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Ebbi appena il tempo, dopo aver salutato frettolosamente Marianna, ed essere sgattaiolato furtivamente fuori dall’aula magna, cercando di non farmi notare dal Carlini, di correre alla festa di pensionamento di mio padre. L’uomo, disamorato servitore statale presso un ente pubblico, stava per prendere congedo dal mondo del lavoro. L’avevo visto qualche giorno prima e aveva tutta l’aria di vivere uno stato d’ansia profondamente destabilizzante, al pensiero che qualcosa potesse andare storto durante quel party di addio lungamente preparato in ogni minimo dettaglio. Parallelamente, lo sapevo terribilmente abbacchiato all’idea di ritrovarsi, dopo decenni, con l’intera giornata libera e nessun reale interesse con cui baloccarsi per diporto.

Appena riuscii a trovare la sala del ricevimento, che assomigliava straordinariamente a quel luogo di tortura che era stato per me solo fino a mezz’ora prima l’aula magna della facoltà, mi avvicinai e lo salutai. Mi prese in disparte trascinandomi per il braccio, coi suoi modi non proprio sopraffini che celavano a stento una buona dose di forza bruta ben distribuita su un corpo tarchiato, basso, e decisamente compatto, dalla fibra inscalfibile.

«Ho riflettuto stanotte, non riuscendo a prendere sonno», cominciò il vecchio con tono tra il malinconico e il lassativo. Mio padre si era sempre ritenuto un uomo saggio, capace di leggere impietosamente la miseria della vita altrui, un vero maestro del sospetto. In realtà, era piuttosto un individuo amaro, con molto tempo libero in eccesso, e affetto per di più da egolalia.

«Cosa hai pensato durante le ore dei vampiri e dei suicidi?», gli dissi punzecchiandolo.

«Dei vampiri e dei suicidi», ripeté ridacchiando, «questa dove l’hai sentita?». A vederlo in quel momento, sembrava già un pensionato rincoglionito.

«Da nessuna parte. Comunque, dicevi, cos’ha partorito la tua mente durante la notte?».

«Riflessioni tristi. Ho pensato che adesso, attraversate tutte le fasi della vita, la maturità a scuola, il matrimonio e il tempo del lavoro, il prossimo passo, l’unico che mi rimanga da compiere, è quello verso un bel funerale».

Assentii con la testa, in modo quasi impercettibile, cercando di risultare empatico con lui e, in effetti, lo fui. Perlomeno, ero certo che la scansione con cui aveva suddiviso il tempo della sua vita e vaticinato il suo futuro fosse impressionantemente realista e ineluttabile.

Tutti i colleghi che passavano, bigie facce da derelitti, gli assestavano grandi pacche sulle spalle. In quei momenti, il vecchio sembrava ritrovare un po’ di mordente, ma si trattava a ogni modo di brevi intervalli di benessere transitori. Già lo immaginavo, un maschio vecchio e svuotato, senza particolari interessi, vedovo, intrappolato in un mondo a lui sempre più estraneo, abbandonarsi giorno dopo giorno all’abulia e al dispiacere. Si rendeva sicuramente conto di ritrovarsi con in mano una linea, la sua vita, che stentava a chiudersi su se stessa in un anello dalla circolarità perfetta. Per me, era motivo di costernazione il semplice vedermelo davanti. Lo compativo, ma non potevo farmi carico del suo disagio, avendo già una bella gatta da pelare a voler fare i conti col mio. Del resto non avevo mai pensato, dai quattordici anni in poi, che la vita si dovesse concludere all’insegna di una felicità piena e radiosa; né tanto meno che il percorso verso la compieta finale dovesse essere costellato, se non da una qualche gioia talmente breve da poter essere confusa con un’illusione.

Una volta comparso il Magnifico Direttore Ultramegagalattico, la cerimonia di addio ebbe inizio. Prima di ciò, quell’individuo, con gli occhi ceruli e dal piglio fortemente motivazionale, si avvicinò a mio padre per stringergli la mano. Lo osservai con attenzione. Aveva un aspetto fiero, senza risultare arrogante; la postura era impettita senza affettazione. Nel complesso, lo si sarebbe potuto definire un uomo di una certa avvenenza e fascino. Ben vestito, con un completo che non aveva una grinza che fosse una, messo lì accanto a me e al vecchio, ci faceva sfigurare anche senza volerlo. Noi sembravamo due pellegrini in transito, lui invece aveva esattamente l’aria del capo, un perfetto esempio di anfitrione inutile quanto una bella colonna di marmo in bagno, con quel suo fare decisamente sornione e ruffiano. Un vero schifoso.

«Quel pezzo di merda», mi sussurrò mio padre all’orecchio confidenzialmente, «si è guadagnato il posto che occupa a tradimento, grazie a tutta una serie di appoggi politici. È stato anche assessore in una giunta del Partito». Immaginavo fosse parte di una conventicola di potere losca e in odore di massoneria, più o meno come la maggior parte dei vecchi baroni della mia facoltà. Dopo avermi messo al corrente del lato limaccioso e mefitico celato dietro quell’accattivante personaggio, mio padre lo raggiunse sul palco.

