VI

L’IDEOLOGIA

Il pensiero ideologico diventa indipendente da ogni esperienza, che non può comunicargli nulla di nuovo neppure se si tratta di un fatto appena accaduto.

H. Arendt, Le origini del totalitarismo

Il pregiudizio

Il fatto che i pregiudizi svolgano un ruolo così straordinariamente grande nella vita quotidiana, e dunque nella politica, non è di per sé deplorevole; e per nessun motivo dovremmo cercare di cambiare le cose. Nessuno infatti può vivere senza pregiudizi; e non solo perché nessuno è abbastanza intelligente o assennato da riuscire a dare un giudizio originale su tutto ciò che nel corso della sua vita gli viene richiesto di giudicare, ma perché una tale mancanza di pregiudizi esigerebbe una vigilanza sovrumana. [CP p. 12]

 

 

Evidentemente, all’interno della vita quotidiana questa legittimità del pregiudizio come misura del giudizio ha i suoi limiti. In primo luogo ha valore soltanto per i veri pregiudizi, quelli cioè che non pretendono di essere dei giudizi. [CP p. 13]

 

 

Uno dei motivi dell’efficacia e della pericolosità dei pregiudizi è che in essi si cela sempre un pezzo di passato. A ben vedere, un vero pregiudizio si riconosce anche perché in esso si cela un giudizio formulato tempo addietro, il quale in origine aveva un fondamento empirico, legittimo e pertinente, e si è mutato in pregiudizio soltanto perché si è trascinato attraverso gli anni senza controlli o revisioni. [CP p. 14]

 

 

Il rischio del pregiudizio sta proprio nel suo essere in realtà sempre ben radicato nel passato, cosicché esso non solo previene e ostacola il giudizio ma, oltre al giudizio, impedisce anche un’effettiva esperienza del presente. [CP p. 14]

 

 

Se la funzione del pregiudizio consiste nel preservare l’uomo che giudica dall’obbligo di esporsi apertamente e di affrontare intellettualmente ogni realtà che incontra, allora le Weltanschauungen e le ideologie svolgono quel compito così bene da proteggere da ogni esperienza, giacché in esse tutto il reale sembrerebbe in qualche modo previsto. [CP pp. 15-16]

La pretesa scientifica

Le ideologie — «ismi» che, per la soddisfazione dei loro aderenti, possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa — sono un fenomeno molto recente e, per parecchi decenni, hanno avuto una parte trascurabile nella vita politica. Solo col senno di poi possiamo rintracciare in esse certi elementi che le hanno rese così utili per il dominio totalitario, tanto che le loro grandi potenzialità politiche non sono state scoperte prima di Hitler e Stalin.

Le ideologie sono note per il loro carattere scientifico: esse combinano l’approccio scientifico con risultati di rilevanza filosofica e pretendono di essere una filosofia scientifica. La parola «ideologia» sembra implicare che un’idea possa divenire materia di studio di una scienza, come gli animali lo sono per la zoologia, e che il suffisso -logia di ideologia, come in zoologia, non indichi altro che i logoi, le affermazioni scientifiche in proposito. Se ciò fosse vero, un’ideologia sarebbe in verità una pseudoscienza e una pseudofilosofia, infrangendo al tempo stesso le limitazioni della scienza e quelle della filosofia. Il deismo, ad esempio, sarebbe l’ideologia che considera l’idea di Dio, di cui si occupa la filosofia nella maniera scientifica della teologia, per la quale Dio è una realtà rivelata (una teologia che non si basasse sulla rivelazione come realtà data, e trattasse Dio come un’idea, non sarebbe meno folle di una zoologia non più sicura dell’esistenza fisica tangibile degli animali). Sappiamo però che questa è soltanto una parte della verità. Pur negando la rivelazione divina, il deismo non si limita a fare delle affermazioni «scientifiche» su un Dio che è soltanto un’«idea», ma si serve dell’idea di Dio per spiegare il corso del mondo. Le «idee» degli «ismi» — la razza nel razzismo, Dio nel deismo ecc. — non costituiscono mai la materia delle ideologie e il suffisso -logia non indica mai semplicemente un insieme di affermazioni «scientifiche». [OT pp. 641-642]

La logica dell’idea

Un’ideologia è letteralmente quello che sta a indicare: è la logica di un’idea. La sua materia è la storia, a cui l’«idea» è applicata; il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo. L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa «legge» dell’esposizione logica della sua «idea». Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico — i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro — in virtù della logica inerente alla sua «idea».

