Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima.
H. Arendt, Vita Activa
Il problema della natura umana (quaestio mihi factus sum [«io stesso sono divenuto domanda»] come dice sant’Agostino) pare insolubile, sia nel suo senso psicologico individuale sia nel suo senso filosofico generale. È molto improbabile che noi, che possiamo conoscere, determinare e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo stesso per noi: sarebbe come scavalcare la nostra ombra. Per di più, nulla ci autorizza a ritenere che l’uomo abbia una natura o un’essenza affini a quelle delle altre cose. In altre parole, se abbiamo una natura o un’essenza, allora certamente soltanto un dio potrebbe conoscerla e definirla, e il primo requisito sarebbe che egli fosse in grado di parlare di un «chi» come se fosse un «che cosa». La difficoltà sta nel fatto che le modalità della conoscenza umana riferibili alle cose dotate di qualità «naturali», compresi noi stessi nella misura limitata in cui rappresentiamo la specie più altamente sviluppata della vita organica, si rivelano inadeguate quando ci chiediamo: «E chi siamo?». Questa è la ragione per cui tutti i tentativi di definire la natura umana quasi invariabilmente finiscono con l’introduzione di una divinità. [VA pp. 9-10]
[...] D’altra parte, le condizioni dell’esistenza umana—vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra — non potranno mai «spiegare» che cosa noi siamo o rispondere alla domanda «chi siamo noi?» per la semplice ragione che non ci condizionano in maniera assoluta. Questa è sempre stata l’opinione della filosofia, distinta dalle scienze — antropologia, psicologia, biologia ecc. — che parimenti si occupano dell’uomo. Ma oggi possiamo quasi dire di aver dimostrato anche scientificamente che, sebbene noi ora viviamo, e probabilmente vivremo sempre, soggetti alle condizioni della terra, non siamo meramente creature legate-alla-terra. [VA p. 10]
La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione, ha il duplice carattere dell’eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi fra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori. Se gli uomini non fossero diversi — e ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o mai sarà — non avrebbero bisogno né del discorso, né dell’azione per comprendersi a vicenda. Sarebbero soltanto sufficienti segni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici. La distinzione degli esseri umani non si identifica con l’alterità — la curiosa qualità dell’alteritas inerente a ogni cosa e quindi, nella filosofia medievale, una delle quattro caratteristiche fondamentali e universali dell’Essere, trascendenti ogni qualità particolare. L’alterità, è vero, è un aspetto importante della pluralità, la ragione per cui tutte le nostre definizioni sono distinzioni, per cui non riusciamo a dire ciò che ogni cosa è senza distinguerla da ogni altra.
L’alterità nella sua forma più astratta è reperibile solo nella pura moltiplicazione degli oggetti inorganici, mentre ogni vita organica mostra già variazioni e distinzioni, anche fra gli esemplari di una stessa specie. Ma solo l’uomo può esprimere questa distinzione ed esprimere se stesso, e solo lui può comunicare se stesso e non solamente qualcosa: sete o fame, affetto, ostilità o timore.
