13

Nella tarda mattinata di sabato Harpur fece una visita alla ragazza di Neville Greenage. Lavorava di notte, per cui in quel momento avrebbe dovuto trovarsi a casa e fuori dal letto. Magari aveva sentito Neville, e gli aveva sentito dire qualcosa su Sphere Street e sulla ragazzina. Un uomo vorrà pur comunicare alla propria donna di non aver sparato a una bambina, ma di sapere chi è stato a farlo, o di credere di saperlo. Quali alternative c’erano? Quando Jack Lamb non era disponibile, Harpur si sentiva invariabilmente più debole, privo di una delle sue fonti principali. Lamb era vivo ma non ancora proprio cosciente. In ogni caso era in ospedale, e non gli si poteva far visita: nel senso che Harpur non poteva fargli visita, per ovvi motivi. Magari più avanti si poteva comunicare per telefono. Harpur doveva fare qualcosa prima di allora, però.

Neville non era ancora stato identificato con certezza come l’autista della Carlton, ma era nero e l’età ipotizzata dal testimone Ericson corrispondeva. Neville di lavori come autista ne faceva, e lavorava sempre insieme a Tim Montain. E poi, soprattutto, era scomparso, forse immediatamente dopo Sphere Street. Non appena il cadavere di Montain era stato ritrovato, Harpur aveva mandato qualcuno presso l’appartamento di Greenage. Ci avevano trovato soltanto la ragazza. E soltanto la ragazza ci avevano trovato in seguito. La ragazza non aveva detto niente o quasi: Neville era fuori città, non si sapeva dove, e non si era fatto sentire né lei si aspettava di sentirlo. Allora si erano lasciati, le era stato chiesto. Che fine aveva fatto quel grande amore? E lei aveva risposto che Neville era fuori città, non si sapeva dove, e non si era fatto sentire. Non aveva mai invitato nessuno dei poliziotti ad entrare nel proprio appartamento, e le domande e le risposte erano state scambiate sul pianerottolo del palazzone in cui viveva. Francis Garland aveva detto che il ghiaccio era tale che ci poteva atterrare sopra un Jumbo Jet, e Garland era notoriamente avaro di elogi. Neville era giovane e per certi versi ancora inesperto, però l’aveva istruita per benino. Forse l’aveva terrorizzata per benino. Però chissà, davanti a uno del grado gerarchico di Harpur la ragazza poteva pure capitolare. Questo era quello che Harpur raccontava a se stesso, e quasi ci credeva. Per incoraggiarsi borbottò le auguste parole che indicavano la propria qualifica, mentre saliva le scale del palazzone: Soprintendente Investigativo Capo. L’ascensore era guasto, forse per sempre.

Ovviamente, Neville poteva essere nascosto lì dentro, il che avrebbe reso più semplice ed efficace l’impresa di terrorizzare la ragazza. Era possibile che fosse questa la ragione per cui lei non faceva entrare nessuno in casa. Ad Harpur sembrava improbabile. La ragazza doveva pur sapere che i poliziotti potevano tornare con un mandato, se immaginavano che Neville fosse lì. Harpur aveva messo un agente a sorvegliare l’appartamento, ma Neville non s’era visto. Quello lì doveva già essere lontanissimo, sapendo che gli si potevano appioppare due omicidi. Per come Harpur immaginava il dopo-Sphere Street, i tre si erano nascosti per un po’ in quel rudere della Valencia, con Montain moribondo. Poi i due sopravvissuti in qualche modo erano riusciti a lasciare la città, forse con un’altra automobile rubata, forse con altri mezzi. Era plausibile che la ragazza dicesse la verità, e che lui non si facesse sentire.

Però questa era una relazione seria, che durava da sei mesi o anche di più, stando alle informazioni raccolte. Una telefonata doveva pur esserci stata.

Lei era in piedi, sul vano della porta d’ingresso, vestita di denim e con una bella cera, nonostante il lavoro notturno. C’era della musica che veniva dall’interno dell’appartamento, una cagata ma probabilmente attualissima. «Mi domandavo se Nev si fosse fatto vivo» disse Harpur.

