11

Il casermone dove abitava mia nonna era una ex costruzione popolare, probabilmente di quelle volute dalla Democrazia Cristiana. Non si trattava, comunque, di una generosa elargizione statale a suo favore. Era stata regolarmente acquistata da un inquilino beneficiario che aveva avuto occasione di riscattarla a un prezzo molto agevolato. Già dalla facciata era ben percepibile come il palazzo fosse stato costruito alla buona, senza alcuna attenzione per i dettagli, o per eventuali fronzoli che potessero abbellirlo. La caratteristica più eminente di quel tipo di case era che, anche a fronte di una discreta spesa per ristrutturazioni e migliorie varie, conservavano a ogni modo un aspetto incompiuto e irrecuperabile. Niente da fare, era un progetto dannato in partenza. Come in un testo: si può ben voler intervenire con correzioni e aggiustamenti, ma se è scritto male, se la trama è fiacca e la prosa spenta, sono inutili i tentativi di apportare miglioramenti a livello di punteggiatura.

Arrivai puntuale e non dovetti suonare molto perché mia nonna sentisse finalmente la campanella da cambio turno in fabbrica che le era stata installata, al posto di un comune campanello.

Normalmente, non era difficile riconoscere mia nonna. Come un personaggio dei fumetti, aveva il look stabile e immutato dacché io avessi memoria. Il vestito lungo e scuro, d’estate come d’inverno. Quando usciva si copriva il capo con un fazzoletto nero. Si trattava insomma di una donna che teneva molto, da brava moglie di un militare, alla sua classica divisa da vedova. Inoltre, il suo passo era stentato e claudicante; facendo oscillare il peso del culo da una gamba all’altra, si spostava con una lentezza sfiancante.

«Ciao, nonna», le dissi stancamente, chiedendomi quando fosse stata l’ultima volta in cui avessi salutato qualcuno con un sincero entusiasmo.

«Vieni, figlio mio. Sto cucinando».

La donna amava molto cucinare. Era stata una delle poche attività da cui avesse tratto reale piacere, fino ai traumatici eventi dell’abbandono della casa paterna da parte dei figli e della dipartita del marito. Programmata per l’attività di moglie, madre e casalinga fin dall’infanzia, odiava la solitudine, come tutte le persone che non hanno avuto modo di coltivare lo spirito nei giardini dell’attività intellettuale. La sua vita era stata finalizzata a fare da veicolo al buon sostentamento degli altri e a sgravarli dalle fatiche più pesanti. Era comprensibile, pertanto, che, nella sua vecchiaia, non potesse che sentirsi spersa e inservibile. L’esistenza devasta chi non sa trovarsi vie di fuga per non dover affrontare il dramma di esserci e non avere assolutamente niente da fare.

Generalmente, con la povera vecchia, non avevamo granché da dirci. Ma lei era come mio padre, non le mancava mai un argomento su cui discutere, a costo di ripetere a iosa le stesse quattro o cinque storie eclatanti di cui si componeva la povera trama della sua vita, fino allo sfinimento del suo uditore. Non so se per via di falle nella memoria dovute alla vecchiaia, o perché semplicemente anche lei si annoiava a riascoltarsi, ma queste storie si arricchivano di particolari sempre nuovi, a volte anche contraddittori, o incongrui rispetto alle versioni precedenti.

La conversazione faticava a decollare, situazione non nuova per me. Esistere, parlare, tutto mi è sempre parso richiedere uno sforzo e un’ispirazione incompatibili con la mia natura pigra e neghittosa. Perciò ho sempre amato il silenzio e la solitudine. Se non fosse per il sesso, direi che potrei quasi fare a meno dell’umanità. Mi limiterei volentieri ai suoi prodotti migliori, l’arte e il pensiero.

Quando era preda della nostalgia, o forse perché mi credeva interessato a sapere di un passato che non avevo mai vissuto, mi raccontava dei bei tempi, quando era nata lei, negli anni venti. Era solita fare la considerazione che allora, durante il ventennio, si stesse molto meglio di oggi, e attribuiva tutto ciò alla grande politica mussoliniana. Non avevo niente da obiettare in merito. Non stentavo a credere che chiunque avesse conseguito risultati più significativi di quella faccia da schiaffi dell’ultimo Premier, insolente e oscena come un sesso scoperto.

Ma pur sempre, da mia nonna dipendeva la mia tranquillità emotiva, o perlomeno le basi per una tale eventualità, dato che, insieme a mio padre, pagava l’affitto del mio bilocale. Senza quello spazio, ne sono certo, sarei diventato matto. Non avrei potuto studiare, o leggere. Mio padre mi avrebbe avuto sempre sotto le sue grinfie. Non oso immaginare, anche se lo so bene, cosa sarebbe stato scrivere un testo con quello pronto ad approfittare di ogni occasione per attaccare bottone e frastornarmi. Era difficile che ritenesse le sue riflessioni così poco importanti da non doverne rendere partecipe qualcuno. Abitualmente, il malcapitato era sempre il più vicino, cioè io. È terribile avere a che fare tutto il giorno con una persona, se questa non ama leggere, o non è immensamente impegnata; non le ci vuole molto per veder nascere in sé l’ardire di rivolgervi la parola.

«Come procede il lavoro all’università?», mi chiese mia nonna. Ci teneva molto a vedermi sistemato. Io un po’ di meno. Non avere una posizione precisa nella società, era l’unico senso di avventura che la vita mi lasciasse ancora. Potenzialmente sarei ancora potuto diventare chiunque, rivelarmi un genio, un artista, un esploratore. Dentro di me, sapevo bene che si trattava solo di idiozie e stronzate.

