In capo a un mese, la mia vita cambiò in tutto e per tutto. Abbandonai definitivamente il progetto universitario. Non scrissi più niente. Non tornai neanche in facoltà. Spedii una lettera molto semplice e stringata al Carlini, definendolo un miserabile e gretto scribacchino incapace, nel cui operato di un’intera vita non si riscontrava la presenza di un solo rigo in grado di suscitare un briciolo di stupore intellettuale. Precisai che avrebbe fatto meglio a suicidarsi lui al posto di Marianna. A tutto ciò, aggiunsi le mie dimissioni irrevocabili. Sotto un formale “Distinti saluti”, apposi in calce la mia firma. La mia schiavitù era finita. Avevo deciso di mettermi in proprio. Non sarei più stato lo schiavetto di nessuno, facendo qualcosa che non mi piaceva. Volevo solo avere il tanto per vivere in pace, ritirato il più possibile. Sarei uscito solo per lavorare, poi sarei tornato a casa e avrei aspettato anche io la morte, come tutti.
Andai sulla tomba di Marianna, una di quelle mattine di pausa che avevo deciso di prendermi, prima di iniziare con la mia nuova vita. L’avevano chiusa in un loculo proprio insignificante, in alto, su uno dei muri perimetrali del cimitero. Presi la scala e salii fino al posto in cui aveva preso dimora. La foto scelta dai genitori era davvero oscena. Quel sorriso le dava un’aria senile, di decomposizione avanzata. Era l’esatta immagine di una persona inadatta a questo mondo, una donna con delle eccezionalità inutili a renderla amata, felice, vincente, accettata. Era comunque fatta, oramai: la vita era finita. Non c’era stato calore, corrispondenza di amorosi sensi, né gioia per lei. Nessuno le avrebbe mai riempito il ventre di sperma, urlando di piacere – cosa che, mi azzardo a dire, a rischio di risultare semplicista, è una delle poche cose a poter conferire un senso all’esistenza terrena di una femmina, per quanto avvezza possa essere la sua mente al ragionamento astratto e alle vette della riflessione. L’assurda inutilità dei suoi sforzi giaceva lì carbonizzata e irrilevante. Ovviamente, chiedersi il senso di tutto ciò sarebbe stato sgradevolmente ozioso e ingenuo.
Avrei voluto dirle qualcosa, ma non ci riuscii. Non credevo potesse sentirmi. Ebbi la netta percezione, con annessa visione, di lei ridotta a un minuscolo pugnetto di polvere sordo e muto. Avrei volentieri preso le sue ceneri per portarle con me, ma non ebbi il coraggio di profanare la sua tomba. Non potevo farle anche questo.