18
Harpur seppe della sparatoria alla canonica dalla moglie di Iles, Sarah. Di tanto in tanto, quando l’A.C.C. era via, Harpur trascorreva una notte o parte di una notte in compagnia di Sarah. Erano degli incontri retrospettivi, degli incontri di consolazione, niente di più. La Sala Operativa telefonò ad Iles per informarlo dell’accaduto e Sarah, imprecando senza mezzi termini, scese delicatamente di dosso ad Harpur e sollevò il ricevitore che stava sul comodino. Iles ed il Capo esigevano che li si informasse immediatamente di qualsiasi avvenimento riguardante tutto un elenco di notabili, e Shale stava piuttosto in alto nell’elenco. Sarah rimase molto vicina ad Harpur, che poté sentire gran parte di quel che diceva l’ispettore della Sala Operativa.
«Signora Iles? Mi dispiace svegliarla, ma l’A.C.C. è in casa, per favore?».
Lei rispose con una certa esitazione, metà parola metà grugnito, come chi è stato appena distolto dal sonno dei giusti. «Rientrerà da Manchester non prima delle due di notte. È andato alla festa di pensionamento di qualcuno».
«Speravamo fosse già ritornato. Non riusciamo a trovare nemmeno il signor Harpur. La figlia non ha potuto aiutarci. Ha detto che probabilmente era di sorveglianza».
«Di che si tratta?» chiese Sarah.
L’ispettore esitava a parlare di lavoro con una moglie. «Be’...».
«Così se Desmond chiama posso dirglielo».
«Dovrebbe pregarlo di mettersi in contatto con noi».
«Avete provato sul telefonino?».
«Proverò...» fece l’ispettore.
La voce di Sarah si fece più assertiva. «Giusto in caso, non potrebbe dirmi grossomodo di che si tratta? Desmond si aspetterà che gliel’abbia domandato».
Altra esitazione. «Degli spari presso la canonica di St. James».
«St. James?».
«Sì. Casa del signor Shale. Abbiamo mandato una pattuglia».
«Sì?» fece Sarah.
Harpur divincolò il braccio dalla presa di Sarah e rotolò giù dal letto. Vestiti e telefono li aveva lasciati al piano terra. La serata era iniziata lì, sotto il ritratto ad olio di epoca vittoriana di una donna che Iles una volta aveva affermato essere una sua antenata, e che poteva pure esserlo, dato il malanimo che regnava beato sul volto della signora. Le suonerie di ’sti maledetti telefonini non si sentivano. Scese dabbasso e si rivestì, poi tornò in fretta e furia di sopra per salutare. Prima del prossimo incontro sarebbe passato chissà quanto tempo, per scelta di Sarah, non sua. C’era stata una bellissima, difficile, lunga storia tra loro due, in un momento in cui i rispettivi matrimoni erano in alto mare.
Occasionalmente c’era una breve resurrezione della tresca, molto occasionalmente. Le cose tra Sarah ed Iles adesso andavano un poco meglio, diceva lei, ma solo un poco. Ogni tanto poteva ancora capitarle di provare desiderio nei confronti di Harpur: ma proprio ogni tanto. In quei momenti era come se entrambi immaginassero possibile un ritorno ai tempi andati. Non lo era. E lo sapevano. Erano intervenuti notevoli cambiamenti. Sarah e Iles adesso avevano una figlia. La moglie di Harpur era morta, e lui aveva una storia con una ragazza: una ragazza che studiava in città, ma che al momento si trovava in Francia per motivi accademici.
Sarah disse: «È sempre bello vederti, Col. Insomma, è quasi necessario, per me».
«Anche per me».
«A intermittenza, s’intende. Penso che perfino Desmond potrebbe capire».
«Possibilmente. O forse no» replicò Harpur.
«Chiaramente io debbo mandare avanti la baracca, qui dentro, per un po’».
«Chiaramente».
«Per un bel po’, immagino».
«Vero».
«Però devo anche sapere che tu ci sei».
«Certo che ci sono». Si chinò e la baciò, poi si mosse verso la porta.
«Scusa, e tu dov’è che avresti sentito della sparatoria?» volle sapere Sarah. «A casa dell’Assistente Capo, origliando al telefono del comodino, a mezzanotte? Ci hai pensato, imbecille?».
«Non ho ancora sentito niente. Stavo effettuando una sorveglianza ravvicinata, come ha detto una delle mie figlie».
«Ravvicinata, era ravvicinata» disse lei.