«Che cosa vuole?» replicò lei.

«Sono il Soprintendente Investigativo Capo Harpur». Stavolta lo disse a pieno volume.

«Benissimo».

«Mi domandavo se Nev...».

«Su questo ho già risposto».

A questo punto Harpur aumentò ancora il volume sfruttando il rimbombo del pianerottolo, così che lei fosse costretta a farlo entrare. Magari non le importava che i vicini sentissero attraverso la tromba delle scale che Greenage aveva preso parte a un conflitto a fuoco in mezzo alla strada, che da queste parti non era chissà quale impresa eccezionale. Ma ciò che Harpur pronunciò al massimo volume fu l’insinuazione che Nev avesse ucciso Timmy onde facilitarsi la fuga. La gente avrebbe giudicato con severità un criminale che spara a un commilitone, e avrebbe giudicato severamente pure questa pupetta qui. In un palazzo come questo, meglio non farsi detestare. «Le uccisioni di comodo non le ha inventate Nev, ovviamente. Ho sentito dire che i giapponesi facevano così, durante la Seconda guerra mondiale» disse lui. «“Finivano” i loro feriti, in modo da non dover rallentare».

«La bomba atomica ne ha “finiti” un po’ di più».

«Erano in due: Nev e un ospite d’onore. La mia sensazione è che sia stato Nev, però. È uno che a mali estremi ricorre agli estremi rimedi, non è così, Edna?».

«Ci vediamo...» rispose lei, e gli chiuse in faccia la porta.

Attraverso il vetro smerigliato avrebbe potuto osservare il suo simpatico posteriore congedarsi glacialmente da lui, e lo osservò.

Harpur ritornò a Sphere Street. Voleva dare un altro sguardo al famoso vicoletto. E poi adesso avrebbe trovato più negozi aperti rispetto all’ultima volta, con un sacco di clientela del weekend in giro. Adesso gli si presentava un’ottima occasione per fare delle domande a tantissima altra gente, e scoprire che anche loro non avevano visto niente, non avevano sentito niente, non sapevano niente, non che non gliene importasse niente, però non ne sapevano niente lo stesso. Camminò lentamente lungo il vicolo, un’altra volta. Stavolta non si mise accovacciato come un cecchino. In pieno giorno avrebbe dato nell’occhio. E ancora di più se vomitava di nuovo. Nessuno si era preoccupato di dare una pulita, in seguito alla sua ultima visita. Che fine aveva fatto la nettezza urbana: smarrita in quel caos intorno al quale Iles teorizzava di terza mano?

Harpur ormai era ossessionato dall’idea di quest’arma da fuoco extra. Era un’ossessione di cui era cosciente, e alla quale si sforzava di resistere. Cristo, questo cecchino era diventato l’emblema di qualcosa d’altro, e Harpur non veniva pagato abbastanza per doversi occupare di emblemi. Per quelli ci sono i Capi. Le indagini su Sphere Street avevano tutt’un altro aspetto adesso, ancora più raccapricciante. Iles questo l’aveva capito. La ragazzina non era incappata nel fuoco incrociato di due gang che si danno battaglia. Era stata presa di mira, l’avevano giustiziata. Lo diceva l’autopsia. Lo diceva il Vicolo del Franco Tiratore. Era stato un trafficante rivale? Ma uno vecchio abbastanza ed esperto abbastanza da sparare a quel modo, come poteva temere la concorrenza di una bambina? Oppure le avevano sparato per farla star zitta, come insinuava Iles? La bambina ne sapeva abbastanza da rendere necessario ucciderla? Era possibile.