Nell’uomo, l’alterità, che egli condivide con tutte le altre cose, e la distinzione, che condivide con gli esseri viventi, diventano unicità e la pluralità umana è una paradossale pluralità di esseri unici. Discorso e azione rivelano questa unicità nella distinzione. Mediante essi, gli uomini si distinguono anziché essere meramente distinti. [VA pp. 127-128]
Le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare di vivere un’esistenza umana. Solo nell’ambito di un popolo l’individuo può vivere come un uomo fra gli uomini senza rischiare di morire per mancanza di forze. [FS p. 21]
Anche nei tempi più oscuri abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione. Ed è molto probabile che [essa] ci giungerà non tanto da teorie o da concetti, quanto dalla luce incerta, vacillante e spesso fioca che alcuni uomini e donne, nel corso della loro vita e del loro lavoro, avranno acceso in ogni genere di circostanze, diffondendola nell’arco di tempo che fu loro concesso di trascorrere sulla terra. [MD p. IX]
Il termine vita activa, comprendente tutte le attività umane e definito dal punto di vista dell’assoluta quiete contemplativa, corrisponde tuttavia più strettamente alla askholia greca, l’«inquietudine» con cui Aristotele designava ogni attività, piuttosto che all’espressione greca bios politikos. Antica quanto Aristotele, la distinzione tra quiete e inquietudine, tra un’astensione quasi assoluta dal movimento fisico esterno e l’attività d’ogni genere, è più decisiva che la distinzione tra il modo di vita politico e quello teoretico, perché può essere eventualmente ritrovata all’interno di ciascuno dei tre modi di vita. [VA p. 12]
Tradizionalmente, perciò, il termine vita activa riceve il suo significato della vita contemplativa; la sua limitatissima dignità le è conferita dal fatto che essa serve la necessità e il bisogno di contemplazione in un corpo vivente. [VA p. 13]
Se, quindi, l’uso del termine vita activa, com’è da me proposto in questa sede, contraddice apertamente la tradizione, ciò avviene perché io dubito non della validità dell’esperienza da cui nasce la distinzione, ma piuttosto dell’ordine gerarchico inerente a essa dal suo inizio. Questo non significa che io desideri constatare o anche solo discutere, in questa sede, il tradizionale concetto della verità come rivelazione, e quindi come qualcosa di essenzialmente dato all’uomo, o che io preferisca l’affermazione pragmatica, tipica dell’età moderna, che l’uomo può conoscere solo ciò che produce egli stesso. La mia obiezione è semplicemente questa: l’enorme peso della contemplazione nella gerarchia tradizionale ha oscurato le distinzioni e le articolazioni all’interno della vita activa stessa. [VA pp. 13-14]
L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo. Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, questa pluralità è specificatamente la condizione — non solo la conditio sine qua non, ma la conditio per quam —di ogni vita politica. Così il linguaggio dei romani, forse il popolo più dedito all’attività politica che sia mai apparso, impiegava le parole «vivere» e «essere tra gli uomini» (inter homines esse), e rispettivamente «morire» e «cessare di essere tra gli uomini» (inter homines esse desinere) come sinonimi. Ma nella sua forma più elementare, la condizione umana dell’azione è implicita anche nella Genesi («Maschio e femmina li creò») [...].
L’azione sarebbe un lusso superfluo, una capricciosa interferenza con le leggi generali del comportamento, se gli uomini fossero semplicemente illimitate ripetizioni riproducibili dello stesso modello, la cui natura o essenza fosse la stessa per tutti e prevedibile come quelle di qualsiasi altra cosa. La pluralità è il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive o vivrà. [VA pp. 7-8]
Se l’azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione della condizione umana della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come essere distinto e unico tra uguali. Azione e discorso sono così strettamente connessi perché l’atto primordiale e specificatamente umano deve, nello stesso tempo, contenere la risposta alla domanda posta a ogni nuovo venuto: «Chi sei?».
Il rivelarsi del proprio essere è implicito sia nelle parole sia nelle azioni; tuttavia è evidente che l’affinità fra discorso e rivelazione è molto più stretta di quella fra discorso e cominciamento, sebbene molti, forse la maggior parte degli atti, siano compiuti in forma di discorso. A ogni modo, senza essere accompagnata dal discorso, non solo l’azione perderebbe il suo carattere di rivelazione, ma anche il suo oggetto; non uomini che agiscono, ma robot che eseguono, realizzerebbero ciò che, umanamente parlando, rimarrebbe incomprensibile. L’azione senza discorso non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore, colui che compie atti, è possibile solo se, nello stesso tempo, sa pronunciare delle parole. L’azione che egli inizia è rivelata agli altri dalla parola, e anche se il suo gesto può essere percepito nella sua nuda apparenza fisica senza accompagnamento verbale, acquista rilievo solo l’espressione verbale mediante la quale egli identifica se stesso come attore, annunciando ciò che fa, che ha fatto o che intende fare.