«Tenevo il telefonino spento, onde evitare che una chiamata in arrivo mi facesse scoprire. Perfino una suoneria inutile come questa... data appunto l’estrema ravvicinatezza della sorveglianza».
«Capisco».
«Adesso faccio una chiamata in Sala Operativa. È la prassi, dopo essere stato irraggiungibile per un po’. E loro mi diranno di Shale».
«E chi è Shale?».
«Uno con cui tuo marito vuol fare amicizia».
«Anche tu sei amico di mio marito, nevvero, Col?».
«In un certo senso. Ma non ti toccherà di andare a letto con Shale, vivo o morto che sia».
«Perché Desmond ci vuol fare amicizia?».
«Per farsi aiutare a mantenere la pace in un mondo in preda al caos».
«Mantenere la pace a colpi di pistola?» domandò lei.
«I colpi di pistola rappresentano il caos».
Lei adesso praticamente dormiva. «Certe volte mi sembra che non ti dispiaccia abbastanza, il fatto che io rimarrò bloccata qui dentro per anni».
«Mi dispiace».
«Abbastanza?».
«Di più» disse Harpur.
Tre auto della polizia avevano preso posizione vicino al terreno circostante la canonica, quando arrivò Harpur, e Mike Upton stava facendo circondare tutto quanto prima di ordinare un’irruzione. Nelle situazioni pericolose Upton prediligeva intervenire in forze: c’era chi lo chiamava Montgomery, come il feldmaresciallo britannico che esigeva una grande superiorità numerica prima di muovere un passo.
Al piano di sopra della casa c’erano delle luci accese. Upton disse: «Dovrebbe esserci stata una raffica di pistola, cinque colpi minimo, circa venti minuti fa. La raffica proveniva dal terreno circostante la canonica ed era presumibilmente diretta verso l’interno della casa. Un vicino ha sentito un rumore di vetri infranti e possibilmente delle grida, oltre alla raffica, poi altri due spari circa quattro minuti dopo. A questo punto la pattuglia era già qui e i colleghi ritengono che questi ultimi due spari provenissero dall’interno dell’abitazione. Abbiamo cercato di metterci in contatto telefonico con Shale, ma non risponde».
Upton andò a controllare lo spiegamento dei propri uomini sul retro della canonica. Aveva indosso una tuta nera e un giaccone da combattimento pure nero con il proprio nome e grado cucito in bianco sulla spalla destra. In testa aveva un berretto da baseball con su scritto “Polizia” in lettere d’argento, appena sopra la visiera. Probabilmente tutto ciò era necessario. Mettersi in maschera rendeva la gente coraggiosa. Upton teneva appeso al collo uno Heckler and Koch. Harpur restò lì ad osservare la casa per un paio di minuti, e quando Upton fu fuori dalla visuale s’inoltrò rapidamente nel terreno circostante la casa, cercando di scorgere qualche ombra accanto agli alberi. Diede un’altra lunga occhiata alla casa, una costruzione in pietra grigia un po’ spettrale ma bella. Le si avvicinò, e adesso gli parve di poter distinguere la finestra andata in pezzi al primo piano menzionata da Upton, nonostante la stanza fosse al buio. Peccato che Iles non ci fosse. Lui doveva conoscerla, la disposizione della casa. E no, cazzo, non era un peccato. Iles avrebbe voluto comandare. Harpur si avvicinò alla casa facendo una serie di corsette da una zona d’ombra all’altra, tutto rannicchiato. Non era armato, ovviamente. Non poteva far richiesta di una pistola per i convegni amorosi con Sarah Iles, e non gli era mai passato per la testa di tirar fuori la calibro 32 di Lamb dalla borsetta di Megan: una volta gli era bastata.
Harpur si fermò di nuovo. Si piazzò dietro il tronco di un albero in prossimità della casa e chiamò con voce più sommessa che poté: «Mansel. Mansel, sono Harpur. Stai bene?». Per qualche minuto non ci fu nessuna risposta. Poi ad Harpur sembrò di sentire una voce proveniente dalla stanza con la finestra in pezzi. Non riuscì a distinguere le parole. Chiamò di nuovo, stavolta un pochino più forte: «Sono Colin Harpur, Mansel. Sto per entrare».
«Harpur?» disse Shale. Harpur non riusciva a vedere niente. La voce pareva emergere da sotto il davanzale. Le parole che seguirono furono più chiare, però: «Allora lei è venuto insieme a loro, Harpur?».
«Insieme a loro?».
