Quella sera mi telefonò anche Carlo. Espresse con voce stanca il desiderio di uscire nuovamente insieme, diceva di non avere niente da fare. Strano! Praticamente, anelava a persistere nel suo stato di inoperosità abulica con me come suo sodale. Davvero un pensiero gentile.
«Non ti ricordi che ho promesso a Marianna di incontrarla?».
«Ok, ma siccome non ti piace, pensavo potessi disdire...».
«Ne morirebbe, poveretta».
«Sei sicuro?».
«Ti ringrazio, ma dobbiamo rimandare».
«Come preferisci».
Chiudemmo la conversazione con la promessa di sentirci per la settimana seguente. L’idea era quella di andare a un Cupido party, in un locale: una di quelle serate in cui si va, tutti vanno, col preciso intento di rimorchiare. Una ragazza passa tra i tavoli, una Cupido girl. Tu le passi un messaggio scritto su un foglietto e lei lo consegna alla tizia che le indichi. Non ci sono dubbi, quella descritta è una situazione tesa e angosciante, oltre che patetica. Ma avrei atteso con ansia di potermi buttare nella mischia. Se non altro, ero curioso di vedere facce di donne disperate quanto noi, disposte ad andare in un luogo pubblico con l’intento palese di essere rimorchiate. Donne così coraggiose, o forse derelitte, da ammettere coram populo di essere state accantonate e ridotte alla solitudine più assoluta dall’universo maschile.
Passai a comprare una bottiglia di rosso, onde evitare di presentarmi a mani vuote a casa di Marianna. Erano giorni che non scrivevo più per il mio progetto. Mi sembrava evidente che avrei dovuto abbandonare tutto e buttare il mio avvenire in un cestino della spazzatura. Non avevo niente da dire, ero superfluo. Il mondo avrebbe potuto solo guadagnare qualcosa dal mio silenzio. Peccato che il resto delle persone non prendesse il mio esempio come principio di massima.
Prima di muovermi, ripensai all’ultima donna con cui avessi avuto a che fare a livello genitale e affettivo, Mireille, una studentessa Erasmus di nazionalità francese che avevo conosciuto subito dopo aver ricevuto il mio incarico di assegnista. Una bionda molto alta, più di me, e bella sostanziosa. Una donna col vizio di raggiungere l’orgasmo molto in fretta e decisamente contraria a quello che io amo maggiormente, ovvero i rapporti sessuali prolungati fino allo sfiancamento. Ricordavo distintamente i suoi capelli dorati, di un biondo fragile ed evanescente. Durante il periodo di tre mesi che trascorse con me, prima del suo ritorno a Parigi, le chiesi di lasciare che i peli della sua vagina crescessero liberamente. Lei si ostinava comunque a rasare le labbra, mantenendo solo quelli situati più in alto nella zona sovrastante. Era una ragazza la cui natura si bagnava in modo spropositato, fin quasi a schiumare. Le volte che dormivamo e ci alzavamo insieme, era solita prendere una doccia, alla fine della quale ero io ad asciugarle i capelli col phon. Poco dopo, passavo anche all’asciugatura dei sui peli pubici. Erano momenti di grande serenità e tenerezza tra di noi, che ricordavo sempre con grande dolcezza. Come le notti trascorse a fare dei lunghi sessantanove. Faccio notare che, malgrado fosse francese, quindi aliena alla pratica italiana del bidet, aveva comunque l’abitudine di farsi diverse docce durante la giornata. Credo che anche questo abbia garantito la stabilità del nostro rapporto, prima dell’inevitabile separazione.
Arrivai a casa della mia collega, come stabilito, alle sette, per l’aperitivo. Mi aprì un secondo dopo che ebbi suonato. Doveva essere attaccata al citofono. Già la immaginavo, a struggersi pensando “e se non dovesse venire?”, “e se all’ultimo decidesse che non vuole vedermi?”. Mio Dio, che infinito strazio che è la vita, un niente ci tiene sulle spine per giorni interi, e, alla fine, anche incontrare il sonno diventa un’impresa, rilassarsi, un’utopia. Salii il primo gradino dispiacendomi per me e per lei: c’eravamo spinti troppo oltre.
