Il padre

Quella notte sognai mio figlio. Quella notte realizzai, dopo anni, di essere padre. Al mio risveglio, l’odore mefitico del posacenere, sul comodino, mi soffocò. L’aria era satura, ma non avevo voglia di alzarmi per aprire la finestra. Una bottiglia di vino bianco mezza vuota era rimasta aperta, in prossimità del letto. Sicuramente si era inacidito e l’alcol evaporato. Non ebbi il coraggio di provare ad assaggiarlo. Quella di rosso invece era vuota e inutilmente tappata. Il letto su cui giacevo era sfatto, le lenzuola lasciavano intravedere il materasso in più punti e puzzavano di sudore, del peggiore, quello di chi ha bevuto. Il resto della stanza era un bordello, sporcizia ovunque. Mi guardai le unghie dei piedi. Erano lunghe e sudice. Non so da quanto non le tagliassi, ma era una di quelle cose che mi passava sempre di mente, oppure, quando me ne ricordavo, non avevo mai un tagliaunghie a portata di mano.

Non sapevo che faccia avesse il bambino. Quanti anni prima l’avevo fatto? Non lo ricordavo. Il tempo passava, ma per me esisteva solo l’oggi. Non sapevo contare il tempo. Non sapevo niente degli anni. Ogni avvenimento era remoto, oppure odierno, il che significa o perso nel passato, o appena accaduto. Per il resto, non facevo programmi che andassero più in là dell’arco temporale che intercorre tra la sera e la mattina.

Provai a concentrarmi. Forse, ma non ne ero sicuro, poteva esser stato quattro, cinque anni prima.

Pensai fosse arrivato il momento di vederlo. Avevo un’improvvisa curiosità per lui. Mi chiedevo se mi assomigliasse. Sperai con tutto il cuore che non fosse così. Come avrei potuto contattare la madre? Non sapevo più niente di lei. Non che ne avessi saputo molto neanche prima. Quel bambino era stato uno sbaglio, capitato per caso. Era la vittima di una nostra distrazione, di un momento di superficialità e leggerezza. Della madre, a parte il lavoro e altre futili quisquilie, non ricordavo granché. Ci eravamo detti lo stretto indispensabile in un paio di serate passate seduti al tavolino di un locale. La birra e l’allegria della notte avevano fatto il resto e tanto era bastato. Eravamo stati semplicemente felici e incoscienti.

Era stato concepito credo su una vecchia Punto nera che poi avevo rivenduto, quando le cose avevano cominciato ad andarmi male. Non avevo più benzina nel portafogli. E mi ero dovuto sbarazzare di tutto il possibile.

Qual era il suo nome? Non conoscevo nemmeno il nome di mio figlio. Lei mi aveva chiamato una sera, tempo dopo. Mi aveva detto: «Sono incinta». Io non avevo risposto nulla, mi ero limitato a registrare la notizia, senza grande emozione. Aveva parlato quasi solo lei. Mi aveva chiesto se fossi interessato all’idea di diventare padre. Avevo esalato un sospiro poco convinto. In realtà avrei voluto dirle che non riuscivo nemmeno a concepire una cosa del genere, tanto era distante dai miei pensieri. Si era arresa presto, mi aveva detto: «Allora, ciao», con tono spento e scevro da speranze. Avevo salutato a mia volta, poi il pensiero era defluito velocemente dalla mia mente. Forse aveva abortito, mi dissi, ma qualcosa come un brivido continuava a percorrermi la pelle dicendomi che non doveva essere andata così. Probabilmente, lei sperava solo di rimanerci incastrata in una situazione simile, per poi cogliere la palla al balzo e provare a far la madre. O magari, trovatasi di fronte a quella possibilità, le era semplicemente sembrato giusto accogliere l’offerta del destino.

Indossai una camicia, quella che mi sembrò meno lisa. In ogni caso facevano tutte pietà da quanto erano grossolane e di pessima fattura. I pantaloni non erano stirati. Mi si chiudevano a stento, tesi dalla pancia. Non avevo voglia di farmi la barba. Facevo schifo a vedermi, lo sapevo. Poco male, avrei tenuto a distanza gli altri.

Aprii il frigo e tirai fuori la bottiglia. La mattina cercavo di limitarmi: il bianco mi sembrava più leggero e in più era l’unico vino che si potesse realmente bere fresco, senza che si alterasse. Tracannai a garganella. Da un po’ di tempo avevo scoperto di non tollerare i bicchieri, soprattutto perché non mi andava di lavarli. Mi sentii subito meglio. Chiusi la porta e uscii. La musica dance che proveniva dalla casa di quel figlio di puttana del mio vicino mi entrò nel cervello. Avevo già bisogno di un Aulin, dannazione! Sulle scale vidi la scritta fatta a pennarello che stazionava da prima che arrivassi qui e prendessi casa in affitto: STRONZO.

Il posto in cui mi aveva detto di lavorare esisteva ancora, EuroCondomini. “Che nome del cazzo!”, pensai. Non sapevo se mi avrebbe risposto lei, ma non avevo idea di dove altro andare. Si trattava della mia unica possibilità. Provai a spingere delicatamente, ma era chiuso dall’interno. Suonai il campanello. Sentii dei rumori, qualcuno si approssimava alla porta. Arrivò a passi veloci, la testa bassa a leggere un documento stampato su fogli A4. Quando fu alla porta, sollevò il viso e mi vide. Ci guardammo. La sua fronte si contrasse, lo sguardo si fece algido e doloroso. Non dovevo essere una bella visione per lei. Non dovevo avere neanche un bell’aspetto con quei vestiti, la barba lunga e sfatta, bruciata in sottili filamenti bianchi in evidenza sul nero naturale. Aprì la porta.

«Che vuoi?», mi disse con tono duro. Doveva avermi riconosciuto. I cattivi sono i personaggi che si ricordano meglio.

«Ciao. Posso entrare?».

Non rispose, si limitò a mettersi di lato per lasciarmi passare. Avanzai e chiuse la porta dietro di me.