«No, non si avvicini».
«Chi c’è in casa, oltre te?» disse Harpur. «Qualcuno ha gridato. È Patricia Devonald?».
Ci fu un lungo silenzio. Poi ad Harpur sembrò di vedere un movimento all’interno della stanza, una testa che si sollevava un poco. «E lei come cazzo fa a saperlo, Harpur?».
«Patricia sta bene?». Harpur venne fuori da dietro l’albero e stava per correre verso la finestra quando vide per terra, alla sua destra, tra due cespugli di rododendro, una pistola automatica. Piegato in due, andò a raccoglierla. Era una Star 9 millimetri. Controllò il caricatore. Restavano due colpi: sei erano stati sparati.
Da un megafono giunse ululante la voce di Upton. «State a sentire. Dentro casa e fuori. Siete circondati. Polizia, siamo armati. Ripeto, siete circondati dalla polizia. Siamo armati. Deponete le vostre armi e raggiungete il cancello principale della proprietà. Muovetevi in fila indiana e con le mani sulla testa. Non cercate di uscire da un’altra parte. Ripeto, non cercate di uscire da un’altra parte». Da un paio di macchine vennero puntati i riflettori sul cancello principale e sul vialetto.
Harpur fece di corsa l’ultimo tratto che lo separava dalla casa. «Stai a sentire. Sto entrando in casa, Mansel» disse. «Ripeto, sto entrando in casa». Raggiunse la finestra. Shale adesso era in piedi, squadrato, corto e con il muso rincagnato sotto i folti capelli scuri. Impugnava a due mani quella che sembrava essere una Beretta e la puntava verso Harpur, attraverso la finestra senza più vetri. Harpur aveva la Star in mano, ma non la sollevò. Alle spalle di Shale si vedeva una donna con un vestito color ambra stesa sul pavimento, sotto dei quadri.
«Sta con loro, lei?» domandò Shale.
«Sì, sto con la polizia, con chi debbo stare?».
«No, dico, sta con quegli altri?».
Gesù. Harpur scalciò via dei pezzi di vetro dalla parte bassa del telaio della finestra per poterla scavalcare ed entrare nella stanza. Shale indietreggiò, sempre puntandogli contro la Beretta. Poi l’abbassò, come vergognandosi. S’infilò la pistola in tasca e Harpur fece la stessa cosa con la Star. Conveniva ripulirla quanto prima e rimetterla al suo posto, tra i rododendri. Alcuni dei proiettili mancanti potevano aver fatto danni proprio in quella stanza lì. Si sentì di nuovo l’annunzio di Upton, praticamente le stesse parole ma con una sfumatura d’irritazione a fronte della mancata risposta. Squillò il telefono, che stava su di un tavolo dall’altra parte della stanza. Harpur dovette scavalcare la donna per andare a rispondere.
«Non ho avuto il tempo di rispondere» disse Shale. «Dovevo stare di guardia».
Harpur sollevò il ricevitore.
«Signor Shale, sono l’Ispettore Capo Francis Garland. Noi...».
«Sono Harpur» disse Harpur.
«Gliel’avevo detto, a Upton, che lei sarebbe stato già sul posto» replicò Garland. «Questo patetico bisogno di essere il primo. La ricerca della Gloire».
«Vada a fare in culo, Francis. Dica all’ambulanza di entrare. C’è un ferito. Potrebbero esserci individui armati nel terreno intorno la casa».
«Oh, ma davvero, signore?».
Harpur mise giù e accese la luce. Sì, Patricia Devonald. Harpur vide che era stata raggiunta da almeno tre colpi, uno alla testa, due alla schiena. Giaceva di fianco, con le ginocchia sollevate, nella posa delle pubblicità dei materassi. Sotto il suo viso c’era un calice da vino rotto, che le aveva ferito la guancia. C’era un’ampia macchia di vino sul tappeto e due cerchi di sangue, più piccoli. Harpur non la vedeva da qualche anno, ma sembrava che Patricia avesse conservato la sua figura asciutta e slanciata. E probabilmente Iles aveva ragione in merito ai capelli ramati: le stavano bene.
«Stavamo ballando» raccontò Shale. «M’è cascata addosso. Per questo l’hanno beccata alla schiena. L’ho tirata giù per metterla in salvo, e invece è stata lei a pigliarsi le pallottole indirizzate a me. Alla schiena, Harpur, cazzo». Non singhiozzava né piangeva. La sua voce era asciutta come un libro antico. Il dolore gli pervadeva la faccia paffutella. «Questa era una ragazza di valore. Una persona di spessore».