La trovai sulla porta e non so cosa mi trattenne, ma sarei corso via, se avessi badato alla sensazione di sconcerto che mi prese. Mi trovai davanti, con un freddo artico fuori, Marianna acchittata come una puttana di quelle che battono nelle case di appuntamenti. Doveva aver richiesto l’aiuto di un consulente d’immagine. Indossava degli stivali alti fino alle ginocchia, collant neri semitrasparenti, minigonna (e non osai immaginare cosa portasse sotto, ma sicuramente si doveva trattare di un perizoma), top aderente nero e reggiseno push-up. Rimasi vittima di una paresi per qualche istante.
«Beh, come sto?».
Ma davvero una persona può ridursi a quel modo per meritarsi l’amore di un altro, per di più col rischio di fallire miseramente nel suo proposito?
«Bel-bellissima, come sempre», le risposi con balbettio zoppicante e incerto.
Sorrise compiaciuta come una bambina nel suo costume di carnevale. Non era certo il mio caso, ma qualcuno riusciva a convincersi anche delle cose più incredibili; per ciò che la riguardava, lei probabilmente credeva a quello che le avevo detto e pensava che io la ritenessi attraente. Quanto mi dispiaceva essere andato, averla illusa così!
«Entra, tesoro».
Feci i pochi passi necessari e poi mi sentii circondare il collo dalle sue braccia. Doveva essere sulle punte dei piedi per guardarmi così, dritto negli occhi. La considerai attentamente per un attimo. Per fortuna, non mi aveva chiesto di uscire, altrimenti avrei dovuto rendere pubblica la mia sfiga.
Si era anche truccata, cosa che non era solita fare quando si recava in facoltà. Non aveva fatto un cattivo lavoro, o forse si era rivolta a un make-up artist. La sua bellezza non ne risultava, a ogni modo, accresciuta. Continuava a non avere culo e tette, e la sua magrezza faceva senso. Era riuscita solo a rendersi ridicola e clownesca. Mi dispiacque profondamente di essere la causa del suo degrado. Mi sentivo in dovere di chiederle scusa.
«Io...», le dissi, indeciso sulle parole da usare.
Si mosse lentamente verso di me con la testa. Doveva essersi fatta una scorpacciata di melensi film sentimentali e stava cercando di imitare le movenze di qualche attrice, al fine di risultare suadente. Mi schioccò un bacio lento, ma non profondo, sulle labbra. Pensai che, nella sua testa, desiderasse farsi gustare lentamente, in un paziente gioco di seduzione. Mio Dio, aveva un piano per conquistarmi! Ero proprio un uomo finito!
Ci sedemmo in un piccolo soggiorno. Anche Marianna disponeva, come me, di un minuscolo bilocale, un posticino carino e ordinato con ogni cosa al suo posto.
Stavamo su un piccolo divano. Non appena ebbi occupato la mia seduta, lei andò in cucina. Tornò con in mano una bottiglia di birra da sessantasei, due bicchieri, e una ciotola di patatine. Ammetto che, per certi versi, aveva fatto dei grandi progressi, ma nel complesso la situazione che si andava delineando era, suo malgrado, un’ecatombe.
Si chinò audacemente sul tavolino da caffè, per posare quello che aveva portato, cercando di farmi scodinzolare davanti il suo culo fasciato dalla minigonna. Purtroppo per lei e per me, non riuscivo a trovarla neanche vagamente sexy. Eppure, mi si creda sulla parola, avrei tanto voluto che la mia vita si risolvesse in quella maniera così semplice e facilmente accessibile.
«Come va la scrittura del tuo lavoro, Marianna?», le chiesi, tanto per sviare un po’ da quella situazione che si stava facendo decisamente opprimente. Presi una patatina e mi ritrovai l’indice della mia collega sulla bocca.
«Shh! Per oggi, niente sociologia. Abbiamo altro a cui pensare».
Quei suoi propositi voluttuosi mi mandarono nel panico e lei accelerò il mio stato ansioso posandomi le gambe fasciate dagli stivali di pelle in grembo. Mi sorrise con aria da marchettara consumata. Doveva essersi studiata la parte per ore, cercando di fare il verso alla postura e alle mosse sapienti di Julia Roberts in Pretty Woman.
«Ti spiacerebbe, se mi togliessi le scarpe? Sono un poco impegnative da portare, sai com’è».
«Certo, fai pure, ci mancherebbe».