«Vieni», mi ingiunse, sempre senza nessun atteggiamento amichevole. La seguii in silenzio. Mi guardai intorno. Il suo studio non mi sembrò male, se si esclude la paccottiglia cinese dei pannelli con immagini della Tour Eiffel e di Buckingham Palace. Sembrava sistemata bene. Anche lei non era male. Vestiva roba di classe, molto in tiro, raffinata. Era quasi identica a quando l’avevo conosciuta, se si esclude che appariva un po’ più tirata e con qualche zampa di gallina in aggiunta a graffiarle gli angoli degli occhi.

Entrammo nella stanza dove aveva la sua scrivania e gli scaffali in cui custodiva i diversi faldoni di documenti del lavoro. Era tutto ordinato, cosa a cui non ero decisamente abituato. Prese posto dietro la scrivania, io davanti. Mi sentivo appena angosciato, la situazione era surreale, sembrava un interrogatorio. Non sapevo se cominciare io, o lasciarla fare. In ogni caso, non sarebbe stato facile. Al diavolo, decisi di buttarmi.

Sentii distintamente il campanello suonare.

«Deve essere lui!», esclamò lei, «Vai a nasconderti nel bagno».

Alzai le spalle, come a dire “dove?”. Lei mi fece cenno di seguirla. Aprì una porta e mi spinse dentro.

«Non toccare niente, non aprire l’acqua, non accendere la luce. Ti farò uscire io, quando se ne sarà andato».

Rimasi lì in piedi. La sentii correre verso la porta. I suoi tacchi a spillo picchiettavano come colpi di martello veloci, ma dati senza energia. Un bacio venne schioccato. Dei passi pesanti si avvicinarono lungo il corridoio.

«Come va, stamane?», chiese una voce molto maschia.

«Stressata, amore», la sentii rispondere sospirosa.

C’era dunque un compagno, qualcuno che faceva da padre a mio figlio, che lo manteneva. Era evidente che, del mio sangue in vena, il bambino non avrebbe saputo che farsene, o comunque si trattava di un particolare secondario.

«Hai bisogno di qualcosa?», insistette lui con grande premura.

«Una vacanza», rispose lei e sospirò nuovamente. Dove c’è dell’umanità stanca è sempre un regno di sospiri.

I miei occhi, nel mentre, si erano abituati all’oscurità del bagno cieco. Vidi il cesso, il coperchio era abbassato. Decisi di accomodarmi lì. Tutto sommato sembrava il sedile più consono per me.

«Ho pagato le bollette», disse lui.

«Grazie, amore».

La conversazione era tutta un fiorire di intimità famigliare e incombenze quotidiane.

«Mi spiace che debba essere sempre tu a pagare e io non riesca mai a darti qualcosa per contribuire», disse accorata.

«Non dirlo neanche per scherzo, tesoro. Sei in crisi, ma vedrai che la situazione si riprenderà. Nel frattempo, lasciami fare quel che posso...».

A quanto pare, il principe azzurro, per una donna, dopo una certa età e quando si hanno figli a carico, è quello che ha i soldi per pagare le bollette.

«Mi dai un bacio?», domandò lui dolcemente. Sentii delle sedie muoversi. In che casino mi ero ficcato?! Ero intrappolato in un cesso, come un topo, mentre là fuori la madre di mio figlio riceveva il suo compagno, o marito che fosse.

«Come sta, Mario?», chiese lui, «L’hai portato a scuola? Non ha fatto storie?».

«No, assolutamente, è stato bravissimo, come sempre».

Dedussi che il nome di mio figlio dovesse essere Mario. Pensai solo che fosse un nome del cazzo, da persona comune, che più comune non si può, come una specie di condanna a essere in eterno uno qualsiasi.

Ripiombò il silenzio. Capii che si stavano baciando, poi lei gli disse «Non adesso, ti prego, ho molto da fare. Accompagnami per un caffè.».

«Come preferisci tu, amore».

Li sentii uscire. Non potevo muovermi. Nella tasca della camicia trovai le Chesterfield rosse. Ne accesi una ed esalai. Dio, mi sembrò una boccata di aria pura, dopo aver lavorato in mezzo alla polvere per un giorno intero!

Rientrarono dopo non so quanto tempo. Nel mentre, l’aria del bagno si era fatta irrespirabile. Avevo provato anche ad aprire la porta per avere un ricambio, ma avevo visto una nube tossica addensata e avevo richiuso subito, onde evitare di impestare il locale.

«Allora, tesoro», disse lui, «a che ora ci rivedremo stasera? Aspetta... ma cos’è questa puzza di sigaretta?».

«Non so», la sentii rispondere.

Era angosciante non vedere cosa stesse succedendo là fuori.

«Ma non avrai ripreso a fumare? È da quando ti conosco che non fumi più...».

«Deve essere del fumo che viene da fuori».

«Ma se questo posto è ermeticamente chiuso!», esclamò lui, prima di abbandonarsi a un risolino.

«Sarà il condizionatore. Quando fa il ricambio dell’aria, pesca dalla strada».

«Adesso vado, tesoro. Apri qualche finestra però, mi raccomando».

Sentii i loro passi allontanarsi. Poi, lei tornò.

La porta del bagno si spalancò con violenza. Me la trovai davanti, avvolta in una nube di fumo, come una creatura dell’oltretomba in un film dell’orrore.

«Ti avevo detto di stare qui e non fare niente. Come ti è venuto in mente di fumare in un bagno cieco?».

«Mi annoiavo», dissi io. Era vero e poi non mi veniva niente di più intelligente da dire.

«Signore benedetto!», esclamò animosa, «Vieni via di lì».

Mi alzai dalla tazza e uscii da quel luogo angusto e puzzolente di fumo.

Presi posto sulla sedia davanti alla scrivania, senza aspettare di ricevere l’invito a farlo. Era tempo, per me, di far presenti i motivi della mia visita.

«Stefania...».

«Che vuoi?», m’interruppe bruscamente.

«Vorrei vedere mio figlio, se possibile».

«Non è tuo figlio».

«Come sarebbe a dire? Allora, l’hai fatto con un altro?».

«Non ti è stata riconosciuta la patria potestà...».

«Dannate leggi del cazzo!», berciai, rabbioso.

«E no, figlio di puttana! Non è come pensi tu. Non puoi sbattertene per anni e pensare che tutto sia come avrebbe potuto essere. Troppo comodo...».