Le ideologie non si interessano mai del miracolo dell’essere. Sono storiche, si occupano del divenire e del perire, dell’ascesa e del declino delle civiltà, anche se cercano di spiegare la storia con qualche «legge di natura». La parola «razza» nel razzismo non denota una genuina curiosità circa le razze umane come oggetto di esplorazione scientifica, ma è l’«idea» mediante la quale il movimento della storia viene interpretato come un processo coerente.

L’«idea» di un’ideologia non è l’eterna essenza di Platone, afferrata dagli occhi della mente, né il kantiano principio regolativo della ragione, ma è diventata uno strumento di interpretazione. La storia non appare alla luce di un’idea (quindi sub specie di eternità ideale al di là del movimento storico), ma come qualcosa che può essere calcolato per mezzo di essa. Quel che adatta l’«idea» al nuovo ruolo è la sua logica intrinseca, il processo che scaturisce da essa ed è indipendente da qualsiasi fattore esterno. Il razzismo è la convinzione che nel concetto di razza sia già contenuto un movimento; altrettanto dicasi del deismo per quanto concerne Dio.

Si suppone che il movimento della storia e il processo logico del concetto corrispondano l’uno all’altro, di modo che quanto avviene, avviene secondo la logica di un’idea. Tuttavia, l’unico movimento possibile nel regno della logica è il processo di deduzione da una premessa. La logica dialettica, col suo procedere dalla tesi all’antitesi e poi alla sintesi, che a sua volta diventa la tesi del successivo movimento dialettico, non è diversa in linea di principio, una volta che un’ideologia se ne impadronisca; la prima tesi diventa la premessa, e il vantaggio del congegno dialettico per la spiegazione ideologica è che può giustificare le contraddizioni di fatto come stadi di un unico movimento coerente.

Appena la logica come movimento di pensiero — e non come suo necessario controllo — viene applicata a un’idea, questa si trasforma in una premessa. Le visioni ideologiche del mondo hanno compiuto questa operazione molto prima che diventasse così fruttuosa per il ragionamento totalitario. La coercizione puramente negativa della logica, la messa al bando delle contraddizioni, diventava «produttiva», di modo che tutta una linea di pensiero poteva essere iniziata, e imposta alla mente, traendo conclusioni nella maniera della mera argomentazione. Questo processo argomentativo non poteva essere interrotto né da una nuova idea (che sarebbe stata un’altra premessa con una diversa serie di conseguenze) né da una nuova esperienza.

Le ideologie ritengono che una sola idea basti a spiegare ogni cosa nello svolgimento della premessa, e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo coerente di deduzione logica. Il pericolo inerente al passaggio dall’inevitabile insicurezza del pensiero filosofico alla spiegazione totale di un’ideologia e della sua Weltanschauung non consiste tanto nel lasciarsi irretire da un’ipotesi spesso volgare, ma sempre acritica, quanto nell’abbandonare la libertà implicita nella capacità di pensare per la camicia di forza della logica, mediante la quale l’uomo può farsi violenza quasi con la stessa brutalità usata da una forza esterna. [OT pp. 642-644]

L’ideologia è impermeabile all’esperienza

Le Weltanschauungen del XIX secolo non erano di per sé totalitarie. E il razzismo e il comunismo non lo erano in linea di massima più delle altre; se sono diventati le ideologie determinanti del XX secolo, è stato perché gli elementi dell’esperienza su cui erano originariamente basati (la lotta fra le razze per il dominio del mondo, la lotta fra le classi per il potere nei vari paesi) si sono rivelati politicamente più importanti di quelli delle altre ideologie. In tal senso, la vittoria ideologica del razzismo e del comunismo su tutti gli altri «ismi» è stata decisa prima che i movimenti totalitari se ne impadronissero. D’altronde, benché tutte le ideologie contengano elementi totalitari, questi sono pienamente sviluppati soltanto da tali movimenti, e ciò suscita l’impressione erronea che solo il razzismo e il comunismo abbiano un carattere totalitario. La verità è piuttosto che la natura di ogni ideologia si è rivelata esclusivamente nel ruolo da essa svolto nell’apparato del totalitarismo. A tale riguardo si notano tre elementi specificamente totalitari che sono comuni a qualsiasi tipo di pensiero ideologico.