Palesemente e com’era naturale che fosse, quella situazione posticcia cominciava a sgretolarsi e a perder pezzi. Rimise i piedi dove erano in precedenza. Bevevamo guardandoci. Stavo seriamente valutando la possibilità di prendermi una colossale sbronza, così magari sarei riuscito a passare all’azione. In condizioni normali, se una donna, da cui fossi stato anche solo vagamente attratto, si fosse dimostrata così disponibile, le sarei montato addosso in pochi istanti, saltando a piè pari i passaggi dell’aperitivo e della cena. In quel frangente, al contrario, avrei voluto prolungare il momento della convivialità per l’eternità.
Iniziò a sfregare i piedini ossuti sul mio pacco. Io rimasi immobile, con lo sguardo assente a fissare di fronte a me.
«Si sta molto bene qui», le dissi, tanto per dire qualcosa.
«Puoi venirci quando vuoi. Anzi, se preferisci, ti ci potresti pure trasferire. Immagino quanto ti possa sentire solo nel tuo appartamentino, senza una donna e neanche un famigliare. Anche io mi sento sola qui...».
«Ho sempre amato la solitudine».
«Ah!», esclamò contenendo dignitosamente il colpo. Nel mentre, il suo piede continuava a massaggiarmi il pene, senza sortire alcun effetto. Mi sembrò addirittura che tendesse a ritrarsi. L’avevo messo nella peggiore posizione della sua vita.
Poi, Marianna attaccò con le sue solite moine infantili.
«Me lo merito un bacino, per aver organizzato questa serata?».
«Certo, certo», le risposi e mi accostai per posarle un bacio sulla guancia.
Lei deviò la mia testa e mi baciò. Questa volta usò la lingua. Niente di troppo bavoso. Potevo sopportare. Mi attirò a sé. Fui costretto a stendermi sopra di lei, sul divano.
«Non sai da quanto aspetto questo momento», mi sussurrò all’orecchio.
Lo immaginavo sì, ma non mi azzardai a dire niente. Non mossi un dito per toccarla.
«È molto tenera la tua timidezza», mi disse, accarezzandomi la schiena.
Povera femmina! Non poteva sapere che generalmente sono un porco, anzi sempre, ma non certo con lei.
«Ti va di fare l’amore prima di cena?», continuò a sussurrarmi all’orecchio. Cominciai a spaventarmi sul serio. «Possiamo farlo, adesso e anche dopo, tutta la notte, se vuoi». Capivo bene che, coi suoi arretrati, avrei potuto farmela per una settimana che ancora non ne avrebbe avuto abbastanza. Peccato che l’unica cosa che avessi dritta erano i capelli, dal terrore, ma non certo il cazzo.
«Meglio mangiare prima, mi sento un po’ debilitato. Sai, sto spesso male. Ho la pressione bassa ultimamente», dissi con tono accorato. Avevo detto la verità, solo che me n’ero servito come scusa.
«Oh, povero piccolo», mi disse con dolcezza sorellevole, abbracciandomi. «Sei così tenero. Sei bellissimo. Sono così fortunata ad aver trovato un uomo come te». Mio Signore, questa mi avrebbe sposato seduta stante! «Vieni, ti ho preparato una buonissima cenetta».
Si vedeva che era contenta. Mi sentivo una merda. Perché non riuscivo a impormi di aprirle le gambe ed esaudire le sue necessità, almeno per una notte, anche se poi avrei inevitabilmente dovuto deluderla? Nessuno merita di non conoscere mai almeno una breve illusione di felicità. Non riuscivo a chiedere al mio cazzo uno slancio, anche se un po’ faticoso, di altruismo e generosità.
Mi prese la mano e ci alzammo. Mi stava conducendo verso la cucina, quando la fermai. Le presi entrambe le mani. La fissai negli occhi.
«Marianna... Grazie di tutto, sei davvero una brava ragazza».
Vidi le lacrime spuntarle e la baciai. Per fortuna le labbra e la lingua sono strumenti più facilmente controllabili, con cui è più semplice mentire. Era stato molto disonesto da parte mia anche farle credere che gli uomini desiderassero le brave ragazze, ma lo facevo a fin di bene.
Quando entrammo in cucina, la vidi più serena e rilassata. Insisteva nel tenermi la mano.