«Cari amici e colleghi», cominciò il direttore, ostentando un sorriso molto affabile, ma contegnoso, «siamo qui oggi per salutare il nostro amato collega e amico Umberto che, dopo quarant’anni di onorato servizio, ci lascia. Mi onoro di salutarlo a nome di tutto l’ufficio e, come ambasciatore, per conto del Direttore Regionale che ci ha tenuto a fargli recapitare i suoi più sinceri auguri...».

Ci furono alcuni secondi di silenzio da parte dell’oratore, per sottolineare il valore della sua ambasciata. Fu in quell’attimo che mio padre parlò, anche se non proprio con voce stentorea, ma comunque ben percettibile. Disse solo: «Finiscila di sparare cazzate!».

Il direttore non si scompose, anzi con aplomb da vecchia canaglia politicamente navigata come una bagascia da strada, continuò volgendo repentinamente verso la chiosa del suo discorso: «Non ci tengo comunque a tediarvi oltremisura, pertanto, io direi che potremmo dare inizio ai festeggiamenti. Umberto, tanti auguri», disse e si girò verso mio padre per stringergli la mano. Gli sorrise con gli occhi contratti, quasi chiusi, e la bocca ben aperta, più o meno come uno squalo quando sta per sferrare un attacco mortale. Non sentii una parola di quello che si dissero, ma riuscii a leggere il labiale chiaramente. Mio padre lo apostrofò con un sorriso dolcemente rassegnato: «Sei il solito pezzo di merda!». Lui si limitò a replicare a quel sorriso placidamente, come a dire “grazie, troppo gentile da parte tua”. Gli enti statali devono essere proprio un luogo di lotte intestine meschine e disgustose. Decisi di buttarmi sui tramezzini e sul vino.

Per il resto della festa, mio padre non mi degnò di uno sguardo. Sembrava essersi un po’ ripreso di morale, o perlomeno pareva vedersi costretto, dall’allegria generale diffusa per la sala, a imporsi un contegno da persona felice, cosa che l’avrebbe tenuto alla larga per qualche ora dalla sua afflizione. Ero contento per lui, palesemente compiaciuto per aver fatto bella figura con un catering pantagruelico e molto curato. La vita di un uomo è spesso fatta di queste magre soddisfazioni, quali rimpinzare fino ai capelli i colleghi di lavoro, durante una festa di pensionamento. Pensai a mia madre morta e la invidiai per non aver dovuto prendere parte a quella pantomima funebre, grottescamente ebbra di gioia.

L’unica nota di colore e di svago, per me, arrivò tramite un piacevole scambio di battute che ebbi modo di avere con un ormai ex collega di mio padre. Un tizio dai capelli e la barba molto corti e brizzolati, piuttosto ciarliero e ridanciano, che bevette in mia compagnia qualche bicchiere di rosso. Se lo gustò con aria da sopraffino intenditore. Più tardi, mio padre mi mise al corrente di aver dialogato per lungo tempo con quello che in realtà era un noto ubriacone, avvezzo al bicchierino pesante fin dal primo mattino. Il signore, a cui io detti del lei e che in tutta risposta mi chiamò “ragazzo”, mi confidò di essere prossimo a partire per un viaggio di piacere in Olanda. La notizia, unita alla gioia indotta dal vino, mi elettrizzò e un po’ lo invidiai. Pensai subito che avrebbe avuto modo di intrattenersi con un sacco di puttane, nei quartieri a luci rosse, per cui il paese è tanto rinomato, e glielo dissi con un tono di stretta complicità.

«Sto andando lì con la mia terza moglie».

«Ah, mi scusi».

Non pensavo che quell’essere brizzolato, consunto dai suoi stessi eccessi, e col maglione a collo alto, potesse avere un tale successo con le donne. Ero persuaso, peraltro, che l’unica attrazione che potesse spingere un uomo verso quel piccolo e oscuro Stato fosse la possibilità di avere accesso libero e sicuro a un sacco di donne, spendendo una cifra tutto sommato ragionevole. Io, per consolarmi delle mie sfighe italiche, ci avrei sicuramente passato la maggior parte del tempo.

Concludemmo il discorso con domande da parte mia molto formali, tipo: «Quanto si tratterrà?» e «Dove alloggerà?».

In principio, speravo di aver trovato un degno compare di merende ma, come si arguirà, non fu così.

Me ne andai, dovendo continuare gli esami per conto del Carlini, impegnato a seguire la parte pomeridiana del convegno.

Salutai mio padre, ormai stanco e alticcio. Stava seduto su una sedia, coi piedi scalzi poggiati davanti a sé, e discuteva, intorno a un cerchio di ex colleghi, di politica e dei culi delle impiegate più giovani.

Il direttore sembrava essersi volatilizzato in silenzio come un innocuo passerotto.

Mi aspettavo per quella sera di sentire il vecchio, a mezzo telefono, che mi avrebbe detto quanto era orgoglioso di essere riuscito a mettere su una festa tanto imperiosa, quanto apprezzata. Questo prima di attaccare con le sue solite geremiadi su quanto si sentisse solo e fallito dopo quarant’anni di duro lavoro, senza mai essere riuscito a toccare i più alti vertici dirigenziali.