Anzitutto, nella loro pretesa di spiegazione totale, le ideologie hanno la tendenza a spiegare non quel che è, ma quel che diviene, quel che nasce e muore. Esse si occupano in ogni caso soltanto dell’elemento di movimento, cioè della storia nel senso usuale della parola. Sono sempre orientate verso la storia anche quando, come nel caso del razzismo, partono dalla premessa della natura; questa serve semplicemente a spiegare i fatti storici riducendoli a fatti naturali. Ci si ripromette di far luce su tutti gli avvenimenti storici, di ottenere una spiegazione totale del passato, una completa valutazione del presente, un’attendibile previsione del futuro.

In secondo luogo, il pensiero ideologico diventa indipendente da ogni esperienza, che non può comunicargli nulla di nuovo neppure se si tratta di un fatto appena accaduto. Emancipandosi così dalla realtà percepita coi cinque sensi, esso insiste su una realtà «più vera», che è nascosta dietro le cose percettibili, dominandole tutte, e che si avverte soltanto disponendo di un sesto senso. Questo è fornito appunto dall’ideologia, da quel particolare indottrinamento che viene impartito negli istituti appositamente creati per l’educazione di «soldati politici», nelle Ordensburgen naziste o nelle scuole del Comintern e del Cominform. Anche la propaganda del movimento totalitario serve a staccare il pensiero dall’esperienza e dalla realtà, sforzandosi sempre di attribuire un significato segreto a ogni avvenimento pubblico e un intento cospirativo a ogni atto politico. Una volta giunto al potere, il movimento procede a mutare la realtà secondo i suoi postulati ideologici. Il concetto di inimicizia viene sostituito da quello di congiura, e ciò produce una mentalità che spinge a sospettare sempre qualcosa di diverso dietro l’esperienza del reale, dietro la realtà dell’inimicizia o dell’amicizia.

In terzo luogo, poiché non hanno alcun potere di trasformare la realtà, le ideologie ottengono tale emancipazione del pensiero dall’esperienza ricorrendo a certi metodi di dimostrazione. Esse ordinano i fatti in un meccanismo assolutamente logico che parte da una premessa accettata in modo assiologico, deducendone ogni altra cosa; procedendo così con una coerenza che non esiste affatto nel regno della realtà. La deduzione può avvenire logicamente o dialetticamente; in entrambi i casi comporta un’argomentazione uniforme che, in quanto pensiero in termini di processo, dovrebbe essere in grado di comprendere il movimento dei processi sovrumani, naturali o storici. La comprensione ha luogo perché l’intelletto imita, logicamente o dialetticamente, le leggi dei movimenti «scientificamente» accertati e con l’imitazione si inserisce in essi. [OT pp. 644-645]

La premessa dell’ideologia

Tale argomentazione, che è sempre una specie di deduzione logica, si adegua perfettamente agli altri due elementi delle ideologie — quello del movimento e quello dell’emancipazione dalla realtà e dall’esperienza — perché il suo movimento di pensiero non deriva dall’esperienza, ma si genera da sé, e poggia su un unico punto tratto dalla realtà sperimentata e trasformato in una premessa assiomatica, rimanendo nel suo sviluppo completamente immune da qualsiasi esperienza ulteriore. Una volta stabilita la premessa, il punto di partenza, il pensiero ideologico rifiuta gli insegnamenti della realtà. [OT pp. 645-646]

La freddezza del ragionamento

Il metodo usato dai dittatori totalitari per trasformare le rispettive ideologie in armi con cui costringere ciascuno dei sudditi a mettersi al passo col movimento del terrore era poco appariscente. L’uno si vantava della «freddezza glaciale del ragionamento» (Hitler), l’altro dell’«inesorabilità della sua dialettica», e spingevano le implicazioni a estremi di coerenza logica che, all’osservatore, apparivano ridicolmente «primitivi» e assurdi: una «classe in via di estinzione» consisteva di gente condannata a morte; le razze «inadatte a vivere» venivano sterminate. Chi ammetteva che esistevano «classi in via di estinzione» senza trarre da tale fatto la conseguenza dell’uccisione dei loro membri, o riconosceva che il diritto alla vita era legato alla razza senza trarre la conseguenza dell’eliminazione delle «razze inadatte», era semplicemente o uno stupido o un codardo.