Nessun’altra attività umana esige il discorso nella stessa misura dell’azione. In tutte le altre attività, il discorso gioca un ruolo subordinato, come mezzo di comunicazione o mero accompagnamento di qualcosa che si potrebbe anche compiere in silenzio. È vero che il discorso è estremamente utile come mezzo di comunicazione e informazione, ma come tale potrebbe essere sostituito da un linguaggio di segni che potrebbe provarsi ancora più utile e conveniente per esprimere certi significati, come in matematica e nelle altre discipline scientifiche, o in certe forme di lavoro di gruppo.
Così è pure vero che la capacità umana di agire, e specialmente di agire di concerto, è estremamente utile per scopi di autodifesa o per il perseguimento di interessi; ma se in gioco non ci fosse niente di più che il servirsi dell’azione come mezzo per raggiungere un fine, è evidente che lo stesso fine potrebbe essere conseguito molto più facilmente dalla muta violenza: così l’azione non sembra essere un sostituto veramente efficace della violenza, proprio come il discorso, dal punto di vista della mera utilità, sembra essere un rozzo sostituto del linguaggio dei segni.
Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano, mentre le loro identità fisiche appaiono senza alcuna attività da parte loro nella forma unica del corpo e nel suono della voce. Questo rivelarsi del «chi» qualcuno è, in contrasto con il «che cosa» — le sue qualità e capacità, i suoi talenti, i suoi difetti, che può esporre o tenere nascosti — è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia. Si può nascondere «chi si è» solo nel completo silenzio e nella perfetta passività, ma la rivelazione dell’identità quasi mai è realizzata da un proposito intenzionale, come se si possedesse questo «chi» e si potesse disporne allo stesso modo in cui si possiedono le sue qualità e si può disporne.
Al contrario, è più che probabile che il «chi», che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimanga nascosto alla persona stessa, come il dàimon della religione greca che accompagna ogni uomo per tutta la sua vita, sempre presente dietro le sue spalle e quindi visibile solo a quelli con cui egli ha dei rapporti.
Questa capacità di rivelazione del discorso e dell’azione emerge quando si è con gli altri; non per, né contro altri, ma nel semplice essere insieme con gli altri. Sebbene nessuno sappia chi riveli quando si esprime con gesti e parole, egli deve tuttavia correre il rischio della rivelazione; un rischio che non può essere affrontato né dal benefattore, che dovrebbe essere ignoto a se stesso e conservare il più completo anonimato, né dal criminale, che deve nascondersi dagli altri. Si tratta di due figure solitarie, anche se una è a favore degli uomini e l’altra ostile ad essi; entrambi, quindi, rimangono estranei allo spazio delle relazioni umane e sono, politicamente, figure marginali che di solito entrano nella scienza della storia in tempi di corruzione, disintegrazione e bancarotta politica. Data questa sua inerente caratteristica di rivelare l’agente mentre agisce, l’azione ha bisogno per il suo completo manifestarsi della luce splendente che un tempo era chiamata gloria e che è possibile solo nella sfera pubblica. [VA pp. 129-131]
Senza il rivelarsi dell’agente nell’atto, l’azione perde il suo carattere specifico e diventa una forma di realizzazione tra le altre. Allora è un mezzo rivolto a uno scopo proprio come il fare è un mezzo per produrre un oggetto. E ciò avviene ogni volta che l’essere assieme degli uomini venga a mancare, quando cioè gli uomini sono solo per o contro gli altri, come per esempio nella condizione di guerra, in cui gli uomini entrano in azione e usano la violenza allo scopo di realizzare obiettivi per la propria parte e contro il nemico. In questi casi, che ovviamente sono sempre esistiti, il discorso diventa «mera chiacchiera», un semplice mezzo in più per raggiungere un fine, sia che serva a ingannare il nemico o a stordire con la propaganda; in questo caso le parole non rivelano nulla, la rivelazione viene solo dai semplici atti, e questo risultato, come ogni altro, non può rivelare il «chi», l’identità unica e distinta dell’agente.