«Stai forse dicendo che il bambino non è mio figlio, che non l’hai fatto con me?».

«E quindi? Tu non ti sei mai interessato a lui. Quando ti ho detto di essere incinta, non ne hai voluto sapere...».

«Avevo altro per la testa...».

«Per cinque anni?».

«Sì!».

«Mi spiace, la legge non lo ammette...».

«La legge è sbagliata...».

«Invece secondo me, per una volta, è giusta...».

«Si può cambiare idea...».

«Perché vieni a cercarlo proprio oggi?».

«Ho fatto un sogno...».

«Un sogno? Mai sentita cazzata più grande. Che vuol dire che hai fatto un sogno?».

«Non lo so. Vuol dire che l’ho sognato...».

«Non ti seguo».

«Ho sognato mio figlio...».

«Ma smettila!...».

«Dico sul serio! L’ho sognato e mi è venuta voglia di vederlo...».

«Così, senza motivo, solo per via di un sogno?».

«Vorrà pur dire qualcosa, se l’ho sognato...».

«Cosa, scusa?». Mi guardò incredula.

«Non lo so, ma mi è presa la fissa di vederlo...».

«Tu sei matto! Credi che fare il padre sia la pazzia di un momento? Credi che basti un sogno per dimenticare che sei sempre stato assente nella sua vita?».

«Non ha novant’anni, ha cinque anni, se non ricordo male...».

«Se non ricordo male!... Non sai neanche che età ha tuo figlio e sicuramente ignori anche quale sia il suo nome...».

«Mario».

«L’hai sentito prima, quando Walter mi ha chiesto come stesse...».

«Dunque, il nome di tuo marito, o compagno...».

«Marito...».

«Sia quel che sia... Si chiama Walter?».

«Cosa te ne frega?».

«Niente. Curiosità, semplice curiosità».

«Non sono affari tuoi, comunque sia».

«Potrò vederlo?».

«Non lo so. A guardarti, non mi sembra il caso di presentargli il padre biologico. Ti sei visto ultimamente allo specchio? Non hai una bella cera, lasciatelo dire».

«Non ho più neanche un lavoro, se può interessarti», buttai lì, omettendo che avevo sviluppato una certa passione pericolosa per l’alcol nel frattempo.

«Ma bene! E tu vorresti presentarti a tuo figlio in queste condizioni, una specie di barbone cencioso e che, per di più, non fa niente tutto il giorno?».

«Credo di non essere il solo padre disoccupato...».

«Gli altri, almeno spero, si comportano perlomeno da genitori».

«Non ti chiedo di riconoscermi i diritti e doveri su mio figlio. Ti chiedo solo di farmelo vedere... solo vedere...».

«Sarebbe uno sconvolgimento psicologico troppo forte. Non ti conosce. Lui crede che il padre sia Walter, anche se è comparso solo dopo un anno dalla sua nascita. Ha anche preso il suo cognome...».

«Chiedo solo di poterlo incontrare, per capire che effetto mi fa...».

«Sai che ti dico, no! Tu non sei pentito di quello che hai fatto. Non ti senti uno stronzo per aver abbandonato tuo figlio a sé stesso. Sei solo curioso. Vuoi solo scoprire come è andata a finire la storia, ma non ti frega di niente...».

«Non so cosa provo. Non l’ho mai visto. So solo che è mio...».

«Perché qualcosa o qualcuno sia tuo, te lo devi meritare...».

«Ok, diciamo che non lo merito. Diciamo che ti chiedo un favore: fammelo incontrare».

«Il tuo egoismo è infantile...».

«Allora, forse, tra bambini, io e mio figlio ci capiremo... Lo vai a prendere a scuola?».

«Scordati di venire con me!».

Alle tre in punto, eravamo all’uscita della scuola materna. Abbassai il finestrino e mi accesi una sigaretta.

«Ma sei scemo a fumare dove deve salire un bambino! Scendi subito dalla macchina!».

Aprii la portiera e posai i piedi a terra. Avevo urgente bisogno di un drink. Stavo sudando. Le mani mi tremavano. Mi sentivo ansioso.

Scese anche lei dall’auto. Mi fissò.

«Aspetta qui. Vado io a prenderlo. Gli dirò che sei un amico».

Assentii col capo. Gettai a terra la sigaretta che tenevo in mano e la spensi schiacciandola col piede. Poi, ci ripensai. La raccolsi e la riaccesi. Aveva un sapore schifoso, di asfalto e merda, ma continuai a fumare.

Stefania tornò con un bambino sorridente che la teneva per mano. Non sapevo cosa pensare. C’era un’aria famigliare tra di noi, qualcosa negli occhi, con la differenza che i suoi erano lieti, i miei tristi e lividi.

«Mario, lui è Federico, un collega e un amico della mamma».

Il bambino mi guardò un po’ sorpreso. Non doveva essere abituato a vedere estranei all’uscita dall’asilo.

«Ciao, signore», mi disse.

«Ciao, Mario», gli risposi, sentendomi leggermente spaesato. Avrei avuto bisogno di un goccetto per rilassarmi. Senza l’aiuto dell’alcol non sapevo cosa dirgli e non riuscivo a capire cosa provassi. Le mie emozioni stavano sempre sul fondo dell’anima e solo l’alcol riusciva a riportarle a galla.

Salimmo in macchina, in silenzio. Il bambino mi studiava con una certa circospezione mista a sospetto, proteso da dietro in mezzo ai due sedili anteriori. Io non parlai e Stefania guardava la strada davanti a sé. Non c’era niente da dire, eravamo ben lungi dal rappresentare una famiglia ideale, o perlomeno io ci stavo come una pennellata folle di Van Gogh su un progetto di architettura razionale.

«Signore», mi chiese a un certo punto il bambino, «perché hai quella barba lunga? Sembri uno di quei signori senza casa...».

«Mario, vuoi star zitto, per favore!», gli rispose seccamente sua madre, visibilmente alterata per la situazione così innaturale e fuori luogo.

«Va bene», disse docilmente lui. «Mamma li vuoi vedere i disegni che ho fatto oggi?», chiese, aiutandoci così a cambiare argomento.

«Dopo, Mario».

