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Mansel Shale decise di farsi un giretto fino a Sphere Street. Gli sarebbe garbato d’andarci in bicicletta, ma la gente in quel genere di rione s’aspettava di vederlo arrivare in Jaguar, e il discorso dell’immagine era importante. Bisognava che vedessero la macchina nera importante parcheggiata sulle doppie strisce gialle – «Solo Carico e Scarico» – della strada principale, con Denzil stravaccato dietro al volante, magari col berretto in testa, se sua signoria era dell’umore giusto. Agli occhi di questi relitti umani la macchina di lusso in sosta vietata stava a segnalare l’autorità della Mansel Shale Inc. Bisognava farli contenti. Certuni di questi grigi pedoni erano di sicuro clienti, e i loro figli sarebbero stati clienti dopo di loro, se non lo erano già. Una Rolls-Royce avrebbe significato esagerare. Troppo vistosa. La Jaguar si lasciava sempre preferire.

Lasciò Denzil e la macchina di fronte all’Ufficio Postale e s’incamminò per Sphere Street, verso il punto in cui avevano sparato alla bambina. Pareva che quel saputello di Jack Lamb avesse ragione lui, in merito alle pallottole e all’autopsia. Be’, certo che aveva ragione lui. Quando Lamb diceva qualcosa conveniva crederci. Ovviamente Shale non poteva rivolgersi a W. P. Jantice per la conferma, ma c’era un chiacchiericcio generale riguardo all’inchiesta, e pure qualche allusione da parte della stampa. Si diceva che la ragazza era stata uccisa da due colpi di pistola che avevano seguito una traiettoria ascendente, e senz’altro non erano partiti da un Kalashnikov.

Lui adesso voleva vedere se per caso ci fosse un punto vicino al fruttivendolo dal quale un tiratore avrebbe potuto colpire. L’idea lo angosciava e lo faceva inferocire. Questo qui poteva essere qualcuno che sbocciava una ragazzina per coprire il sudicio doppio raggiro in cui era invischiato. Doppio come minimo. E con questo “qualcuno” Shale aveva un legame importante. Di quel genere di legame non sapeva proprio che farsene.

Parecchia gente gli rivolse il saluto o un cenno del capo mentre passava, alcuni lo chiamavano col nome di battesimo. La cosa gli garbava. Anche se lui non viveva in questo quartiere – Cristo, vivere in questo posto! Non sarebbe mai venuto a stare in una zona come questa e detestava quell’aria decrepita e il degrado generale – però desiderava ardentemente sentire d’averci un legame, con la comunità. Lui era assolutamente in favore delle comunità, e prima del fattaccio non meno del cinque sei per cento degli utili dell’azienda venivano dall’Ernest Bevin. Presto le cose sarebbero tornate come stavano. Gli sembrò di leggere una sincera pena negli occhi della gente, oltre, naturalmente, al rispetto che gli portavano. Rispetto che non sarebbe stato altrettanto automatico se lui fosse arrivato in bicicletta. La gente da queste parti non le capiva, le biciclette. Non avrebbero colto il discorso anti-inquinamento, e nemmeno quello della comodità. Per loro la bicicletta voleva dire povertà, specialmente una bici stile anni Trenta. Di tanto in tanto faceva un cenno con la mano a qualcuno sull’altro lato della strada che l’aveva riconosciuto. Avere un certo status non significa mettersi in sussiego. Anche la famiglia reale fa le sue passeggiate informali in mezzo alla gente.

Sull’altro lato della strada rispetto al fruttivendolo vide una stradina di servizio, perciò decise di attraversare per dare un’occhiata. Si piazzò all’imbocco della stradina su Sphere Street e di lì si mise a osservare il tratto di marciapiede che aveva visto alla TV, dov’era caduta la bambina. S’accosciò come un cecchino. Capì immediatamente che la posizione era perfetta: la visuale bella sgombera quando non c’era traffico, e al momento della sparatoria non ce n’era. Qualcuno aveva vomitato lì vicino, e lui si domandò se fosse stato il pistolero, comprensibilmente nauseato dalla sua azione disgustosa. Shale era ancora accovacciato quando il fruttivendolo, con un grembiule grigio, uscì dalla bottega e attraversò la strada per raggiungerlo.

«Sei il terzo, che vedo fermo in quel punto lì, Mansel» disse. «Pensavo la cosa ti potesse interessare».

Shale si raddrizzò. «Uno dei tre... è stato al momento della sparatoria?».

«Be’, si capisce».

«E sparava con la pistola?».

«Esatto».

«Un paio di colpi?».

«C’era troppa confusione per mettersi a contare. Ma direi di sì».

Shale descrisse Jantice: «Sulla trentina, alto, molto magro, con un bel po’ di capelli chiari?».

«È lui. È conosciuto, da queste parti. Lavora per un’altra ditta? Poliziotto? C’è il caos peggio che in Bosnia in questo quartiere».

«E il secondo chi è stato?».

«Questo era senz’altro poliziotto. Quello grande e grosso. Capelli chiari pure lui, tagliati con la potatrice».

«Harpur?».

«Dovrebbe essere lui».

«Sapeva niente?».

«Non da noi, ovviamente. Ha vomitato».