E tuttavia, Gesù Gesù, non dovrebbe essere possibile. Poteva burlarsi della diagnosi del mondo contemporaneo di Iles, peraltro stavolta presa in prestito, ma da un po’ di tempo a questa parte Harpur cominciava a domandarsi se il caos non avesse davvero preso il sopravvento, con annessa frattura all’interno del consesso civile: e per questa frattura non esistesse alcun trattamento; trattamento no, ma trattativa sì, trattativa con i senza legge. Aveva provato questa sensazione quando Edna – la ragazza di Neville – gli aveva chiuso la porta in faccia. E la provò nuovamente quando i negozianti con cui non aveva potuto parlare la volta prima si produssero senza sforzo alcuno nella stessa cortese ma vacua espressione del volto. Come si faceva a garantire un minimo di sicurezza, se non mediante un velato accordo con i potentati del luogo? Dentro questi negozi gli veniva voglia di mettersi a strillare: Cazzo, ma lei fuori della finestra non ci guarda mai? Ma si capisce che ci guardavano, fuori della finestra. Quello che non facevano era raccontare che cosa vedevano, quando guardavano fuori della finestra, e comunque non lo raccontavano certo a uno con la faccia, la corporatura, i vestiti e il taglio di capelli di Harpur: «C’hai Sbirro scritto in faccia» gli diceva Hazel, «e si compita G-O-R-I-L-L-A».

Ha a che vedere con la morte della ragazzina? Be’, si capisce. Spaventoso. E vorremmo tanto essere d’aiuto. Ma è successo tutto talmente in fretta, e col negozio pieno di gente, capisce. Chissà, forse uno degli altri negozi. Ha provato dal farmacista?

Sissignore, forse, e sissignore, aveva provato dal farmacista. Il farmacista non ce l’aveva, il rimedio per quel male.

Quando arrivò a casa, Jill – che doveva averlo visto dalla finestra del soggiorno – venne ad aprirgli. «Hai visite» disse. «L’hai fatta aspettare, ma noi ci siamo prese cura di lei. Tè Earl Grey, con una bustina in più dentro la teiera, ed Hazel è andata a prendere dei biscotti degni di questo nome, a credito. E poi l’abbiamo fatta sentire a casa propria, chiacchierando un po’ in amicizia, vabbè questo si capisce papà».

«Fantastico» disse Harpur. Poteva significare guai quando le sue figlie facevano sentire la gente a casa propria, chiacchierando un po’ in amicizia.

«È la madre della ragazza» replicò Jill.

«La madre di NOON?».

«Si chiamava Mandy. NOON è stupidino come nome. La madre è preoccupata in merito all’inchiesta. Immagino che lei immagini che vi siete fatti comprare, papà».

«Ti ringrazio».

«Embè?».

«Smettila di parlare come la televisione, ti ripeto».

Harpur si avviò in direzione del soggiorno, ma Jill gli afferrò la mano e lo trattenne. «Mi ha guardato in faccia e si è messa a piangere. Piangere sul serio, papà, e mi ha chiesto quanti anni ho». La voce di Jill tremò un pochino, ma solo un pochino.

Harpur le mise un braccio intorno alle spalle. «Sì, capisco».

«Non è giusto, dico bene?».

«È terribile».

Jill lo guardò fisso, con aria solenne: «Che significa?».

«La morte di una bambina. È una cosa terribile».

«Nel senso che non c’è niente da fare, e che non concluderete nulla?».

«Si capisce che concluderemo qualche cosa».

«Sul serio?».

«Ho concluso qualche cosa giusto stamattina».

«Sul serio?».

Sul serio? No, non era tanto serio affermare di aver concluso qualche cosa. «Sul serio» rispose.

«Gliel’abbiamo detto. Persino Hazel gliel’ha detto».

«Grazie».

«Hazel ha detto che tu e il signor Iles fate un grande gioco di squadra. Vabbè, lo sai quant’è sfacciato il signor Iles nei confronti di Hazel. A volte ad Hazel fa schifo, a volte tutt’altro, però».

«Questa è una cosa stupida» ribatté Harpur.

«Noi lo sappiamo, ma lo saprà pure il signor Iles?».

Harpur raggiunse il soggiorno. Rachel Walsh era seduta sul divano grande con Hazel. «La signora Walsh non è la sola a non fidarsi di voi, papà» disse Hazel.

«?».

«La stampa».