«Li guardo io, se vuoi», mi intromisi al volo, cercando di cogliere l’occasione.

«Davvero vuoi vederli, signore?».

«Se ti va, perché no».

«Mario, lascia in pace il mio amico».

«No», dissi io, «gli do volentieri uno sguardo».

Mario mi passò una risma di fogli stropicciati e pesantemente colorati coi pastelli. I motivi dei disegni erano i soliti: la tua famiglia, le tue ultime vacanze, il tuo animale domestico. Non c’era niente che tradisse il benché minimo turbamento. L’infanzia di mio figlio sembrava procedere normale, spensierata, senza incontri ravvicinati e precoci coi travagli dell’età adulta. Cominciai seriamente a sentirmi fuori posto in quel quadretto di perfezione borghesemente ideale. Capivo perché non mi interessasse, quando Stefania era rimasta incinta, prendere in considerazione l’ipotesi di fare il padre.

«Ti piacciono, signore?», mi chiese il bambino distraendomi dai pensieri in cui ero immerso.

«Sono molto belli», mentii spudoratamente. Mario, proprio come suo padre, non sembrava avere grande propensione per matite e colori. Quei disegni li avrebbe potuti fare qualunque bambino di una famiglia media dalla vita dignitosamente agiata, con almeno tre pasti al giorno garantiti. Mi chiesi cosa ci fosse di tanto eccezionale nell’infanzia da commuovere così profondamente tutte le madri e i padri del mondo. Passavo al setaccio quei disegni, nei quali la vita appariva naïf come non mai, semplice e dolce, sicura e inoffensiva, tutto sommato degna di essere vissuta fino a cent’anni.

Senza accorgermene, mi ritrovai a lato del marciapiede di EuroCondomini. Era arrivato il momento per me di levarmi dalle scatole, lo sentivo.

«Mario, saluta il signor Federico che, adesso, deve scendere».

«Ciao, signor Federico», mi disse lui dimostrando grande educazione e prontezza nell’esecuzione degli ordini materni.

«Ciao, Mario».

Non chiesi neanche un bacio sulla guancia, scesi semplicemente dalla macchina e andai verso il finestrino del guidatore. Stefania lo teneva chiuso e fissava di fronte a sé. Bussai ed ebbe un sussulto. Premette un pulsante e il vetro si abbassò.

«Scendi, per favore».

Lo fece. Le tesi una busta con dei soldi.

«Sono duemila euro», le dissi bisbigliando, «Prendili per il bambino. È tutto quello che mi è rimasto».

«I tuoi duemila», mi rispose lei a mezza voce, sibilando tra i denti, «mettiteli nel culo. Lo sai quanto costa un figlio?».

Non me lo feci dire due volte e ripresi la busta. A me quei soldi servivano.

«Potrò rivederlo?».

«Non lo so».

«Che dici se ripasso domani e ne parliamo?».

«Vieni alle dieci. Farò la pausa di mezza mattina. E lavati! La macchina puzza da quando ci sei entrato tu».

Non replicai per cercare di salvare la situazione. Feci un cenno di saluto a Mario. Il mio volto doveva essere di una neutralità spaventosa. Non riuscivo neanche più a fingermi cordiale.

Mi misi in cammino verso casa. Pensai a quello che mi aveva detto Stefania, alle ultime parole odiose. Aveva ragione, non lo si poteva negare, puzzavo e non avevo granché voglia di farmi un bagno.

La mattina dopo arrivai nel suo studio verso le dieci e trenta. Avevo dormito bene, solo che ero così sbronzo da non aver sentito la sveglia. E pensare che ero andato a letto verso le cinque di pomeriggio.

«Ti avevo detto alle dieci...».

«Non ho dormito bene...».

«Certo che si vede quanto te ne importa di tuo figlio!», esclamò stizzita.

«Beviamo una cosa al bar?».

«Ci sono stata poco fa».

«Io non ho ancora fatto colazione».

Ci sedemmo a un tavolino in disparte. Mi sentivo fradicio di sudore. Ero spettinato e con i capelli incollati alla testa, neanche ci avessi passato sopra dell’olio. Stefania mi guardava con disgusto. Potevo solo immaginare come si sentisse al pensiero di aver fatto da tramite alla perpetuazione della specie umana con un derelitto come me. Forse si stava chiedendo come io, un giorno di cinque anni prima, fossi potuto finire dentro di lei. Cercai di trovare la posa e il tono del padre ideale.

«Mi piacerebbe contribuire al mantenimento del bambino».

«Ma che idea carina! E, dimmi, con quale lavoro pensi di farlo?».

Non avevo riflettuto prima di parlare, pensavo di potermi atteggiare da ciò che non ero. Volevo apparire munifico. Alla fine, ordinai un caffè corretto con la grappa.

«Ma sono solo le dieci e trenta», mi fece notare Stefania. Abbozzai, facendo finta di non capire. Sapevo che, se le avessi rivelato di essere un alcolizzato, mi sarei potuto scordare di rivedere il bambino.

«Immagino tu abbia parlato di me con... come si chiama...?».

«Walter!».

«Sì, insomma, con lui. Cosa ne pensa?».

«Non è d’accordo, ma ritiene che la decisione spetti a me».

«Tu come la vedi?».

«Penso che non potrai cominciare a essere suo padre da oggi. Prima è meglio che Mario si abitui a te. Più avanti, affronteremo l’argomento tutti insieme...».

«È ragionevole», mi limitai a dire io.

Ci guardammo in silenzio.

«Dio, come sei ridotto!», mi sputò in faccia con un’espressione nauseata.

«A te, invece, ti trovo bene». Non avevo voglia di litigare, soprattutto in una situazione come quella, in cui era impossibile darle torto.

«Lo potrò portare a casa mia?».

«Hai una casa?».

«Certo! Non è un granché, ma i topi e gli uomini possono viverci, ognuno senza invadere lo spazio vitale altrui...».

«Ti credi divertente?».

«Speravo di farti ridere, tutto qui». Poi soggiunsi: «Si tratta di una casa popolare, in periferia, dove sto in affitto. Non potevo permettermi di meglio. Certo, il palazzo non è il massimo».

«È pericoloso?», chiese intimorita.