Questa logicità stringente, in quanto guida dell’azione, permea l’intera struttura dei movimenti e dei regimi totalitari. È stata esclusivamente opera di Hitler e di Stalin che, pur non avendo aggiunto una sola idea nuova al bagaglio teorico e propagandistico dei loro movimenti, devono esser considerati per questa ragione ideologi della massima importanza.

A differenza dei loro predecessori, essi non erano più attratti principalmente dal contenuto originario dell’ideologia — la lotta di classe e lo sfruttamento degli operai, o il conflitto delle razze e la difesa dei popoli germanici — bensì dal processo logico che da esso si poteva sviluppare. Secondo Stalin, né l’idea né l’oratoria, ma «l’irresistibile forza della logica soggiogava completamente l’uditorio» di Lenin.

Il potere che, secondo Marx, l’idea assumeva conquistando le masse veniva ora attribuito, non già all’idea stessa, bensì al suo processo logico che, «al pari di un poderoso tentacolo, vi afferra da tutte le parti come in una morsa e dalla cui stretta siete impotenti a liberarvi; dovete arrendervi o rassegnarvi a una completa disfatta».1 Solo quando era in gioco la realizzazione degli obiettivi ideologici, la società senza classi o la razza dominatrice, la sostanza originaria su cui le ideologie si basavano finché dovevano rivolgersi alle masse — lo sfruttamento dei lavoratori o le aspirazioni nazionali della Germania — andava gradualmente perduta, distrutta, per così dire, dal processo stesso. In conformità alla «freddezza glaciale del ragionamento» e all’«irresistibile forza della logica», gli operai russi perdevano sotto il regime staliniano persino quei diritti che avevano strappato all’oppressione zarista e il popolo tedesco subiva uno stato di guerra permanente che non si curava affatto della sua sopravvivenza. È nella natura della politica ideologica — e non un semplice tradimento commesso per interesse personale o smania di potere — che il vero contenuto dell’ideologia (la classe operaia o i popoli germanici), originariamente alla base dell’«idea» (la lotta di classe come legge della storia o la lotta delle razze come legge della natura), venga distrutto dalla logica con cui tale «idea» è attuata.

La preparazione delle vittime e degli esecutori, che il regime totalitario richiede al posto del principio d’azione di Montesquieu, non è l’ideologia stessa — il razzismo o il materialismo dialettico — ma la sua logicità intrinseca.

L’argomento più persuasivo a tale riguardo, e caro a Hitler come a Stalin, era: non si può dire A senza dire B e C e così via, sino alla fine dell’alfabeto. La forza coercitiva della logicità sembra avere qui la sua fonte; deriva dal nostro timore di contraddirci. Le epurazioni staliniane riuscivano a ottenere dalle vittime la confessione di crimini che non avevano mai commesso facendo leva principalmente su tale timore e sul seguente ragionamento: siamo tutti d’accordo sulla premessa che la storia è lotta di classe e sul ruolo del partito nella sua condotta. Tu sai bene perciò che, storicamente parlando, il partito ha sempre ragione (nelle parole di Trockij: «Si può aver ragione soltanto con e nel partito, perché la storia non ha provveduto altro modo per essere nel giusto»). In conformità al processo storico oggettivo il partito deve ora punire determinati crimini, che devono inevitabilmente avvenire in questo momento. Per questi crimini il partito ha bisogno di responsabili; può darsi che esso, pur conoscendo i crimini, non conosca assolutamente i colpevoli. Più importante dell’identità di questi è, comunque, la punizione dei crimini, perché senza di essa la storia, anziché avanzare, sarà forse ostacolata nel suo corso. Quindi, o hai commesso i crimini o sei stato chiamato dal partito a fare la parte del criminale: in ogni caso sei diventato oggettivamente nemico del partito. Se non confessi, cessi di aiutare la storia tramite il partito e sei un nemico vero.