«Perciò è venuta qui, in effetti» disse Jill.

«Ho trovato il suo nome sull’elenco del telefono» disse la signora Walsh. «Non sapevo che i pezzi grossi della polizia ci stessero pure loro. Per un fatto di sicurezza».

«Mi fa piacere...» disse Harpur.

«Se la sono presa con lei, hanno scritto delle cose...» gli spiegò Hazel. «Capisci? Un certo tipo di giornalismo...».

«Giornalismo investigativo» disse Hazel.

«Li abbiamo avuti in casa pure noi, quelli lì» disse Jill. «Papà li caccia via. E anche il signor Iles, ovviamente».

«Signor Harpur, questa gente dice che...».

«Immagino che la signora Walsh potrebbe parlare più liberamente se voi adesso ci lasciaste, ragazze» disse Harpur alle sue figlie.

«La signora sta già parlando liberamente» disse Hazel. «A lei non dispiace, vero, signora Walsh?».

«Andate pure...» ribatté Harpur.

«Signor Harpur... per favore, potrebbero restare?». Si guardò intorno, rivolgendo lo sguardo agli scaffali pieni di libri. «Mi sento un po’ nervosa qui dentro e le ragazze... Insomma, preferirei se restassero. Le sento amiche».

«Se è proprio sicura...» disse Harpur.

«Immagino che lei non abbia una grande opinione di me, vero, signor Harpur?» domandò Rachel Walsh.

Harpur ci pensò sopra. Che opinione ci si poteva fare di una madre la cui figlia tredicenne fa il corriere della droga? Che opinione poteva farsene uno che è stato addestrato a pensare da poliziotto? Uno che aveva a sua volta una figlia di tredici anni, la quale tuttavia frequentava regolarmente la scuola, per quello che ne sapeva lui, e che finora non aveva avuto troppo a che fare con la droga, per quello che ne sapeva lui. Harpur era fortunato e farisaico. Era gentile ed era falso. Le rispose: «Perché dice una cosa del genere, signora Walsh?».

«Ma si capisce che papà pensa che lei è una persona a posto...» disse Jill.

La signora Walsh guardò di nuovo in giro per la stanza. «Be’, mia figlia... è finita dritta dritta nel mondo del crimine, sissignore, del crimine. A scuola non ci andava. E io prendo soldi dai giornale per via di questa storia».

«Non faccia caso ai libri» replicò Harpur. «Erano di mia moglie. Non resteranno a lungo».

«Io amavo Mandy» disse Rachel Walsh.

«Ma si capisce» disse Hazel. «Papà questo lo sa. Ha detto non so quante volte che cosa terribile che dev’essere per lei».

«Ha preso e si è cambiata il nome, come se volesse essere un’altra, figlia di un’altra» disse la signora Walsh.

«No, non è così» ribatté Hazel.

Jill disse: «A scuola ci sono ragazzine che lo fanno. C’è una che si chiama Esther e il nome le fa schifo perciò noi dobbiamo chiamarla Blanche. Ad Hazel fa schifo Hazel. Preferirebbe Anita».

Harpur pensò che era un bene che le figlie fossero rimaste. Quando volevano...

«Sono ferite profonde» disse la signora Walsh.

«?» fece Harpur.

«Da parte della stampa».

«Quando si dice i tabloid» fece Hazel.

«Sì, ne ho sentito parlare» disse Harpur.

«I tabloid fanno spesso del sensazionalismo, ad esempio il Sun» disse Hazel.

La signora Walsh disse: «Mi hanno chiesto: ho mai pensato che potrebbe non essere stato un caso? Come se in quella strada ci fosse stato qualcheduno venuto per sparare a Mandy. Voglio dire, apposta per sparare a Mandy».

Chissà se aveva iniziato a spendere un po’ dei soldi che le dava il giornale. Harpur sperava di sì. Non era riuscito a proteggere né questa donna né la figlia.

«Adesso girano delle nuove voci» disse la signora Walsh.

Harpur disse: «Intorno a un caso del genere circolano sempre un sacco di voci, alcune delle quali inquietanti».