«Io sono sopravvissuto e non ho notato niente di strano, chiasso a parte. Se poi ci sono dei traffici illeciti, non avvengono certo sotto i miei occhi».

Si prese la testa tra le mani, prima di sospirare un «Santo cielo, speriamo bene».

Un algido sabato mattina, passai a prenderlo sotto casa di Stefania. Con lei ci eravamo sentiti in precedenza. Aveva detto a Mario che sarebbe dovuto stare con me per via di alcuni suoi sopraggiunti impegni. In sostanza, mi aveva fatto figurare come una qualunque baby-sitter. Non so come gli avesse motivato il fatto che sarebbe dovuto venire a casa mia.

Prima di arrivare avevo bevuto poco. Mi ero dovuto contenere, per non mostrare un’apparenza troppo sbalestrata agli occhi di Stefania, temendo che all’ultimo si rifiutasse di affidarmi il bambino. Per il resto della giornata però, avevo già deciso che non avrei finto di essere ciò che non ero. Il castello di menzogne che noi tre adulti avevamo costruito intorno al ragazzino era già cresciuto eccessivamente in altezza. Fingere non era per me e poi la mia vita aveva troppi aspetti bizzarri per poter essere nascosta in eterno. Farsi voler bene da un figlio, cercando di proiettare un’immagine di genitore ideale e irreprensibile, non faceva per me. Mi sarei sentito mendace come uno spot pubblicitario. Se il bambino avesse scelto di amarmi, in futuro, l’avrebbe dovuto fare consapevole di tutta la mia miseria e fragilità. So bene che un padre beone non è un modello da imitare, ma chiunque prima di essere un esempio, o un padre, o quel che si voglia, è prima di tutto un uomo e gli uomini sono anche così: alcolizzati, etilisti, beoni.

Mario fu letteralmente abbandonato dalla madre a circa dieci metri dalla macchina che avevo noleggiato dal vicino di casa per dieci euro. Stefania lasciò andare la mano e gli fece segno di procedere oltre. Lui incedeva con passo sereno e trotterellante. Lei mi guardava intimorita, quasi in apprensione. Sollevai la mano destra in segno di saluto. Non ricambiò. Mario salì e io partii a razzo in retromarcia, onde evitare che venisse presa da un qualche ripensamento dell’ultimo secondo.

«Ciao, signore», mi salutò allegramente mio figlio.

«Facciamo un patto, ragazzo».

«Dimmi, signore».

«Non chiamarmi più signore. Come la vedi? Ti sembro uno che ha l’aspetto di un signore?».

«Sembri vecchio!».

«Comunque, preferirei non esser chiamato più signore, se non ti dispiace...».

«Come vuoi che ti chiami?».

«Federico».

«Sei davvero un amico della mamma, Federico?».

«Certo che sì, da anni».

«Come l’hai conosciuta?».

Non avevo pensato all’eventualità di dover dare ragguagli al marmocchio. Mi ero proposto di essere me stesso con lui, ma dovetti ricredermi: una misura di menzogna era inevitabile. Gli dissi che la nostra conoscenza era dovuta al lavoro.

«Che lavoro fai, Federico?».

«Adesso non lavoro più, per la verità...».

«E cosa fai, allora?».

«Niente!».

«Cioè?».

«Cioè, niente. Sei un bambino curioso! Non faccio niente. Oggi come oggi è pieno di gente che non fa proprio niente come me...».

«Perché c’è tanta gente che non fa niente?».

«Chiedilo al governo!».

«Cos’è il governo?».

Mi venne da sorridere, poi dissi: «Hai presente i mostri dei videogame? Ecco, qualcosa di simile».

Il ragazzino mi fissava con un certo interesse, mentre gli spiegavo con tutte queste immagini e circonlocuzioni cavillose, alcuni degli aspetti più tristi della vita adulta. Il suo coinvolgimento, la curiosità, l’incessante domandare, mi fecero pensare che probabilmente non fosse un bimbo idiota come tanti, che intravvedesse qualcosa oltre il velo fatato dei cartoni animati.

Mi accesi una sigaretta senza pensarci.

«Mamma mi ha detto che fumare fa male», mi disse con una solerzia da vigile urbano.

«Beh, ragazzo, tua madre ha ragione. Fa male, ma io non riesco a farne a meno. E, comunque, se ci badi, vedrai che tutti ti sapranno dire cosa fa male, ma poi non riescono a trovare un accordo, quando si tratta di dire che cosa invece farebbe bene».

Mi resi conto che la conversazione si stava complicando oltremisura. A parlare coi bambini non c’ero abituato e mi sentivo limitato. Con loro non si può mai conversare apertamente, anche quando gli si spiega una cosa gliela si chiarisce solo a metà. Vivono protetti dalla censura genitoriale sui fatti. Solo all’infanzia è accordato il beneficio di vivere nella serenità, grazie alla bontà paterna e materna che vuole tenere loro celata la realtà delle cose al solo fine di farli iniziare a soffrire con qualche anno di ritardo.

Mario sembrava infastidito dal fumo, così aprii il finestrino.

«Dove andiamo?».

«Direi a casa mia, se ti va...».

Avevo riflettuto sulla possibilità di evitare al piccolo la visione della mia topaia ma, come ho già spiegato, mi ero proposto di essere sincero nei suoi confronti. Per il resto, lo guardavo e cercavo di capirlo, ma senza grandi risultati. Mi chiesi cosa vedesse osservando fuori dal finestrino, ma non riuscivo a figurarmi i percorsi cerebrali di quella minuscola mente amorfa. Continuai a domandarmi cosa significasse avere lo stesso sangue. Anche con mio padre, non mi era riuscito di trovare una risposta soddisfacente.

Parcheggiai sotto il casermone dove abitavo. Era deserto là intorno e si sentiva fischiare il vento.

«Abiti qui?», mi chiese mio figlio.

«Sì. Ti piace?».

«Sembra brutto».

«Non sembra, lo è!», precisai.

Mi seguì fino al portone e poi su per le scale. I muri sembravano quelli della grotta di Lascaux, la Cappella Sistina dei primitivi, tutti intarsiati di chewing gum masticati, simboli sessuali espliciti e poemi del turpiloquio. Una vera opera d’arte del vandalismo e della vita disgraziata. Lo sguardo di Mario vi scorreva sopra come sulle pareti colorate e variopinte dei giochi di un luna park.