«Ti ho fatto gli spaghetti alle vongole e la tagliata di manzo. Spero ti piacciano».
Se non erano perfette le sue pietanze, poco ci mancava. Era davvero brava in cucina. Non so se ispirata dalla musa dell’amore, ma non dava minimamente l’idea di essere una delusione in quel campo. Povera ragazza, era perfetta sotto tutti i punti di vista, tranne sul lato sensuale. Io stavo sempre peggio. Masticavo triturando i miei sensi di colpa. L’amore era una creatura così crudele, non conosceva alcun tipo di principio meritocratico. Un’altra, che mi avesse presentato una cena del genere, l’avrei ringraziata scopandomela senza pietà sullo stesso tavolo di cucina, senza neanche arrivare nella stanza da letto. Avrei davvero voluto, in quel momento, essere un individuo migliore, ma non c’era niente da fare, non riuscivo ad avere un’erezione.
Quando servì il caffè, mi si sedette in grembo. Era così soddisfatta di essere una donna a tutti gli effetti, per la prima volta nella sua vita, e io riuscivo solo a pensare che presto le avrei rovinato quella nuova immagine di sé che tanto faticosamente aveva cercato di costruirsi.
«Ho voluto farti una sorpresa, oggi. Ma ho vergogna a dirti di che si tratta. È una cosa nuova anche per me».
«Parla tranquillamente, Marianna, siamo tra di noi».
Mi mise la testa sulla spalla. Parlò piano, sussurrandomi nell’orecchio.
«Ho cominciato a prendere la pillola. So che voi uomini non amate il preservativo e volevo che fosse speciale, la prima volta. Sai, per me, è la prima volta in assoluto». La vidi mettersi le mani sulla faccia. «Scusa, me ne vergogno tantissimo, ma non sono mai stata con un uomo».
Non dissi niente. Era un momento di grande tristezza che sapevo sarebbe arrivato prima o poi. Intanto, il mio uccello non accennava a voler reagire attivamente a quella situazione, in teoria, eroticamente così singolare. Per la prima volta nella mia vita, l’idea di deflorare una donna mi lasciava indifferente come la lettura di un testo di biochimica.
Mi feci coraggio e presi a baciarla sul collo. Le accarezzai le cosce. Per un istante, credetti di potercela fare e prolungare la mia pantomima per quel tanto che sarebbe bastato. Avevo quella che io chiamo una mezza erezione moscia, che non è un ossimoro, ma una disperata realtà. L’avrei sverginata, se ci teneva tanto che fossi io a fare di lei una donna. Non avrei potuto seguirla oltre, ma ci tenevo a ristabilire una misura di giustizia nella sua ingrata vita.
La presi in braccio e la portai verso la camera da letto. Aveva proprio pensato a tutto. C’erano due abat-jour, già accese, che creavano molta atmosfera. Le lenzuola erano blu scuro. Facevano molto amanti appassionati e notte di sesso. La sua stanza da letto era proprio ideale per un incontro a due, intimo e voluttuoso. Eppure qualcosa mancava. È proprio vero che la perfezione e lo sfacelo sono gemelli: ci vuole un niente per passare dall’una all’altro. La distesi delicatamente sul letto. Ero ancora molto a disagio, come sempre mi capita in queste situazioni. Se mi guardo dall’esterno, c’è il rischio che mi percepisca come il maschio più ridicolo e fuori luogo dell’universo.
Mi misi su di lei e la baciai per buoni due minuti. Il mio sesso era tornato allo stato di apatia erettile. Ero così abituato a vivere nell’indifferenza emotiva e non mi sembrava strano che il mio corpo rimanesse comunque avvolto nel torpore. Cominciavo ad avere quella che si suol chiamare ansia da prestazione.
Le sfilai i collant. Non aveva avuto torto la mia immaginazione in precedenza: indossava davvero un perizoma. Nero, di un ottimo tessuto. Peccato che anche quell’elemento mi fosse risultato ininfluente. Le tolsi il top. Era completamente piatta, nonostante l’assurdo push-up imbottito, che avevo già intravisto, quasi certamente comprato per l’occasione, ma che tuttavia, alla resa dei conti, non poteva mascherare la realtà dei fatti. Marianna aveva il petto di un maschietto di tredici anni non ancora formato. Mi sentivo disperato. Lei, nel mentre, mi sbottonò la camicia e prese ad accarezzarmi il petto. Vi si avventò con la bocca, come se fossi stato io quella con le tette e lei l’uomo. In effetti, sporgevano più da me di quanto non facessero da lei.