«Più o meno... Sto scrivendo». Non avevo proprio l’aria di uno entusiasta e convinto e, infatti, non lo ero.

«Posso dirti una cosa, figlio mio? Ma non offenderti, ti prego».

«Certo, dimmi pure».

Inutile cercare di impedire agli altri di esprimere un giudizio su di voi, tanto lo faranno comunque.

«Delle volte, non mi sembri neanche figlio di tuo padre. Lui si industriava in tutto, faceva mille cose, trovava costantemente soluzioni, modi per fare due soldi. Tu hai quest’aria mogia...». Una smorfia di commiserazione mista a spregio le increspò il volto. Ma era vero, avevo un aspetto fiacco, a vedermi facevo cascare le braccia. Mangiare un piatto di spaghetti, o stendermi e morire, erano cose che avrei fatto con lo stesso slancio.

«Non so che dirti, forse hai ragione. La maggior parte delle volte, mi manca la voglia. Mi sento sempre stanco. La vita mi annienta...». Me lo lasciai sfuggire, poi mi morsi la lingua, anche se avevo detto la verità.

«Non ti seguo», mi disse mia nonna inquieta e perplessa.

«Lascia perdere», dissi io, cercando di chiuderla lì.

«Ma pensi di farcela a diventare un docente?».

«Non lo so, ma non credo. È più probabile che lo diventi Marianna, la mia collega. Lei sì che arde di passione per la sociologia. Non altrettanto potrei dire di me...».

«Perché non sposi questa ragazza? Se dovesse diventare docente universitaria, potreste avere una bella vita, no?».

«Lei vorrebbe, diciamo che credo sia il suo massimo desiderio, ma...».

«Ma cosa, figlio mio? Non vuoi una vita tranquilla ed economicamente sicura?».

«Nonna, quella ragazza non mi piace. Voglio dire, è una brava ragazza e tutto quello che si vuole, ma non la desidero. Non la amo e...», stavo per dire che non sentivo la benché minima voglia di scoparmela, ma riuscii a risparmiarmi dal fare una simile considerazione di fronte alla vecchia.

«L’amore, l’amore!», esclamò lei, come se stesse richiamando a sé tutta la sua saggezza. Sentivo che stava per avvicinarsi il momento in cui avrebbe fatto una grande rivelazione che in teoria, nella sua ottica, avrebbe dovuto aprirmi una nuova finestra sulla vita. «Secondo me, figlio mio, sei troppo preso dalla questione delle donne per diventare un vero uomo. Cercatene una al tuo livello, laureata e ambiziosa. L’amore verrà!».

Bene, eravamo allo sfacelo più totale. Era evidente che anche mia nonna mi voleva infelice. Sarei morto pur di non dover scegliere la combinazione infelicità e stabilità economica con Marianna.

«Comunque, se la cosa può farti piacere, la dovrei vedere anche stasera...».

«Che vuol dire quel anche?».

«Ha dormito un paio di volte da me...».

Delle volte mi rendevo conto di essere troppo schietto con la vecchia, ma mi sembrava un atto di bontà, coi miei racconti, metterla a parte di queste storie per lei tanto pruriginose. Altrimenti, avrebbe passato tutto il suo fine vita a rimuginare sulle sue poche noiose storielle dell’infanzia.

«Eh!», esclamò mia nonna e vidi il suo sguardo perdersi nelle brume del ricordo, «Ai miei tempi, queste cose non sarebbero mai potute succedere, non prima del matrimonio...».

«Tralasciando, senza offesa, i tuoi tempi, sappi che abbiamo solo dormito insieme».

«Non ti credo, neanche se vi dovessi vedere!».

«Dico sul serio, nonna!», la vecchia era piuttosto smaliziata, tendente a vedere il male ovunque. «Mi ha portato la cena, perché non stavo molto bene. L’ho costretta a bere un bicchiere e lei si è addormentata».

«Quante volte è successo?».

«Due».

«E per due volte, tu hai dormito con una donna senza...?».

«Lo giuro!».

«Che razza di uomo sei, figlio mio?! Mai sentito di un uomo che dorme con una donna, senza...».

«Nonna, non mi piace...».

«Allora, perché l’hai fatta venire a casa tua?».

«È lei che ha insistito, quando ha saputo del mio stato...».

«E tu non hai saputo neanche ringraziarla?».

«NONNA!», gridai con una voce indispettita che mi dava l’aria e il tono della checca.

«Dilla una cosa a nonna...».

«Sentiamo».

«Non sarai mica uno di quelli... com’è che si chiamano...?».

«Gay?».

«Sì, insomma, uno di quei pervertiti...».

«Nonna, ma quando mai! Ti ho solo detto che questa ragazza non mi piace...».

«Continuo a non capire perché tu ci debba uscire stasera...».

«Errato. Non dobbiamo uscire, devo andare a cena da lei...».

«Peggio, figlio mio! Che ci fai, se non hai intenzioni serie?».

«Non mi piace dispiacere a quella povera ragazza».

«Attento a non metterla incinta, se non sei sicuro...».

«Nonna, stai serena, so il fatto mio».

«Speriamo bene! Comunque il mio consiglio è di cercarti una donna e sistemarti. Il resto si metterà a posto da solo».

Non dissi niente. Continuammo a mangiare in silenzio. Alla fine mi parlò della morte di mio nonno, una storia che conoscevo a memoria, tanto che mi sembrava di averla vissuta con lei, o di essere io il povero estinto. Mi ricordò delle sue ultime parole su questa terra: «C’è da ritirare la pensione». Era un racconto superbo per accompagnare il caffè di fine pasto.