La forza del ragionamento sta in questa prospettiva: se rifiuti, contraddici te stesso e, con tale contraddizione, privi di ogni senso la tua vita. [OT pp. 646-648]

La tirannia della logicità e la libertà

Per la limitata mobilitazione popolare, di cui pure essi hanno ancora bisogno, i regimi totalitari contano sulla coercizione con cui ci facciamo violenza nel timore di perderci nelle contraddizioni. Questa coercizione interiore è la tirannia della logicità, alla quale non si oppone altro che la grande capacità umana di dare inizio a qualcosa di nuovo. La tirannia della logicità comincia con la sottomissione della mente alla logica come processo senza fine, su cui l’uomo si basa per produrre le sue idee. Con tale sottomissione egli rinuncia alla sua libertà interiore (come rinuncia alla sua libertà di movimento quando si inchina a una tirannia esterna) . La libertà in quanto intima capacità umana si identifica con la capacità di cominciare, come la libertà in quanto realtà politica si identifica con uno spazio di movimento fra gli uomini. Sull’inizio nessuna logica, nessuna deduzione cogente ha alcun potere, perché la sua catena presuppone l’inizio, sotto forma di premessa. Come il ferreo vincolo del terrore è inteso a impedire che, con la nascita di ogni nuovo essere umano, un nuovo inizio prenda vita e levi la sua voce nel mondo, così la forza autocostrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a pensare, un’attività che, essendo la più libera e pura fra quelle umane, è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione. [OT p. 648]

La perdita delle relazioni costitutive

Il regime totalitario può esser sicuro solo nella misura in cui riesce a mobilitare la forza di volontà dell’uomo per inserirlo in quel gigantesco movimento della storia o della natura che usa l’umanità come suo materiale e non conosce né nascita né morte.

La coercizione del terrore totale, che irreggimenta le masse di individui isolati e le sostiene in un mondo che per esse è diventato un deserto, e la forza autocostrittiva della deduzione logica, che prepara ciascun individuo nel suo isolamento contro tutti gli altri, si completano a vicenda per far marciare il movimento. Come il terrore, anche nella sua forza pretotale, semplicemente tirannica, distrugge tutti i legami fra gli uomini, così l’autocostrizione del pensiero ideologico distrugge tutti i legami con la realtà. La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto coi loro simili e con la realtà che li circonda; perché, insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero. Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso, non esiste più. [OT pp. 648-649]

L’isolamento dell’io

Ritorniamo ora a un problema sollevato all’inizio di queste considerazioni: quale esperienza di base, nella convivenza umana, permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore e il suo principio d’azione nella logicità del pensiero ideologico? È evidente che una simile combinazione non è mai stata usata prima nelle varie forme di dominio politico, e che l’esperienza su cui essa si fonda deve essere umana e nota agli uomini, in quanto anche questo, che è il più «originale» dei corpi politici, è stato inventato dagli uomini e in qualche modo risponde ai loro bisogni.

Si è spesso osservato che il terrore può imperare con assolutezza solo su individui isolati l’uno dall’altro e che quindi una delle prime preoccupazioni di ogni regime tirannico è quella di creare tale isolamento. L’isolamento può essere l’inizio del terrore; ne è certamente il terreno più fertile; ne è sempre il risultato. Esso è, per così dire, pretotalitario; la sua caratteristica è l’impotenza, in quanto il potere deriva sempre da uomini che operano insieme, che «agiscono di concerto» (Burke); gli individui isolati sono impotenti per definizione.

L’isolamento e l’impotenza, cioè la fondamentale incapacità di agire, sono sempre stati tipici delle tirannidi. In queste, i contatti politici fra gli individui sono spezzati e le capacità di azione e di potere frustrate. Ma non tutti i contatti sono interrotti, non tutte le capacità umane distrutte. L’intera sfera della vita privata con le capacità di esperienza, creazione e pensiero rimane intatta. Sappiamo ora che il ferreo vincolo del terrore totale non lascia alcuno spazio per tale sfera e che l’autocostrizione della logica totalitaria distrugge la capacità umana di esperienza e di pensiero, oltre che quella di azione. [OT pp. 649-650]

L’estraneazione

Quel che si chiama isolamento nella sfera politica prende il nome di estraneazione nella sfera dei rapporti sociali. L’isolamento e l’estraneazione non sono la stessa cosa. Posso essere isolato — cioè in una situazione in cui non posso agire perché non c’è nessuno disposto ad agire con me — senza essere estraniato; e posso essere estraniato — cioè in una situazione in cui come persona mi sento abbandonato dal consorzio umano — senza essere isolato.

L’isolamento è quel vicolo cieco in cui gli uomini si trovano spinti quando viene distrutta la sfera politica della loro vita, la sfera in cui essi operano insieme nel perseguimento di un interesse comune.

