Il mio ultimo ricordo d’estate mi baluginava nella mente, durante le interrogazioni che il docente, nonché mio capo, mi aveva chiesto di tenere il giorno undici di settembre. Si trattava di un’immagine fresca, rubata appena dieci giorni prima su una spiaggia assolata, quando l’impetuoso flusso turistico di metà agosto andava oramai scemando, fino a ridursi a uno sparuto gruppuscolo di quattro sfigati, chiusi ognuno nella propria prigione monadica ad arrostire sotto il sole.
Una ragazza che non avevo ben capito, ma supponevo essere francese, prendeva il sole sdraiata prona su un asciugamano. Si era dapprima seduta e spogliata dei suoi già succinti indumenti, standosene per due minuti buoni a seno scoperto – un seno piccolo, ma sodo e grazioso –, massaggiandosi delicatamente con la crema solare.
Avevo anche vagheggiato per alcuni attimi di sorriderle e cercare di attaccare bottone con fare da viveur. Ma all’ultimo me l’ero fatta sotto e avevo lasciato perdere. Del resto, malgrado fossimo in pochi su quella pianura vasta e polverulenta dalla sabbia aurea, e ci trovassimo a pochissimi metri di distanza l’uno dall’altra, lei sembrava ignorarmi del tutto, neanche fossi sprofondato sotto un manto di sabbia.
Dacché si fu sdraiata, seguitai a girarmi con una certa frequenza per dare un’occhiata alle sue cosce tornite, con qualche trascurabile zona di cellulite. Nel frattempo lei giocava sovrappensiero ad allargare le gambe, rivelando involontariamente una piccola porzione di carne intorno alla vagina, che immaginavo infantile e rosea, punteggiata da piccoli dolci peletti morbidi e radi.
Mentre osservavo quella trentenne dall’aspetto a tratti acerbo e puberale, avevo pensato a come sarebbe stato trascorrere le ferie con una come lei: svegliarsi al suo fianco, accarezzarla tra le gambe di primo mattino, darle il buongiorno con un dito nella sua...
Fu a quel punto che mi sentii chiamare dalla mia collega.
«Massimo, Massimo, la signorina dice di aver finito. Per te va bene, o c’è altro che vorresti chiederle?».
Cercai di ricompormi, ma risultai comunque poco credibile. Di fronte avevo un esemplare di femmina piuttosto bassa, quanto massiccia e larga. Quasi l’antipodo di Marianna, la mia collega, anche lei come me assegnista di ricerca, magra come un chiodo, priva di seno, dalla pelle di un colorito giallastro e malaticcio, e con una pettinatura a caschetto che risultava orribile, invecchiandola di almeno vent’anni. Il suo modo di vestire poi le conferiva l’aria di una zitella acida e triste, anche se in realtà, più di tutto, si trattava di una creatura assolutamente inoffensiva.
Nel mio tentativo di fare il serio, riuscii a risultare semplicemente distaccato.
«Io discuterei della valutazione. Insomma, per me va bene così».
«Che voto proporresti?», mi chiese Marianna.
«Mah, direi un ventisette».
Mi ero perso buona parte dell’esposizione, ma al momento della valutazione sfoggiavo il mio metodo infallibile: partivo sempre con un giudizio basso, per poi rilanciare e risultare così particolarmente generoso agli occhi degli studenti.
«Beh, se posso permettermi», disse Marianna con una seriosità da accademica arrivata, impegnata con tutto il suo essere a ponderare in modo oggettivo, «un ventisette come voto per la performance della signorina, mi pare un po’ pochino, per non dire un’ingiustizia».
«Hai ragione, Marianna», la interruppi io, «diamole trenta».
La mia collega sgranò gli occhi, la ragazza mi guardò come se avessi appena mostrato evidenti segni di squilibrio.
«Beh, sempre se permetti, trenta però mi parrebbe una valutazione eccessiva».
