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Tornando dal locale, passai di fronte all’ospedale, il San Giovanni di Dio, una struttura vetusta e fatiscente con alcune aree al contempo molto all’avanguardia, ipertecnologiche.

Conoscevo bene quel posto. Con mio padre avevamo passato molte notti nella sala d’attesa del Pronto Soccorso, mentre al di là della porta a sensore, in qualche stanza misteriosa, ben celata alla vista del pubblico, medici e infermieri dall’aria stanca e strapazzata si affaccendavano, con flebo e quant’altro, per tenere a bada, o perlomeno sotto controllo, gli eccessi di dolore di mia madre.

Io e il vecchio sostavamo nello stanzone dalle panche in metallo, in un ambiente fetido, insieme ai parenti di qualche altro paziente e barboni dall’olezzo selvatico, che approfittavano del caldo del posto per riposare e fruire di un bagno. L’ansia era palpabile, come il calore innaturale dell’ambiente.

Mio padre ci teneva molto a che prendessi con lui qualcosa al distributore automatico, così da aiutarlo a svuotarsi di qualcuno tra le decine di spiccioli che gli riempivano sempre le tasche. Era un uomo bizzarro sotto questo punto di vista: teneva sempre almeno una monetina in ogni singola tasca di tutti i suoi pantaloni, nella convinzione superstiziosa che ci volesse un soldo addosso per poterne fare altri, un po’ come bisognava conservare almeno un seme se in futuro si sperava di avere altri raccolti. Certamente suggestiva come idea, se non fosse stato che, a considerarla per bene, ci si rendeva conto di che colossale cazzata fosse.

Ricordavo bene quelle notti, in particolare la paura. Un sentimento che, in verità, mio padre non conosceva. Era più tendente allo spasimo di rabbia, all’incazzo montante e incontenibile. Lo osservavo grattarsi il capo pelato con vigore isterico, camminare su e giù, e borbottare salmodiando. Aveva sempre avuto la tendenza a dipingersi come una vittima. Il più delle volte si raccontava la realtà come una serie di peripezie in cui una presunta forza non ben identificata, ma da lui denominata “Destino”, si divertiva a castigarlo, a mettergli i bastoni tra le ruote e sbeffeggiarlo; alla stregua di Ulisse con gli dei olimpici, vittima del loro astio e dei loro capricci. Più prosasticamente, direi che la sua era ignoranza crassa con una spruzzatina di misticismo da borgo di campagna.

Quando mi parlava, in sala d’attesa, tendenzialmente non l’ascoltavo. Non condividevo la sua visione del mondo, fatta di castighi e favori accordati da una divinità malandrina. Il mio universo era sempre stato un fatto neutro, privo di una struttura forte e sensata. Non vedevo nessuna ingiustizia o fortuna che non fosse semplicemente scaturita da una causa fortuita e aleatoria. Certo non mi sentivo perseguitato da alcuna forza oscura. Il mondo è ciò che è, anche se questo suo essere, il più delle volte, mi fa semplicemente penare.

L’unica cosa che riuscissi a fare, mentre attendevo col timore che mi potessero annunciare il decesso di mia madre, era leggere. Tirare fuori il mio Kindle e buttarmi su un romanzo.

In un libro, anche il più sconclusionato e sperimentale, la sostanza discontinua e frammentaria dell’esistente acquista una forma coesa. Con una metafora, l’artista istituisce connessioni e un ordine nella materia caotica. Solo in una narrazione il mondo mi si palesa; prima, vivo unicamente un caos senza nome. Non potevo immaginare felicità più grande, persino in quei momenti.

Riflettendo in uno stato di notevole eccitazione neuronale, arrivai sotto casa. Ancora qualche passo e poi mi sarei finalmente potuto gettare su un letto. Il giorno dopo sarebbe caduto di sabato e mi sarei trovato con molte cose da fare.