Ma, per quanto lesivo del potere e della capacità di azione, esso lascia intatte le attività creative e, anzi, risponde a una loro esigenza. L’uomo, in quanto è homo faber, tende a isolarsi con la sua opera, a lasciare temporaneamente il regno della politica. A differenza dell’azione (pràxis) e della fatica bruta, la creazione (pòiesis, la fabbricazione delle cose) viene sempre compiuta in un certo isolamento dalle faccende comuni, a prescindere dal fatto che ne risulti un pezzo artigianale o un’opera d’arte.

Nell’isolamento l’uomo rimane in contatto col mondo come artificio umano; solo quando viene distrutta la forma più eloquente di creatività, la capacità di aggiungere qualcosa di proprio al mondo comune, l’isolamento diventa insopportabile. Ciò può avvenire in un mondo dove i principali valori sono dettati dalla fatica, dove tutte le attività umane sono state trasformate in fatica. In tali condizioni non rimane altro che lo sforzo bruto, compiuto per mantenersi in vita, dato che sono rotti i rapporti col mondo come artificio umano. L’individuo isolato, che ha perso il suo posto nel regno politico dell’azione, è abbandonato anche dal mondo delle cose se è considerato, non più un homo faber, ma un animal laborans il cui necessario «metabolismo con la natura» non interessa più nessuno. L’isolamento diventa allora estraneazione. La tirannide basata sull’isolamento lascia generalmente intatte le capacità creative dell’uomo; ma la tirannide imposta a «uomini di fatica», ad esempio a un popolo di schiavi nell’antichità, diviene automaticamente un dominio esercitato su individui estraniati, oltre che isolati, e tende a essere totalitaria.

Mentre l’isolamento concerne solo l’aspetto politico della vita, l’estraneazione concerne la vita umana nel suo insieme. Il regime totalitario, al pari di ogni tirannide, non può certo esistere senza distruggere con l’isolamento le capacità politiche degli uomini. Ma esso, come forma di governo, è nuovo in quanto, lungi dall’accontentarsi dell’isolamento, distrugge anche la vita privata. Si basa sull’estraneazione, sul senso di non appartenenza al mondo, che è fra le più radicali e disperate esperienze umane.

L’estraneazione, che è il terreno comune del terrore, l’essenza del regime totalitario e, per l’ideologia, la preparazione degli esecutori e delle vittime, è strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che, dopo essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall’inizio della rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere dell’imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo sfacelo delle istituzioni politiche e delle tradizioni sociali della nostra epoca.

Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo. Lo sradicamento può essere la condizione preliminare della superfluità, come l’isolamento può esserlo dell’estraneazione. Presa in sé, prescindendo dalle sue recenti cause storiche e dal suo nuovo ruolo politico, l’estraneazione è allo stesso tempo contraria alle esigenze fondamentali della condizione umana e una delle esperienze basilari della vita di ognuno. Persino l’esperienza del mondo materiale dipende dal nostro contatto con gli altri uomini, dal nostro senso comune che regola e controlla tutti gli altri sensi e senza il quale ognuno di noi resterebbe rinchiuso nella sua particolarità di dati sensibili, di per sé inattendibili e ingannevoli. Solo perché abbiamo il senso comune, cioè solo perché gli uomini, e non un uomo solo, abitano la terra, possiamo fidarci dell’esperienza immediata dei nostri sensi. Eppure, basta ricordare che un giorno dovremo lasciare questo mondo comune, che andrà avanti come prima e per la cui continuità siamo superflui, per rendersi conto dell’estraneazione, del senso di abbandono da parte di tutto e di tutti. [OT pp. 650-652]

Estraneazione e solitudine

L’estraneazione non è solitudine. La solitudine richiede che si sia soli, mentre l’estraneazione si fa sentire più acutamente in compagnia di altri. A parte alcune osservazioni di sfuggita — usualmente formulate in tono paradossale, come la frase di Catone (riferita da Cicerone, De republica I, 17): «mai ero meno solo di quando ero solo» o, meglio, «mai era meno estraniato di quando si trovava in solitudine» — sembra che Epitteto, lo schiavo filosofo di origine greca, sia stato il primo a distinguere tra estraniamento e solitudine. La sua scoperta fu in un certo senso accidentale, dato che il suo interesse era rivolto principalmente non alla solitudine o all’estraneazione, bensì all’essere da solo (mònos) nel senso dell’indipendenza assoluta. Stando a Epitteto (Dissertationes 3, 13), l’uomo estraniato (éremos) si trova circondato da altri con cui non può stabilire un contatto o alla cui ostilità è esposto. L’uomo solitario, invece, «può essere insieme con se stesso», perché gli uomini hanno la capacità di «parlare con se stessi». Nella solitudine, in altre parole, sono con me stesso, e perciò «due-in-uno», mentre nell’estraneazione sono effettivamente uno, abbandonato da tutti. La riflessione, in senso stretto, si svolge in solitudine ed è un dialogo fra me e me; ma questo dialogo del «due-in-uno» non perde il contatto col mondo dei suoi simili, perché essi sono rappresentati nell’io con cui conduco il dialogo del pensiero. Il problema della solitudine è che questo «due-in-uno» ha bisogno degli altri per ridiventare uno: un individuo non scambiabile, la cui identità non può mai essere confusa con quella altrui.

