V

LA TERAPIA DEL DESIDERIO

Il filosofo non è più il pensatore che esamina e analizza qualunque cosa possa farglisi incontro, ma l’uomo che si è educato a non «volgersi» mai alle «cose esterne», ovunque gli capiti di trovarsi.

H. Arendt, La vita della mente

La filosofia di Epitteto

Epitteto si considerava un filosofo e definì l’oggetto precipuo della filosofia come «l’arte del vivere la propria vita».1 Quest’arte consisteva principalmente nell’avere un argomento a portata di mano per ogni emergenza, per ogni situazione di acuta infelicità. Il punto di partenza di Epitteto era l’antico omnes homines beati esse volunt, tutti gli uomini desiderano essere felici, e l’unico problema per la filosofia era di scoprire come arrivare a questa meta naturale e scontata. Tuttavia, in sintonia con lo stato d’animo del suo tempo e in contrasto con l’era pre-cristiana, Epitteto era persuaso che la vita, come si dà su questa terra, con l’inevitabile conclusione della morte, abitata perciò da timore e tremore, fosse incapace di offrire un’autentica felicità senza uno sforzo speciale da parte della volontà dell’uomo. La «felicità» mutò così il proprio significato: non era più intesa come eudaimonìa, l’attività dell’ eu zen, del vivere bene, bensì come euròia bìou, metafora stoica indicante una vita che scorre liscia, non toccata da tempeste, burrasche o ostacoli. [VM p. 390]

 

 

La filosofia poteva insegnare «i procedimenti razionali», gli argomenti, «come armi lucenti e pronte all’uso»,2 da dirigersi contro la miseria della vita reale. La ragione scopre che ciò che mette in angustia non è la morte che minaccia dall’esterno, ma la paura della morte dentro di sé, non il dolore ma la paura del dolore. [... ] Dunque, la sola cosa da temere giustamente è la paura stessa, e se gli uomini non possono sfuggire alla morte e al dolore, possono però convincersi a superare la paura dentro di sé, coll’eliminare le impressioni che le cose paurose hanno stampato nella loro mente. [VM pp. 390-391 ]

 

 

Per realizzare il ritrarsi estremo dalla realtà richiesto da Epitteto, infatti, l’accento sulla capacità del pensiero di render presente ciò che è assente si sposta dalla riflessione all’immaginazione. Non nel senso dell’immaginarsi utopico di un mondo diverso e migliore; lo scopo, piuttosto, è di intensificare la distrazione originaria del pensiero fino al punto in cui la realtà scompaia del tutto. Se il pensiero consiste di norma nella facoltà di rendere presente ciò che è assente, la facoltà di Epitteto di «trattare le impressioni nel modo giusto» consiste nell’esorcizzare e rendere assente ciò che in realtà è presente. [VM p. 247]

 

 

Per il filosofo, l’efficacia di questo distogliersi dal mondo in favore dell’io è indubbia. Sul piano esistenziale, Parmenide aveva torto quando affermava che soltanto l’Essere è lo stesso del pensiero. Anche il non-Essere è pensabile se è la volontà a comandare la mente. La sua capa città di ritrarsi si perverte allora in un potere di annienta mento, il nulla diventa un sostituto globale della realtà, poiché il nulla apporta sollievo. Sollievo, beninteso senza realtà, meramente psicologico: un sedativo per l’ansia e la paura. Nonostante tutto non riesco a persuadermi che sia mai esistito qualcuno capace di restare padrone delle sue «impressioni» mentre era arrostito nel Toro di Falaride. [VM p. 249]

 

 

Il filosofo non è più il pensatore che esamina e analizza qualunque cosa possa farglisi incontro, ma l’uomo che si è educato a non «volgersi» mai alle «cose esterne», ovunque gli capiti di trovarsi. [VM p. 391]

 

 

Il fatto è che non si è più costretti a uscire da se stessi se la propria preoccupazione è tutta per il «se stessi». Solo nella misura in cui la mente è in grado di trarre le cose dentro di sé queste ultime assumono qualche valore. Una volta che la mente si sia ritratta dalle cose esterne nell’interiorità delle proprie impressioni, essa scopre insieme che [...] è del tutto indipendente da ogni influenza esterna. [VM pp. 393-394]

 

 

Il criterio di ogni filosofia consiste pertanto nella sua utilità per il bisogno di condurre una vita affrancata dal dolore. Più specificamente, la filosofia insegna determinate linee di pensiero in grado di sconfiggere l’innata impotenza dell’uomo. [VM p. 394]

 

 

Di conseguenza, la prima decisione della volontà è di nonvolere ciò che non può ottenere e di cessare di opporsi a ciò che non può evitare; in una parola, non interessarsi di nulla su cui non abbia potere. [VM pp. 394-395]

 

 

Tutto ciò che sembra reale, il mondo delle apparenze, ha bisogno del mio consenso per essere reale per me. E a tale consenso non mi si può obbligare: se lo rifiuto, allora la realtà del mondo scompare, come se non fosse che un’apparizione [apparition]. [VM p. 395]

 

 

Rifiutare il consenso e porre tra parentesi la realtà non costituiscono affatto un esercizio di puro pensiero: devono mettersi alla prova nella circostanza concreta. [VM p. 395]

 

 

Sii di sasso e sarai invulnerabile. Ataraxìa, invulnerabilità, è tutto ciò di cui hai bisogno per sentirti libero, quando avrai scoperto che la realtà stessa dipende dal tuo consenso a riconoscerla come tale. Come quasi tutti gli Stoici, Epitteto riconosceva che la vulnerabilità del corpo pone certi limiti a questa libertà interiore. Non potendo negare che non sono semplicemente le voglie e i desideri a renderci schiavi, ma anche «le catene che ci avvinghiano con le fattezze di un corpo»,3 gli Stoici erano perciò costretti a dimostrare che tali catene non erano infrangibili. [VM p. 396]

 

 

Questa dottrina dell’invulnerabilità e dell’apatia (apàtheia) — come salvaguardarsi dalla realtà, come perdere la propria attitudine a esserne toccati, nel bene come nel male, nella gioia come nel dolore — sembra così palesemente esposta alla configurazione che l’influenza enorme, emotiva non meno che argomentativa, esercitata dallo Stoicismo su alcune delle migliori menti dell’umanità appare pressoché incomprensibile. In Agostino, tale confutazione appare nella forma più concisa e plausibile. Gli Stoici, egli afferma, hanno scoperto il trucco per fingere di essere felici: «Poiché non può ottenere ciò che vuole, vuole ciò che può ottenere» («Ideo igitur id vult quod potest, quoniam quod vult non Potest»).4 Per di più, prosegue Agostino, se gli Stoici presuppongono che «tutti gli uomini per natura desiderano essere felici», non credono però nell’immortalità, per lo meno non nella risurrezione della carne, cioè in una futura vita immortale, e ciò costituisce una contraddizione in termini. Infatti, «qualora realmente tutti gli uomini vogliano essere felici, necessariamente debbono anche voler essere immortali... Per vivere felicemente si deve in primo luogo essere vivi». [...] Detto altrimenti, i mortali non possono essere felici e, in fondo, l’insistenza degli Stoici sulla paura della morte come fonte ispiratrice d’infelicità ne è la riprova; tutt’al più essi possono ottenere di rendersi «apatici», non turbati né dalla vita né dalla morte. [VM pp. 396-397]