da una donna».

Mi resi conto che, a causa del fatto che mi stavo infilando le mutande, Marianna doveva avere in corso il primo vero fermento ormonale di tutta la sua esistenza. E dire che indossavo delle mutande pagate un euro l’una in un mercatino rionale. Poi, improvvisamente, mi ricordai dello specchietto da toeletta che tenevo sulla scrivania, uno di quelli che le donne usano per farsi le sopracciglia, chincaglieria cinese da tre euro. Mi girai di scatto. Vidi distintamente che mi stava mirando nudo su quella superficie riflettente. Lei fece finta di niente. Lasciai correre, fin lì potevo concedere. Non mi sembrava corretto togliere a quella donna anche il diritto di guardare. Mi chiesi se si fosse bagnata vedendomi sotto quella prospettiva. Probabilmente sì. Povera ragazza, ridotta a eccitarsi per un uomo dal fisico inconsistente e già piuttosto cascante. È demoralizzante per me la facile tendenza della gente ad accontentarsi del peggio.

Il seguito della serata fu più o meno simile al giorno prima. Anche in quell’occasione in un primo momento rifiutò il vino, poi lo prese e finì con la testa sulle mie gambe. Avevo a quel punto già capito come sarebbe andato a concludersi il tutto, ovvero quasi come ogni giorno da anni: male e senza aver scopato.

«Posso restare a dormire?», mi chiese. Non riuscii a dirle di no, ma neanche di sì, e lei interpretò il mio come un implicito consenso. Mi si strinse contro il petto. Era una situazione surreale: io non la toccavo e lei si ostinava a voler fare come se fossimo già una coppia. È sempre incredibile e aberrante quel che può arrivare a sopportare una persona, pur di sentirsi come tutti gli altri.

Anche quella notte a ogni modo mi addormentai, con lei che mi ronfava sul petto. Povera ragazza, povero me, poveri noi. A che punto di corruzione eravamo arrivati per colpa della solitudine!

Quando arrivò il mattino con le sue prime luci bigie e lugubri, mi svegliai, sentendomi toccare. Marianna aveva una mano posata indiscretamente sul mio pacco. Lo accarezzava. Dovevo aver avuto un’erezione ingiustificata, una volta prossimo al risveglio, fraintesa da lei come dovuta alla sua vicinanza.

«Me l’avresti dovuto dire, se ti faccio quest’effetto. Sei sempre così riservato». Mi rivolse uno sguardo di indulgenza ammiccante.

Benedetta ragazza, capivo la sua emozione, ma era oltremodo ingiustificata.

«Marianna, ma che fai, scusa?».

Me lo strinse.

«Pensavo volessi il buongiorno».

«Marianna, ti prego!», dissi e rimossi la sua mano con decisione.

«Scusa», rispose. Povera anima, era mortificata.

«Calma, volevo solo dire che adesso dobbiamo andare all’università. Insomma, il dovere, il lavoro...».

Ritrovò subito l’entusiasmo perso.

«C’è sempre tempo sabato sera, vero?». Mio Dio, non riuscivo a credere che Marianna potesse essere così civettuola.

«Certamente non l’abbiamo adesso. Scusami, devo fare la doccia...».

«Sai», mi disse lei, al colmo della sua volontà seduttiva, «incidentalmente, oggi ho portato con me il cambio. Posso fare la doccia da te e poi andiamo insieme all’università, che ne dici?».

Era strabiliante la sua caparbietà, quella forza che le impediva di demordere dal suo proposito. La guardavo esterrefatto.

«Allora, posso farmi la doccia da te?».

«Sì, prego... Ehm, volevo dire, certo che puoi».

«Vuoi venire con me?», mi chiese. Non doveva solo aver frainteso, doveva proprio esserne convinta.

«Preferisco fare colazione nel mentre, scusa».

Mi prese il naso tra l’indice e il medio e me lo tirò.

«Quanto sei timido. Eppure dovresti aver capito».

Feci finta di niente per l’ennesima volta.

«Vai pure tu per prima a farti la doccia».

«Se ti dovesse venire voglia, raggiungimi pure».

Era penoso pensare che quella ragazza, con una sessualità così viva, avesse dovuto tenerla nascosta per tutto quel tempo.

«Grazie dell’invito», dissi, cercando di sorridere. Il sorriso mi si strozzò come un urlo a fior di labbra.