«Di che si tratta?» fece Jill.

La signora Walsh disse: «Si tratta... ah, non ce la faccio...».

Jill attraversò la stanza, poggiò una mano sulla spalla di Rachel Walsh e poi mise la guancia contro quella di lei. «Non lo dica se non vuole. Non deve per forza, vero, papà?».

«Certo che no».

Dopo un po’ la signora Walsh disse: «Ha a che vedere con i proiettili che hanno trovato... e con l’autopsia». Ad Harpur era sembrato che fosse sul punto di scoppiare a piangere, ma la parola “autopsia” sembrava averla paralizzata. La faccia era bianca e rigida, gli occhi intorpiditi. Harpur avrebbe desiderato aiutarla, ma quella parola, e tutta quella preparazione prima di pronunciarla, facevano da ostacolo.

«Come fa la stampa a sapere dell’autopsia?» domandò Jill. «Dovrebbe essere una cosa, insomma, riservata».

«Ma vedi di crescere» ribatté Hazel. «Mai sentito parlare di fughe di notizie, di cronisti che corrompono e che allettano? I giornalisti hanno due fonti di informazioni. Una è la fonte ufficiale e l’altra sono le fughe di notizie. È a queste ultime che si riferisce la signora Walsh. A scuola abbiamo studiato il caso Watergate».

«Perché i giornalisti non pensano al male che fanno alla gente?» disse Jill.

«La verità...» ribatté Hazel. «Devono scoprire la verità».

«Perché?» domandò Jill.

«A volte è importante» disse Harpur.

«È così che si sono liberati del Presidente Nixon, perché aveva giurato il falso in merito a quelle registrazioni...» disse Hazel.

La signora Walsh disse: «Signor Harpur, loro dicono che è tenuto tutto segreto, i proiettili e l’autopsia. È tenuto segreto dalla polizia, intendo dire». Aveva distolto lo sguardo da Harpur, e parlava rivolgendosi alle finestre a voce bassa e col tono di chi si scusa, ma persevera. Aveva la stanchezza addosso, ma aveva addosso pure qualcos’altro. «Per questo sono venuta qui» disse.

«Ma è vero, papà, che è tenuto tutto segreto?» chiese Jill. «Insabbiano tutto quanto? Non è mica vero, eh?».

«La polizia ha una specie di intesa con certa di quella gente» disse la signora Walsh. «Hanno detto così, i giornalisti: un’intesa. Dicono che succede da tutte le parti. La polizia non ha altra scelta: in Gran Bretagna, in Francia, forse pure in America». Adesso si voltò e rivolse lo sguardo ad Harpur. «Non volete acciuffarli, i colpevoli? Non si farà mai giustizia?».

«Oh, papà...» fece Jill.

«Sono tutte fesserie» replicò Harpur.

«Lei capirà che dovevo venire a farle questa domanda» disse la signora Walsh.

«L’hanno mandata loro?» chiese Harpur.

«La stampa? Nemmeno sanno che mi trovo qui».

«Credevo le stessero sempre appresso».

«Non credo proprio che sappiano che mi trovo qui».

«Sono tutte fesserie, eh papà?» fece Jill.

«Si capisce».

Hazel disse: «Ho sentito parlare di ’sta storia, della teoria del caos. Alla TV e al centro sociale. Tutto sembra portare verso la catastrofe, anche i piccoli eventi casuali, ragion per cui la polizia deve fare la politica delle alleanze: pure coi criminali».

«Eh sì, Mandy è stato un piccolo evento: piccola lo era senz’altro» disse Rachel Walsh.

«“Teoria del caos”? Questa mi suona nuova» disse Harpur.

«Sei il solito bugiardo» disse Hazel.

«Ma i giornalisti le hanno chiesto di tutto quello che NOON potrebbe averle raccontato, signora Walsh?» domandò Harpur. «Qualche nome?».

«Non mi raccontava nulla».

«Le credo».

«Sinceramente, non raccontava nulla...» disse la signora Walsh.