Entrammo in casa con il solito rumore di ferraglia che faceva la porta. Riflettei sul da farsi e capii di avere sete.

«Mario, bevi qualcosa?».

«Sì, grazie», mi rispose educatamente.

Appena aprii il frigo, mi resi conto che non avevo niente di indicato per un bambino. Loro bevono succhi di frutta, Coca-Cola. Io pensavo da adulto invece, da adulto alcolizzato. Avrei potuto dargli esclusivamente dell’acqua. Gliene versai un grosso bicchiere. In casa avevo solo pezzi piuttosto capienti. Mi servivano per non dover stare continuamente a rabboccare quando bevevo. Per me, ne presi uno di bianco bello fresco.

Prendemmo posto al tavolo della cucina, che fungeva anche da salotto. Ci fissammo per interminabili secondi. Non sapevo bene cosa dirgli. Parlavo poco con la gente, da quando avevo chiuso l’attività di famiglia, e non dialogavo con un bambino dai tempi della mia infanzia, quand’ero anch’io parte della categoria. Non sapevo che cosa potesse interessarlo. Temevo fossero argomenti troppo stupidi e banali, sui quali sarei stato totalmente impreparato. Dimostrando un grande spirito conviviale, fu lui a prendere la parola per primo.

«Cosa stai bevendo, acqua?».

«No», gli risposi con disinvoltura, «sto bevendo del vino».

«Che cos’è il vino?».

«Una bevanda alcolica. Hai presente l’alcol?».

Scosse la testa in senso di diniego. Sembrava stupito e un po’ attonito.

«Non hai mai visto Walter e la mamma bere del vino? Magari del rosso, diverso da questo, dal colore più scuro».

«No», disse lui. Lo vedevo seriamente disorientato. «Scuro?», mi chiese, «Come la Coca-Cola?».

«No, la Coca-Cola è più scura, il vino rosso è più... come dire... rosso».

La sua espressione sembrava sempre più simile a quella di chi si sente rivolgere la parola in una lingua straniera che non conosce.

«Ma io posso berlo?».

«Temo proprio di no», mi vidi costretto a rispondergli.

«Perché?».

«Perché è alcolico».

«Non capisco».

«Fa male ai bambini».

«E ai grandi?».

«Solo se ne bevono molto».

«E tu quanto ne bevi?».

«Molto».

«Ma allora stai male?».

I bambini sono estremamente logici delle volte. Se gli fornisci delle premesse, ne traggono le loro deduzioni con una consequenzialità stolta, chiaramente aliena a qualsiasi esperienza di vita.

«No, non sto male».

«Come mai?».

«Ognuno reagisce in modo diverso».

Durante tutto quel sofisticare, avevo finito il primo bicchiere. Mi versai il secondo. Mario mi fissava intrigato dal mio rituale etilico che per lui doveva risultare stranamente esotico.

«Me lo fai provare?».

«Non credo che ti piacerebbe...».

«Perché?».

«Non è così facile imparare ad amare il vino. Non è come per la Coca-Cola... Facciamo così: te lo faccio odorare».

Gli porsi il bicchiere. Non avevo mai pensato che sarei arrivato a compiere un gesto di quel tipo, così intimo. L’alcol era diventato la cifra della mia esistenza, dopo aver perso il lavoro. In quel momento di bizzarra familiarità, stavo cercando di condividere il mio atroce segreto con lui.

Mario prese il bicchiere e se lo portò al naso. Inspirò profondamente e poi tossì. Gocce di vino schizzarono fuori dal bicchiere.

«Questa cosa puzza. Come fai a berla?!», disse con vivo disgusto.

«Te l’avevo detto che non sarebbe stato facile. Ci vuole del tempo per capire il vino, dopodiché diventa indispensabile».

Il silenzio ripiombò sull’assurda vita famigliare improvvisata che mi ritrovavo a vivere quel sabato. Poi, mi venne in mente di scoprire se io e mio figlio avessimo qualche passione in comune.

«Ascolti la musica, Mario?».

«Cos’è la musica?».

«Cos’è la musica? Questa è una bella domanda... Dunque vediamo, hai presente un disco?».

«No, cos’è?».

«Mamma e papà non ti hanno mai fatto ascoltare un disco?».

«Credo di no».

Mi sentivo infastidito dallo stato di abbandono in cui viveva il ragazzino. Forse la madre e suo marito lavoravano troppo, avevano un eccessivo numero di incombenze a cui badare. Probabilmente, la sera erano troppo stanchi per fare qualsiasi cosa. Feci cenno a Mario di seguirmi. Andammo in camera mia. Avevo ancora l’impianto valvolare comprato quando la mia vita professionale andava abbastanza bene. Lo accesi e lo lasciai riscaldare per qualche minuto. Dissi al bambino di stendersi sul letto e rilassarsi.

«Cosa vuol dire rilassarsi, Federico?».

La curiosità di quell’infante, per quanto sacrosanta, cominciava a spiazzarmi e a darmi leggermente sui nervi.

«Tu sdraiati. Il rilassamento è una cosa che verrà da sé».

Gli misi su un po’ di Bill Evans, in vinile, e mi sdraiai al suo fianco.

«Federico, cos’è quella cosa grossa che hai messo su...».

«Sul giradischi».

«Cos’è?».

«Un vinile».

«Cos’è...».

«Un vinile», lo precedetti, prima che potesse finire l’ennesima domanda del giorno, «è un disco, quello di cui ti parlavo prima. Solo che si tratta di un disco che non è oramai molto usato. Oggi si usano i cd o gli mp3».

«Li conosco gli mp3!».

«Il vinile è di molto superiore, ha un suono più caldo. Meglio che tu lo sappia fin d’ora».

«Ho capito cos’è la musica, la conosco. Ma perché questa musica non ha le parole?».

«Non lo so, ma nel jazz non cantano quasi mai...».

«Cos’è il...».

«Ti piace fare molte domande, ragazzino... Il jazz è una musica inventata dai neri d’America, quando erano in schiavitù...».