Tirai su le braccia e le lasciai ricadere in un gesto indistinto che corrispondeva, dal mio punto di vista, a un pilatesco “me ne lavo le mani”.
«È una questione tra donne», dissi. «Pertanto, risolvetevela tra di voi».
Marianna dapprima sembrò spersa, con un’espressione contratta e stressata sul volto. Poi, d’improvviso, scoppiò a ridere, con un sorriso vagamente indeciso.
«Lo scusi, signorina. Ovviamente Massimo, il mio collega, sta scherzando. Allora, Massimo, cosa mi dici, quanto le mettiamo?».
«Esigo che la signorina riceva un trenta!», insistetti con tono fermo.
«Ma Massimo...».
«Credimi, se lo merita!». Feci un ampio gesto col braccio sinistro, a indicare l’insindacabilità del mio verdetto. Dovevo sembrare un vero idiota in quel momento.
Marianna non discusse ulteriormente. Diventava remissiva, quando si trovava di fronte a qualcuno che ostentava una certa sicumera. Per di più, mi adorava.
La vidi scrivere i dati.
«Se sarà così gentile da ripassare tra qualche ora, il professore firmerà il registro con lei di fronte e trascriverà il suo voto sul libretto».
Al momento dei saluti, la ragazzetta bassa e larga trattenne la mano nella mia per qualche secondo in più e mi rivolse un sorriso radioso, di estrema gratitudine.
Pensai che, per come era disperata la mia vita erotica, avrei volentieri accettato un enorme atto di riconoscenza sul piano sessuale, da parte di quella studentessa per niente perfetta e un poco corpulenta. A ogni modo, ero ben consapevole del fatto che non avrei avuto neanche una simile opportunità, pur non essendo la migliore fra quelle idealmente possibili.
Marianna mi sorrise piena di tenerezza, tutta un brodo di giuggiole, appena la ragazza fu fuori dallo studio. Mio Dio, quanto mi faceva pena! Era una delle pochissime donne che non sarei mai riuscito a montare, neanche per farle un favore in amicizia... proprio inchiavabile e allo stesso tempo miseramente bisognosa d’amore.
«Ti andrebbe di pranzare con me, domenica?», mi chiese, facendo finta di voler organizzare un tranquillo pomeriggio tra compagni di lavoro.
«Ti ringrazio, ma non posso. Il sabato e la domenica pranzo da mia nonna. Sai, è sola, povera donna».
L’idea di questo ragazzo grande e grosso, che si sgravava da qualsiasi possibile impegno pomeridiano nel weekend, perché sua nonna non avesse a sentirsi troppo sola, la commosse profondamente. Dovevo apparirle come una candida anima bella, piena di abnegazione e di spirito caritatevole. Ero certo che per lei non potesse esserci niente di meglio sul piano dei potenziali partner, sia dal punto di vista sentimentale, che da quello erotico.
«Ma che carino! Allora, vieni sabato sera a cena...».
«Beh, ne possiamo parlare, ma non ora. C’è il prossimo candidato che sicuramente attende di entrare».
«Ok, caro».
Ricominciai a pensare alla piccola ragazza francese, a cui non avevo avuto neanche il coraggio di sorridere. Dopo dieci minuti di solitario trastullarsi innocente, in cui aveva ripetutamente aperto e chiuso le gambe, con me che nel frattempo avevo sviluppato una poderosa erezione, la graziosa era stata raggiunta da un giovane vichingo alto uno e novanta, probabilmente il suo boyfriend estivo. Li avevo sentiti parlare svagatamente, lei e il gigantesco zuzzurellone, di blowjobs in inglese, la lingua di comunicazione di quella loro breve relazione. A un certo momento, si erano assopiti. Lei con la testa sulla sua pancia. Sembravano persino carini insieme.
Io, frattanto, continuavo a osservare la piccola striscia di carne rosa coi peletti. Pensai che fosse un territorio d’accesso privato, la personale fonte di approvvigionamento del glorioso vichingo.