Nelle settimane che seguirono mi lasciai andare, secondo un piano ben preciso. Non fu poi tanto laborioso. Bastò lavarsi il meno possibile. L’impatto visivo era ciò che contava maggiormente nel mio nuovo lavoro. Comprai poi del carbone che, usato ad arte, poteva dare alla mia pelle la sfumatura più adatta, quella della disperazione assoluta. Mi cercai un bell’angolo di strada ancora non coperto da gente di colore, o immigrati irregolari dell’Est Europa. Per quel che riguarda i vestiti, non ebbi bisogno se non di un vecchio cappotto e alcuni logori pantaloni in velluto. Mi lasciai crescere la barba senza mai curarla. L’effetto fu incredibile, molto commovente. Feci alcune prove in casa. Allo specchio stentai a riconoscere la mia persona.
Una bella mattina di novembre, mi recai in prossimità di un market frequentato dagli ultimi residui della borghesia facoltosa. Quando si chiede l’elemosina bisogna giocare tutto sul senso di colpa che si accompagna all’agiatezza della gente per bene. Nel profondo di sé stessa, malgrado la vulgata meritocratica oggi tanto in voga, ogni persona che stia bene economicamente è conscia del fatto che la sua prosperità derivi da variabili fortuite e, nella loro essenza, imperscrutabili. Per volgarizzare diciamo che il borghese comprende come, per quanto impegno egli possa aver profuso nel guadagnarsi ciò che ha, deve una buona parte del suo successo alla fortuna. Certo, egli si è recato a lavoro ogni giorno, ha compiuto degli studi in modo solerte e costante, ma è altresì conscio che questo non sarebbe sufficiente a spiegare il suo status di privilegiato. La soddisfazione di questo individuo statistico, generico e ideale, è minata alle sue fondamenta dalla consapevolezza che, in condizioni economiche nazionali, europee, o addirittura mondiali, differenti, la sorte non gli avrebbe arriso allo stesso modo. La miseria, la disoccupazione, lo sfacelo sociale, sono tutte condizioni che ha sfiorato e mancato ogni volta di poco nella traiettoria verso la salvezza e la possibilità di provvedere ai suoi bisogni.
Nell’attività di mendicante, come in qualsiasi lavoro, è importante capire la psicologia di quelli da cui dipende la propria sopravvivenza. Come all’interno di un’università, per farcela, serve recitare la parte del servizievole sguattero che sgrava il docente dalle sue incombenze pratiche e che con gesti cortigiani ne lusinga la vanità ipertrofica, così sulla strada, facendo la questua, è richiesto di agire secondo un certo schema. Colui che dona la monetina esige la visione di una persona umiliata dall’esistenza che gli sia da monito, ricordandogli quanto sia fortunato ad avere un tetto sopra la testa e qualcosa da mettere a tavola; allo stesso tempo, questo individuo deve essere innocuo e immensamente grato. Mi spiego meglio: il questuante deve dare l’idea di non poter costituire una minaccia alla prosperità del benestante. Egli non vuole rovesciare la distinzione millenaria abbiente-povero. Chiede solo supplichevolmente di ricevere qualcosa, ma non desidera per esempio una redistribuzione delle ricchezze in parti uguali tra sé e il suo benefattore su base politica. A lui basta la generosità. La carità è tollerata di buon grado perché non intacca la struttura della società. Essa è priva di ogni radicale pretesa rivoluzionaria: è una domanda ossequiosa, che si rivolge al buon cuore delle persone, senza reclamare un intervento istituzionale.
Per arrivare ad avere successo in questa professione bisogna dimostrarsi vinti e con la volontà annichilita, costretti dalle circostanze, soverchiati dall’esistenza, talmente piegati dalla contingenza da non poter essere altro che dei miserabili mendicanti. Il disoccupato, che si trovava a qualche isolato dal sottoscritto, aveva ancora su di sé un’aria troppo dignitosa. Si vedeva benissimo che si era adagiato in una situazione, che aveva scelto di essere un senza lavoro. Non dava da pensare alla gente di chiedere l’elemosina perché impossibilitato a fare altro. E, inoltre, sembrava soffrire per il tipo di attività che si trovava a svolgere. Accettava l’elemosina con una certa acredine, come se quelli che gli davano le monetine gli avessero dovuto qualcosa. Sbagliato, sbagliatissimo! Non riusciva a esaltarli, a farli sentire dei filantropi. Troppa invidia sociale nel suo sguardo. Da lui, i caritatevoli si sentivano giudicati. Chi dona ha bisogno di vedersi come un altruista e non come un bastardo fortunato. Ecco spiegato perché, tra il mio e il suo incasso, a fine giornata, ci fossero diverse decine di euro di differenza.
Devo dire che è divertente farsi beffa degli altri chiedendo loro soldi. Quello dell’accattone è un mestiere spassoso, ha dell’ironia sottesa. Ricevevo denaro per non fare niente, unicamente perché la mia presenza ricordava ad alcuni di essere stati favoriti dalla sorte. La cosa buffa è che loro credevano che io facessi ciò perché spinto dalla fame. In questo senso, il mio fisico magro mi aiutava. Il disoccupato che stava vicino a me, invece, era grasso e ciò non deponeva bene. I grassi non simulano bene la fame, hanno il problema di non risultare credibili. Io, al contrario, per questo ruolo sembravo tagliato alla perfezione. In fin dei conti, ero un caratterista perfetto. Quando ricevevo la moneta, dentro di me sorridevo pensando “se l’è bevuta”. Non potevo sghignazzare, non esteriormente almeno, ma lo facevo senza farmi notare. Avevo proprio trovato la mia strada, non c’è che dire.
Mio padre si arrischiò a chiedermi cosa stessi facendo. Non avevo potuto nascondergli di aver abbandonato l’attività all’interno dell’Università.
«Ho mollato l’Università!», gli dissi fieramente.
«Per fare cosa?», mi chiese lui, decisamente perplesso.
«Ho trovato un altro lavoro. Che ti importa? Adesso, mi pago l’affitto da solo».
«Vorrei capire cos’hai intenzione di fare del tuo futuro».
«Non so, per il momento mi va bene avere dei soldi. L’unica scocciatura è che devo pagare tutto, al supermarket, anzi ovunque, portandomi dietro un sacco di monetine...».
«Spiegati meglio, non capisco».
«Niente. Mi pagano in monetine prevalentemente».
«Tu sei matto, ragazzo, lo sai?».
«Non rompere. Non ho bisogno del tuo aiuto, adesso. Non puoi più supervisionare ogni mia mossa».
«Come preferisci. Ma vorrei sapere cosa fai».
«È un lavoro sicuro, punto e basta!».
«Non ti capisco, figlio mio. Comunque, sappi che, finché sarò vivo, potrai contare su di me».
«Grazie, papà».
«Spero solo che, averti mandato a studiare, sia servito a qualcosa».
«Oh, puoi giurarci! Lo studio mi è servito a capire le persone, quel che vogliono, e come darglielo facendole sentire importanti».
Devo dire la verità, la prima volta è difficile tendere la mano, ma poi ci si abitua. Alla lunga, ogni nuova condizione diventa consueta. Lavorare normalmente, o chiedere l’elemosina, sono solo abiti mentali che bisogna imparare ad accettare.