In questa situazione, l’azione perde la qualità che la fa trascendere la mera attività produttiva, la quale, dall’umile fabbricazione degli oggetti d’uso all’ispirata creazione delle opere d’arte, non ha più significato di quanto ne riveli il prodotto finito e non intende mostrare più di quanto sia apertamente visibile al termine del processo di produzione. L’azione senza un nome, senza un «chi» che le sia annesso, è priva di significato, mentre un’opera d’arte mantiene la sua fisionomia sia che ne conosciamo sia che non ne conosciamo l’autore. I monumenti al «Milite Ignoto» dopo la Prima Guerra Mondiale testimoniano ancora il bisogno di glorificazione, di trovare un «chi», qualcuno identificabile che testimoniasse quattro anni di massacro di massa. La frustrazione di questo desiderio, e il rifiuto di rassegnarsi al fatto brutale che la guerra non era azione di nessuno, ispirò l’erezione dei monumenti agli «ignoti», a tutti coloro che la guerra non era riuscita a render noti e aveva quindi derubati, non della vittoria, ma della loro dignità umana.1 [VA pp. 131-132]
Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale. Questo impulso non ci viene imposto dalla necessità, come il lavoro, e non ci è suggerito dall’utilità, come l’operare. Può essere stimolato dalla presenza di altri di cui desideriamo godere la compagnia, ma non ne è mai condizionato. [...] Agire, nel senso generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare (come indica la parola greca archèin, «incominciare», «condurre», e anche «governare»), mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere). Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini stessi prendono l’iniziativa, sono pronti all’azione. [Initium] ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit («perché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno», dice Agostino nella sua filosofia politica).1 Questo inizio non è come l’inizio del mondo, 2 non è l’inizio di qualcosa ma di qualcuno, che è a sua volta iniziatore.
Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima. [VA pp. 128-129]
Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare. [...] L’azione, dal punto di vista dei processi automatici che sembrano determinare il corso del mondo, assomiglia a un miracolo. Nel linguaggio della scienza naturale, essa è l’«improbabilità infinita che si verifica regolarmente». [VA p. 182]
Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, «naturale» rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane la fede e la speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo che trova la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la «lieta novella» dell’Avvento: «Un bambino è nato fra noi». [VA p. 182]
L’idea che la libertà si identifichi con un inizio, oppure, sempre secondo Kant, con la spontaneità, ci è molto estranea, perché la nostra tradizione di pensiero concettuale e le sue categorie ci portano a identificare la libertà con il libero arbitrio, e a intendere il libero arbitrio come libertà di scelta tra elementi dati (grosso modo il bene e il male), ma non come libertà di volere semplicemente che questo o quello sia così o così. Naturalmente questa tradizione ha i suoi buoni motivi, di cui non possiamo occuparci in questa sede, ed è stata eccezionalmente rinsaldata dalla convinzione, diffusasi fin dalla tarda antichità, che la libertà non solo non risieda nell’agire e nel politico, ma che anzi sia possibile solo se l’uomo rinuncia all’agire, si ritrae dal mondo ed evita la sfera politica. [CP pp. 26-27]
È nella natura del cominciamento che qualcosa di nuovo possa iniziare senza che possiamo prevederlo in base ad accadimenti precedenti. Questo carattere di sorpresa iniziale è inerente a ogni cominciamento e a ogni origine. Così l’origine della vita della materia inorganica è un’infinita improbabilità, dei processi inorganici, proprio come la nascita della terra dal punto di vista dei processi dell’universo, o l’evoluzione della vita umana dalla vita animale. Il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici, quotidiani, corrisponde alla certezza; il nuovo quindi appare sempre alla stregua del miracolo. Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità. Di questo qualcuno che è unico si può fondatamente dire che prima di lui non c’era nessuno. [VA p. 129]