«Sì, avevo sentito dire che ha un lato sensibile». Shale accompagnò il fruttivendolo alla bottega e ordinò un sacco di roba, sia fresca che inscatolata. Toccava farlo. Disse di consegnare presso casa sua e casa di Alfie Ivis, e pagò con un assegno. Questo tipo di gesti li apprezzava, quella gente lì. Poteva sembrare come una bustarella o una mancia, se Shale si fosse azzardato a mettergli in mano dei contanti in cambio delle informazioni: per il fruttivendolo sarebbe stato degradante. Quello lì voleva immaginarsi che Mansel Shale fosse amico suo, e poterlo raccontare ai vicini e ai clienti. Comperare tutta quella roba buona per la pattumiera, invece, era ben diverso che mettergli in mano la ricompensa. Era il tipo di gesto di cui si sarebbe parlato. Era il tipo di gesto che ci si aspettava da Mansel Shale, generoso, splendido, in linea col discorso della Jaguar. Con ogni probabilità avrebbe dovuto buttare un sacco della roba fresca, perché al momento in casa c’era soltanto lui e non sapeva cucinare. Era questo qui l’essere splendidi, non c’era dubbio: comperare più del dovuto perché contare i funghi e le arance era qualcosa che uno come Mansel Shale non poteva sobbarcarsi. Odiava lo spreco, ma di quando in quando lo spreco torna utile. Era importante far capire la propria personalità a questa gente, far passare di bocca in bocca i racconti delle tue buone azioni, e dentro le botteghe si faceva sempre parecchia conversazione, a parte quando ci entrava Harpur.

Quella sera, Patricia Devonald si fece viva alla canonica con un vestito color ambra. Aveva un gran bell’aspetto e profumava che era una meraviglia. Adesso s’era fatta i capelli ramati, e la cosa funzionava abbastanza. Shale fu lietissimo di vederla. Di tutt’e tre le ragazze che si era ritrovato in casa di recente, Patricia era quella che sembrava capirlo meglio, in particolar modo riguardo alla sua dedizione all’ordine e al progresso e in merito all’importanza della volontà. Forse lei lo capiva persino meglio di Sybil. Sybil non s’era sforzata un granché, passato un anno o due. Patricia era la preferita pure dai suoi figlioli. Aveva sempre un sacco di barzellette e di avventure da raccontare. Stasera, quando lei aprì la porta con le chiavi, Shale era al telefono con Alfred, per avvisarlo che sarebbero arrivate la frutta e la verdura. Disse che i ragazzi di Alfie potevano usare le mele per giocare a Guglielmo Tell nella sala del tiro con l’arco. «Sono stato in tournée a Sphere Street e dintorni. Giusto per farmi vedere e risollevar loro il morale dopo il fattaccio. Per far capire che li penso. Dobbiamo continuare ad essere una forza vivificante, Alf».

«Saggia mossa».

«Fa una grande tristezza camminare su quel tratto di marciapiede».

«Be’, posso immaginarlo...» replicò Ivis.

«Sì, io... Ah, c’è qualcuno alla porta d’ingresso». Sulle prime pensò che potesse essere Lowri, che non si faceva vedere da quasi un anno. La cosa gli sarebbe garbata. Lowri era divertente, e pure lei lo capiva abbastanza bene. Poi la porta del salotto si aprì e lui si emozionò nel constatare d’essersi sbagliato. «C’è Patricia» disse Shale.

«Oh?».

Ad Alfie non andava giù che queste ragazze tenessero le chiavi di casa. Con la sua mentalità ristretta, da ragioniere, pensava che loro si rifacessero vive soltanto quando avevano bisogno d’aiuto, o erano a caccia del regalino. Sul piano emotivo Ivis non serviva a nulla, e a volte Shale compativa la povera moglie bisbetica, Zoë. Se Shale gli avesse detto che spesso Patricia riusciva a leggergli nell’anima, Ivis non avrebbe fatto nessun commento villano o furbetto, perché quello lì era sempre gentile, era fatto così. Però non avrebbe detto nulla, facendogli capire lo stesso cos’era che pensava. Faceva così, ’sto viscidone. Dell’anima non gl’importava, a Ivis. Shale concluse la telefonata.

«Ah» disse Patricia, guardandosi intorno. «Quanto mi piace questa stanza. I quadri e tutto il resto. Nessun cambiamento. Bene».

«Devono esser passati dei mesi dall’ultima volta» disse Shale. Fortunatamente, sentendosi dell’umore giusto per un bicchiere di vino, aveva portato su dalla cantina due bottiglie di un ottimo bordeaux. Se Patricia si fermava fino all’indomani poteva aiutarlo a mangiare un po’ di quei kiwi.

«Sei disposto ad amarmi sotto Arthur Hughes?» domandò lei.

«Come sempre...» disse lui. «Alla fine».

«Prima qui. Poi a letto» disse lei.

«Come sempre...» rispose lui.

Versò il vino e ballarono per un po’ al suono di un CD di Luther Vandross che a lei piaceva, con i bicchieri in mano. Quando la musica finì lui si staccò da lei e stava per attraversare la stanza per cambiare disco, quando sentì muoversi qualcosa nel terreno circostante la canonica. «A terra» strillò, e si gettò verso le gambe di lei, per cercare di tirarla giù con una presa da rugby.

«Non ancora, Manse» ridacchiò lei, «così mi fai versare il vino sul tappeto» e in qualche modo si tenne in equilibrio per alcuni secondi.