Prese la mia mano e se la mise nelle mutande. Si era rasata completamente. Le aveva tentate proprio tutte per compiacermi. La sfiorai con un dito sulle grandi labbra e gridò.
«Marianna? Che succede?».
«Continua, è bellissimo. Non l’avevo mai provato».
Grondava umori come un tubo dell’acqua con una perdita. Praticamente nuda, la mia collega mi rovesciò a pancia in su e prese a slacciarmi la cinta e ad aprirmi i pantaloni con mani affamate e nervose. Potrete immaginare il suo senso di disfatta, quando mise a nudo quel lombrichino striminzito che sembrava un pezzetto di carne scartato dalla lavorazione di qualcosa di grosso.
«Scusa», le dissi con tono mortificato, «è la pressione, te l’ho detto, sono un po’ debilitato. Il medico mi ha detto che dovrei prendere le gocce. Potrebbe volerci del tempo».
«Tranquillo», mi disse e prese a masturbarmi. Qualunque individuo si sarebbe arreso di fronte alla manifesta opposizione e avversità che la circostanza gli opponeva, ma non lei. La sua mano continuò a muoversi con pazienza e indomita perseveranza. Alla fine, con mio grande stupore, mi prese in bocca. Avevamo proprio toccato il fondo. C’eravamo spinti fino alla reciproca umiliazione. Si industriò in ogni modo. Lavorò di lingua. Mi guardò negli occhi, cercando di eccitarmi e chiedendomi al contempo di essere pietoso nei suoi confronti. Brutta accoppiata, non c’è che dire. Non lo fece male, ma il mio cazzo continuò a rimanere quello di un bambino nato prematuro. Avevo fallito miseramente e alla fine si dette per vinta anche lei.
La vidi sbattere i pugni sul materasso come se volesse ammorbidirlo. Conoscevo bene la sua sensazione: frustrazione. Io e quest’ultima avevamo una lunga storia di frequentazioni.
Iniziò a piangere. Alla fine, il disastro era arrivato e non mi ci potevo più sottrarre.
«Marianna», le dissi, senza sapere neanche io cosa aggiungere per attutire la percezione comune di squallore, detrimento, e assenza totale di dignità. Avrei voluto per lei e per me che, almeno, ci ricomponessimo.
«Io», cominciò a blaterare tra le lacrime, «ho fatto di tutto. Sono pure andata su internet a vedere i film porno, per cercare di capire cosa piaccia a voi uomini. Massimo?».
«Sì, Marianna».
«Non ti piaccio?».
«Non è così, è che...».
«Massimo?».
«Marianna, ti prego, vieni qui».
Mi dette retta. La feci sdraiare sul letto accanto a me. Continuò a piangere sommessamente. La comprendevo perfettamente. La vita è triste, priva di soddisfazioni, l’amore è un inganno, almeno per quelli come lei e me. Tutto quello che resta è la ricerca di un lavoro sicuro in un campo che non ci interessa, ammesso che lo si trovi, e che ci consenta di vivere salvi dalla miseria fino al momento di morire.
«Non ce l’avresti fatta, anche se non per amore?», mi chiese lei.
«Credo di no, Marianna. Scusami, non è colpa tua».
«E allora di chi è?».
«Non lo so».
Il suo pianto ebbe una recrudescenza. Nessuno di noi aveva colpe, eppure ero affranto al pensiero di non essere riuscito neanche a far finta di coronare il suo sogno di felicità misero e illusorio.
«Posso restare a dormire?», le chiesi.
Questa volta fu lei a non dire niente. Spostò un po’ di lenzuola e vi entrammo sotto. La strinsi a me, mentre continuava a piangere sempre più piano. La cosa andò avanti per almeno un’ora. Le accarezzavo i capelli.
«Sei una brava ragazza, Marianna», le dissi. Era davvero una magra consolazione, per l’assenza di gioia e appagamento. Una considerazione proprio stronza.
Alla fine mi addormentai, nudo nel suo letto, e credo si sia addormentata anche lei.