Senza azione e discorso, senza l’intervento della natalità, saremmo condannati a muoverci per sempre nel ciclo ricorrente del divenire. [...] Abbiamo visto che ai mortali questa fatalità naturale può suonare come condanna. Se fosse vero che la fatalità è il marchio inalienabile dei processi storici, sarebbe egualmente vero che tutto ciò che nella storia si compie è predestinato. E fino a un certo punto ciò è vero. Se lasciate a se stesse, le faccende umane possono solo seguire la legge della mortalità, che è la più certa e implacabile legge di una vita spesa tra la nascita e la morte. È la facoltà dell’azione che interferisce con questa legge perché interrompe l’inesorabile corso automatico della vita quotidiana, che, a sua volta, abbiamo visto interferire col ciclo del processo vitale biologico, e interromperlo. Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione, e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare. Tuttavia, proprio come, dal punto di vista della natura, il movimento rettilineo del corso della vita dell’uomo tra la nascita e la morte sembra una peculiare deviazione dalla comune regola naturale del movimento ciclico, così l’azione, dal punto di vista dei processi automatici che sembrano determinare il corso del mondo, assomiglia a un miracolo. Nel linguaggio della scienza naturale, essa è «l’improbabilità infinita che si verifica regolarmente». [VA pp. 181-182]
Il perdono è l’esatto opposto della vendetta, che consiste nel reagire contro un’offesa originale e, lungi dal porre un termine alle conseguenze del primo errore, lega ognuno al processo, permettendo alla reazione a catena, implicita in ogni azione, di imboccare un corso sfrenato. Diversamente dalla vendetta, che è la naturale, automatica reazione alla trasgressione e che, per effetto dell’irreversibilità del processo dell’agire, può essere prevista e anche calcolata, l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell’azione. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione che non si limita a reagire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata. La libertà contenuta nell’insegnamento di Gesù è la libertà dalla vendetta che imprigiona chi fa e chi soffre nell’automatismo implacabile del processo dell’azione, che non ha in sé alcuna tendenza a finire. [...] Il perdono e la relazione che esso stabilisce sono sempre questioni eminentemente personali (anche se non necessariamente individuali o private) in cui ciò che fu fatto è perdonato a chi lo ha fatto. Anche questo fu chiaramente riconosciuto da Gesù («I suoi peccati, che sono molti, saranno perdonati; perché essa ha molto amato: poco ama chi poco è stato perdonato»), ed è la ragione della convinzione corrente che solo l’amore ha il potere di perdonare. [VA pp. 177-178]
A differenza della natura, la storia è piena di eventi. [TP p. 226]
Nel Nuovo Testamento il vocabolo ha molti significati ed è di ardua comprensione: qui possiamo tralasciare le difficoltà e riferirci soltanto a quei passi in cui il «miracolo» non è l’evento soprannaturale, ma solo l’evento che possiede il requisito di ogni miracolo, sia opera umana o divina, ossia il costituire un’interruzione in qualche serie di eventi della natura, in qualche processo automatico, rispetto ai quali il miracolo è, in assoluto, l’inatteso imprevisto. [TP p. 223]
È proprio di ogni nuovo inizio di irrompere nel mondo come «un’infinita improbabilità»; pure, questo infinitamente improbabile costituisce di fatto il tessuto di tutto quanto si chiama reale. In fondo, tutta la nostra esistenza si direbbe fondata su una catena di miracoli: prima la formazione della terra e poi, su questa, la nascita della vita organica, e infine l’evolversi dell’uomo dalle specie animali. Se consideriamo i processi che si svolgono nell’universo e nella natura (favoriti da probabilità schiaccianti dal punto di vista statistico), il formarsi della terra (nel corso dei processi cosmici), la vita organica (che si forma partendo da processi inorganici) e infine la nascita dell’uomo (dai processi della vita organica), ci appariranno tutti come «infinite improbabilità»: ossia, nel linguaggio quotidiano, «miracoli». Proprio a causa dell’elemento «miracoloso», presente in ogni realtà, gli eventi, per quanto possono essere anticipati da timori o speranze, quando si verificano ci sorprendono e ci scuotono. La stessa forza d’urto di un evento non potrà mai essere spiegata fino in fondo: in linea di principio, il «fatto» supera ogni previsione.
L’esperienza che ci fa vedere un miracolo in ogni evento non è né arbitraria né artificiosa, anzi è naturalissima, nella vita di tutti i giorni.
[...] Non è per nulla superstizioso, anzi è realistico cercare quel che non si può prevedere. [TP p. 225]