Per la conferma della mia identità io dipendo interamente dagli altri; ed è la grande grazia della compagnia che fa del solitario un «tutto intero», salvandolo dal dialogo della riflessione in cui si rimane sempre equivoci, e ridandogli l’identità che gli consente di parlare con l’unica voce di una persona non scambiabile.

La solitudine può diventare estraneazione; ciò avviene quando, chiuso completamente in me stesso, sono abbandonato dal mio io. I solitari corrono sempre il pericolo dell’estraneazione, quando non possono più trovare la grazia redimente della compagnia che li salva dalla dualità, dall’equivocità, dal dubbio. Storicamente è come se soltanto nel xix secolo questo pericolo fosse tanto aumentato da farsi notare. Esso è venuto in piena luce quando i filosofi, per i quali soltanto la solitudine è un modo di vita e una condizione di lavoro, non si sono più accontentati del fatto che «la filosofia è solo per pochi» e hanno cominciato a ripetere che nessuno li comprendeva. Caratteristico a tale riguardo è l’aneddoto che riporta le parole di Hegel sul letto di morte, parole che non si sarebbero potute mettere in bocca a nessun grande filosofo prima di lui: «Nessuno mi ha compreso tranne uno; e anche lui mi ha frainteso». Per contro, c’è sempre la possibilità che un uomo estraniato ritrovi se stesso e cominci il dialogo della solitudine. Ciò capita, sembra, a Nietzsche, a Sils Maria, quando concepì Zarathustra. In due poesie (Sils Maria e Aus hohen Bergen) egli parla della vuota attesa e dell’ansia dell’abbandonato, finché d’improvviso «um Mittag war’s, da wurde Eins zu Zwei... / Nun feiern wir, vereinten Siegs gewis, / das Fest der Feste; / Freund Zarathustra kam, der Gast der Gäste!» (Era mezzogiorno quando Uno divenne Due... Ed ora celebriamo, certi della vittoria unita, la festa delle feste; venne l’amico Zarathustra, l’ospite degli ospiti).

Quel che rende l’estraneazione così insopportabile è la perdita del proprio io, che può essere realizzato nella solitudine, ma confermato nella sua identità soltanto dalla compagnia fidata e fiduciosa dei propri simili. In tale situazione l’uomo perde la fede in se stesso come partner dei suoi pensieri e quella fiducia elementare nel mondo che è necessaria per fare delle esperienze. Io e mondo, capacità di pensiero ed esperienza vengono perduti nello stesso momento.

L’unica capacità della mente umana che non ha bisogno dell’io, dell’altro o del mondo per funzionare e che è indipendente dall’esperienza come dalla riflessione è il ragionamento logico che ha la sua premessa nell’evidente. Le norme elementari dell’evidenza cogente, la tautologia della proposizione «due più due fanno quattro», non possono essere snaturate neppure in condizioni di assoluta estraneazione.

È l’unica «verità» sicura su cui gli esseri umani possono ripiegare una volta persa la reciproca garanzia, il senso comune, di cui hanno bisogno per fare esperienza, vivere e conoscere la loro via in un mondo comune. Ma questa verità è vuota o, meglio, non è affatto verità, perché non rivela alcunché. (Definire la coerenza come verità, alla maniera di certi logici moderni, significa negare l’esistenza della verità.) Nell’estraneazione l’evidente non è più quindi un semplice mezzo dell’intelletto e comincia a essere produttivo, a sviluppare proprie linee di «pensiero». Che i processi mentali caratterizzati da una rigorosa logicità evidente, da cui non c’è manifestamente via di scampo, abbiano qualche attinenza con l’estraneazione, è stato già osservato da Lutero. (che non era probabilmente secondo a nessuno in fatto di esperienza nei fenomeni della solitudine e dell’estraneazione, e una olta ha osato affermare che «ci deve essere un Dio perché l’uomo ha bisogno di un essere in cui confidare») in una nota poco conosciuta al passo della Bibbia in cui si dice che non è bene che l’uomo sia solo. Un uomo estraniato, osserva Lutero, «deduce sempre una cosa dall’altra e pensa tutto per il peggio».1