«I neri d’America?».

«Sono cose che imparerai col tempo. Ora rilassati e ascolta».

Stette in silenzio per circa un minuto. Cominciavo a sentirmi sollevato, quando riprese a parlare.

«Ti piace questa musica?».

«Sì. A te?».

«Non lo so».

«Vuoi dell’altra acqua?».

«No, grazie».

«Ti seccherebbe se mi prendessi dell’altro vino?».

«No».

Mi alzai per prendermi il terzo bicchiere di quella mattinata molto impegnativa. Lo posai sul comodino e mi stesi nuovamente. Mario fissava il soffitto bianco sopra di sé, poi in pochi minuti cadde in un sonno profondissimo. Lo scossi, ma non rispose. Detti una bella sorsata e, già che c’ero, mi addormentai anch’io.

Mi svegliò mio figlio, dopo non so quanto tempo.

«Federico, Federico, ti sei addormentato».

«Sì, che c’è?».

Appena aperti gli occhi, mi era tornata la voglia di bere. Ero proprio un disastro.

«Ho fame».

«Vuoi mangiare?».

«Possiamo, per favore?».

«Sì, certo».

Andammo in cucina. Misi la pentola con l’acqua a bollire. Mario, nel mentre, si guardava intorno incuriosito.

«Cos’è quello?».

«Quello è il mio vecchio pianoforte. Non l’ho ancora venduto...».

«Perché lo vuoi vendere?».

«Non ho molti soldi, anzi sono proprio povero...».

«Cosa vuol dire che sei povero?».

«Che non ho molti soldi».

Mi stavo rendendo conto sempre di più, ogni minuto che passava, di quanto dovesse essere difficile per un bambino trovarsi circondato da tutto quel circuito di banalità che noi adulti diamo per scontate. Non riuscivo a ricordarmelo, ma doveva essere stata una grande fatica essere piccoli.

«A cosa serve il pianoforte?».

Mi avvicinai e tirai su il copritastiera, senza dire niente. Mi sarebbe piaciuto far capire al bambino che non tutto è spiegabile. Provai a concentrarmi per ricordare uno dei brani più famosi di Diana Krall. Mossi timidamente le dita tra i tasti bianchi e neri. Emisi qualche nota stentata. Il piano era vagamente scordato. Provai ad andare un po’ a memoria, un po’ improvvisando. Certo, si sentiva che mi mancava la consuetudine, la fluidità non era il mio forte. Suonavo frammenti del brano, ma senza ricordarlo nella sua interezza. Scorsi d’un tratto il volto di Mario. Fissava i tasti a bocca aperta.

«Ti piace?» gli chiesi.

«Bello!», esclamò con vivo stupore.

«Oddio, l’acqua della pasta!», esclamai alzandomi di scatto. Già bolliva furiosamente. Misi il sale e gettai gli spaghetti. Mi voltai e vidi mio figlio premere un tasto. Quasi si spaventò, quando sentì la reazione dello strumento: la diffusione del suono.

«Ti affascina?», gli chiesi.

«Cosa?».

«Voglio dire, ti piace?».

Era logorante parlare con un bambino. Tutto l’universo mentale di un adulto medio gli mancava. I suoi termini, come il suo mondo, erano limitati e incapaci di descrivere qualsiasi forma di complessità emotiva, o intellettuale.

Cucinai una bella carbonara, divina, luculliana. Gliela servii nel piatto che era fumante. Il parmigiano grattugiato si squagliava sopra. La assaggiò e lo vidi diventare di tutti i colori, prima di sputarla.

«Federico, mi brucia la bocca».

Cristo, mi ero dimenticato che i bambini non mangiano piccante.

«Bevi subito l’acqua».

Buttò giù il bicchiere tutto d’un fiato.

«Lascia perdere quella roba, ragazzino, o ti verrà un colpo. Lo vuoi un panino? È l’unica cosa che io abbia. Altrimenti, ti cucino un’altra pastasciutta».

Alla fine, anche io mollai la mia carbonara, per solidarietà con lui, e ci facemmo un panino con salame, pomodoro, mozzarella, e maionese.

Mi bevetti quasi una bottiglia intera di rosso. Per tutto il pranzo, io e Mario non ci dicemmo molto altro. Non mi sentivo di avere grandi cose d’aggiungere. Tutta la mia vita e i miei problemi non erano questioni di cui avrei potuto discutere con un bambino di cinque anni. Non era colpa mia, non era colpa sua.

Dopo mangiato, cominciai a sentirmi veramente stanco. La testa mi doleva. Non ero più abituato ad avere qualcuno al mio fianco per tutto quel tempo.

«Hai sonno, Mario?».

«Non so».

«Ti andrebbe di stenderci per un po’ sul letto? Mi sento leggermente stanco».

Mi alzai per andare e lui mi seguì. Mi accesi una sigaretta. Ci sdraiammo. La sonnolenza era la sensazione più forte che sentissi. Mi addormentai quasi subito. Erano appena le due. Restava pur sempre tutto il pomeriggio.

Mi svegliai che il buio era quasi sceso del tutto. Volgendo lo sguardo al mio fianco, vidi Mario. Era intento a frugare nel posacenere sistemato sul comodino. Stava disfacendo le cicche di sigaretta. A quanto pareva, l’attività lo divertiva tantissimo.

«Si può sapere che diavolo stai facendo, Mario?».

«Perché ci sono tante sigarette qui?».

«Perché le ho fumate, ma tu perché accidenti ti sei messo a toccarle? Ti impuzzolentirai le mani così».

«È divertente farle a pezzi...».

«Preferisco fumarle, sinceramente. Vieni a lavarti le mani».

Quando mi rispose di sì, percepii un olezzo familiare nel suo alito.

«Non avrai mica assaggiato il mio vino?».

«Volevo capire perché tu ne bevi tanto».

«Buon Dio, tua madre mi farà condannare per questo. Promettimi di non dirle niente del vino. Ti senti bene?».

«Sì, ho solo bevuto un sorso».

«Tu sei completamente pazzo, ragazzino. Vieni di là che ti faccio lavare i denti».

Lo portai in bagno. La curiosità di quel bambino, mi resi conto, aveva dei connotati pericolosi. Non lo si poteva lasciare solo un minuto, o dargli degli input ambigui, che subito gli veniva voglia di andare a verificare.

Appena gli misi lo spazzolino tra i denti, vomitò. Sapevo che la colpa era del vino. Quel semplice sorso doveva averlo ubriacato.

Dopo che ebbe finito di liberarsi, lo sollevai di peso e lo feci distendere sul divano. Mi prese la mano. Fu insolito, non c’ero abituato, e come per tutti i contatti troppo intimi della mia vita, la sensazione che ne trassi fu un misto di fastidio e ribrezzo. Avvertire le mani delle persone, mi dava l’impressione di essere violato. Stabilire contatti umani su base carnale non era il mio forte.

«Ti senti meglio?», gli chiesi.

Assentì con il capo. Sembrava molto provato.

«Come fai a bere quella roba?», mi chiese nuovamente, «Puzza, è amara».

«Su di me non ha lo stesso effetto, ma tu mi devi promettere di non provare più ad assaggiarlo, almeno finché non sarai grande. Ci siamo intesi?».

«Ok, Federico!».

«Vuoi dell’acqua?».

«Sì, grazie».

Gli versai il suo bicchiere e glielo porsi. Lo consumò piano. Avevo inavvertitamente fatto ubriacare mio figlio. Non ero stato certo un grande esempio di padre a lasciare del vino sul comodino, a portata di mano del suo interesse morboso. Per il resto, non sapevo più cosa dirgli. Non credevo di avere grandi insegnamenti da trasmettergli, né mi andava di stare lì a rimbrottarlo con severità. Desideravo unicamente stare solo, stendermi nuovamente a letto a bere e fumare. Malgrado la vicinanza di mio figlio, l’istinto paterno in me stentava a decollare. Non mi vedevo nell’atto di accompagnarlo a scuola, o di pulirgli il culo. Niente di personale contro di lui, ma facevo volentieri a meno della gente, nessuno escluso. Mi piaceva il mio mondo ebbro e puzzolente di sigaretta. Se non fosse stato perché dovevo riaccompagnarlo, non avrei neanche avuto voglia di uscire di casa. La luce dei pomeriggi invernali, unita al gelo esterno, mi metteva di cattivo umore. Avevo difficoltà a spiegare me stesso a un altro, figurarsi a un bambino. Non mi piaceva che mi si facessero troppe domande. Preferivo quando ci si capiva in silenzio. Mario, con tutte le sue richieste di delucidazioni, mi chiedeva con troppa insistenza di dare una spiegazione e una definizione al complesso di cose che non sapevo giustificarmi, ma mi limitavo a utilizzare senza grande entusiasmo. La logica del “perché questo, perché quello?”, non rientrava nel mio modus vivendi che era più uno stare al mondo finché la mia vita stessa non si fosse arresa, implodendo in se stessa. Già da tempo vivevo imitando nel migliore dei modi possibile l’esistere inerte e inanimato dei minerali. La mia vita non aveva senso e io non avevo voglia di cercargliene uno.

Quando mi venne da pensare che si era oramai fatto ragionevolmente tardi e fosse il caso di riconsegnare Mario alla madre, il bambino mi prese nuovamente di sorpresa. Dopo essersi tirato su dalla posizione supina che aveva tenuto dacché l’avevo deposto sul divano, si chinò verso di me, seduto per terra, e mi passò un braccio intorno alle spalle. Sguainò il suo cellulare, un Samsung dallo schermo piuttosto ampio.

«Ci facciamo un selfie?», mi chiese con aria divertita.

«Un selfie?!», gli replicai io, decisamente poco avvezzo a questo genere di pratiche giovanili.

Non ebbi mio malgrado il tempo di oppormi che mi ritrovai riflesso sullo schermo di quello strumento spaventosamente grande per le minuscole mani di un bambino. In un frangente fummo messi a fuoco dagli automatismi del sistema fotografico. Nell’immagine finale, le mie sopracciglia erano incurvate, quasi a semicerchio, e la mia espressione sembrava intimidita e spaventata. Quell’istantanea mi aveva immortalato in un attimo in cui tutta la mia essenza era sfacciatamente nuda.

Salimmo in macchina per il rientro e Mario era nuovamente pimpante. Rumoreggiava chetamente canticchiando una nenia incomprensibile tra sé e sé. Io osservavo un distaccato silenzio e pensavo solo a quando mi sarei trovato finalmente con me stesso. Prese a parlarmi.

«Posso tornare da te, Federico?».

«Se ti va», gli risposi svogliatamente. «Sei stato bene, oggi?».

«Sì».

«Torna quando vuoi, allora».

Sotto casa, scrissi un messaggio alla madre che scese alla porta per riprenderselo. Mario uscì dalla macchina salutandomi giocondo. Stefania restò sulla soglia. Accennai un saluto al suo indirizzo. Erano le sei di sera, ma sembrava già notte. Capii che probabilmente non avrei più chiamato per rivedere mio figlio. Semplicemente, non riuscivo ad appassionarmi alla sua sorte. Non sapevo perché l’avessi fatto e mi sembrava il frutto di un meccanismo aleatorio a me imperscrutabile. In fondo, io non avevo fatto molto di più che scoparmi sua madre, dopo un’allegra bevuta. Lui era stato un incidente di percorso che non avevo saputo preconizzare in preda all’alcol. Non sentivo alcuna responsabilità nei suoi confronti e, più in generale, non sentivo responsabilità verso niente: il mondo andava autonomamente in pezzi intorno a me, al di là di ogni mia volontà, o iniziativa. Non avevo un’idea per migliorare le cose e forse non mi importava realmente di contribuire a niente.

Mario avrebbe chiesto di me per qualche giorno, poi gli sarei passato di mente. La questione del sangue ha una consistenza vaporosa.

Mi salutò un’ultima volta agitando la manina. Salutai a mia volta, ma non riuscii ad abbozzare neanche un mezzo sorriso.

Ingranai la retromarcia e feci mente locale per ricordarmi la strada verso l’ipermercato più vicino. Sarei andato a fare rifornimento di roba da bere. Avevo voglia di un goccetto. Era l’unica cosa che riuscisse a interessarmi.