L’estremismo dei movimenti totalitari, lungi dall’aver qualcosa a che fare col vero radicalismo, consiste in effetti in questo pensare «tutto per il peggio», in questo processo deduttivo che giunge sempre alle peggiori conclusioni possibili.

Quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario è l’estraneazione che da esperienza limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, è diventata un’esperienza quotidiana delle masse crescenti del nostro secolo. L’inesorabile processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un’evasione suicida da questa realtà. La «freddezza glaciale del ragionamento» e il «poderoso tentacolo» della dialettica che «vi afferra come in una morsa» si presentano come l’ultimo punto d’appoggio in un mondo dove non ci si può fidare di niente e di nessuno. È l’intima coercizione, il cui unico contenuto consiste nell’evitare rigorosamente le contraddizioni, che sembra confermare l’identità di un uomo al di fuori di ogni rapporto con altri. Essa lo adatta al ferreo vincolo del terrore anche quando è solo, e il dominio totalitario non prova mai a lasciarlo solo tranne nella situazione estrema della reclusione cellulare. Distruggendo ogni spazio fra gli individui, comprimendoli l’uno con l’altro, si annientano anche le potenzialità creative dell’isolamento; insegnando ed esaltando il ragionamento logico dell’estraneazione, in cui l’uomo sa di essere completamente perduto se lascia andare la prima premessa da cui prende l’avvio l’intero processo, si eliminano le già scarse probabilità di una trasformazione dell’estraneazione in solitudine e della logica in pensiero. Se si confronta questa pratica con quella della tirannide, si ha l’impressione che si sia trovato il modo di mettere in moto il deserto, di scatenare una tempesta di sabbia capace di coprire ogni parte della terra abitata. [OT pp. 652-655]

Il vizio logico

Il vizio logico di queste costruzioni ipotetiche di eventi futuri è sempre lo stesso: quello che in un primo momento si presenta come un’ipotesi — con o senza le sue alternative implicite, a seconda del livello di sofisticazione del tutto — diventa immediatamente, in genere dopo pochi paragrafi, un «fatto», grazie al quale danno vita a tutta una serie di analoghi non-fatti, col risultato che si finisce per dimenticare il carattere puramente speculativo di tutta l’impresa. È inutile dire che questa non è scienza, ma pseudoscienza, che è «il disperato tentativo delle scienze sociali e comportamentistiche», per usare le parole di Noam Chomsky, «di imitare i tratti superficiali della scienza che hanno veramente un significativo contenuto intellettuale». E la più ovvia e «più profonda obiezione a questo genere di teoria strategica non è la sua limitata utilità ma il pericolo che essa comporta, perché ci può portare a credere di avere una comprensione degli avvenimenti e un controllo sul loro corso che in realtà non abbiamo», come recentemente ha messo in evidenza Richard N. Goodwin in un articolo di rivista che aveva la rara virtù di mettere a nudo l’«umorismo inconscio», caratteristico di tante di queste teorie pseudoscientifiche. 1 [SV pp. 8-9]

L’avvenimento

Gli avvenimenti, per definizione, sono cose che capitano e che interrompono i processi e le procedure di routine; soltanto in un mondo in cui non accade mai niente di importante il sogno dei futurologi potrebbe diventare realtà. Le previsioni del futuro non sono nient’altro che proiezioni dei processi e delle procedure automatiche del presente, cioè di cose che è probabile che accadano se gli uomini non intervengono e se non succede niente di imprevisto; ogni azione, per il bene e per il male, e ogni accidente necessariamente distruggono l’intero schema nel quadro del quale la previsione si muove e dove riesce a trovare le sue prove. (L’affermazione fatta per inciso da Proudhon: «La fecondità dell’imprevisto supera di gran lunga la prudenza dell’uomo di Stato» è per fortuna ancora vera. Essa supera in modo ancora più ovvio i calcoli degli esperti.) [SV p. 9]