«Quanti ce n’erano, fuori?».
«E io che ne posso sapere?».
«Chi sono?».
«Che ne posso sapere? Pensavo che lei stesse con loro».
«Io sono un funzionario di polizia» ribatté Harpur. «Te lo sei dimenticato?».
«Pensavo che stesse con loro» fece Shale. «È così? Non si capisce più nulla, di questi tempi».
«Ah, sì?».
«Il caos».
«Sì. Tu hai sparato?» domandò Harpur.
«Avevo paura che entrassero per terminare il lavoro».
Dall’esterno giunsero delle grida. Upton credeva nelle virtù intimidatorie del fracasso. I suoi sottoposti più strillavano e più ricevevano menzioni d’onore. Lo stesso Upton apparve alla finestra e la scavalcò, seguito da cinque dei suoi, tutti in uniforme da combattimento. Tre avevano gli Heckler and Koch, uno la Smith & Wesson e un altro il lancia-gas.
«Quanti altri ce ne sono in casa?» fece Upton. Sembrava non si accorgesse neppure della ragazza sul pavimento.
«Non c’è nessuno» rispose Shale.
«Perquisiamo» comunicò Upton al suo commando.
«Non c’è nessuno» disse Harpur.
«Perquisiamo» replicò Upton.
«Una volta spente le luci avrei potuto affrontarli» disse Shale. «Ma ormai era troppo tardi».
«Sono venuti qui per mettersi in pari con l’imboscata di Sphere Street?».
«Sphere Street? È dove hanno ammazzato quella povera ragazzina?» rispose Shale.
Qualcuno bussò con insistenza alla porta d’ingresso, ed Harpur andò ad aprire. Fecero il loro ingresso il Capo e Garland, seguiti anche loro da agenti in armi. Lane indossava una delle sue giacchettine di tweed sopra un lupetto marrone. Non aveva un aspetto terribile, per quell’ora di notte: sembrava quasi giovane e quasi risoluto, come uno che va a caccia di tassi con il cane. Entrò nel salotto e si mise a scrutare la ragazza e i quadri – autentici – appesi alle pareti, vicino a lei. Shale si era seduto, con un bicchiere di vino in mano. Aveva la fronte imbrattata di sangue e una macchia di vino sul colletto e sul davanti della camicia.
«Non capisco» mormorò Lane. «Questa ragazza è quella che l’A.C.C...?».
«Deceduta all’istante» disse Harpur.
«Era una donna meravigliosa, da ogni punto di vista» disse Shale. «Questo è un fatto raccapricciante, da ogni punto di vista, ovviamente, signor Lane, ma sono sicuro che non... Insomma, vale a dire, quello che è successo mostra chiaramente la necessità di... anche se capisco che è tutt’altro che propizio che la prima volta che lei mette piede in casa mia debba trovarla in questo... debba trovarsi qui per questo fatto terribile, intendo dire».
Harpur disse: «Ecco che arriva l’A.C.C., signore».
La porta d’ingresso era stata lasciata aperta. Iles entrò nel salotto con aria d’urgenza ma gioviale. Indossava il suo giaccone scamosciato, i suoi pantaloni grigi di flanella col cavallo stretto e una sciarpa color porpora. «Sono venuto direttamente, Capo» disse.
«Stavo giusto accennando al signor Lane dell’impellente necessità di ristabilire la pace, signor Iles» disse Shale. «Sarebbe odioso se in seguito a quant’è successo dovesse rimanere una macchia su questa casa e su me stesso. Posso assicurarle che...».
Socchiudendo gli occhi puntati sul pavimento, Iles disse: «Io la conosco, questa ragazza, mi pare. E sì, senz’altro, non mi è affatto nuova». Le si avvicinò e chinò la testa: l’estremità della sua sciarpa finì quasi per toccare il volto senza vita di Patricia. «Povera, adorabile ragazzina». Riportò la sciarpa in posizione e si abbassò per baciare la fronte del cadavere, come aveva baciato il tratto di marciapiede dov’era caduta NOON. L’A.C.C. si dilettava a fare l’imitazione dell’uomo di buon cuore e scevro di arroganza. «E sì, m’è capitato di imbattermi in Patricia, qua e là, Manse. È mia convinzione che il signor Shale debba aver fatto quanto era in suo potere, per impedire che ciò accadesse, Capo».
Lane disse: «Quello che dobbiamo chiederci è perché questa sparatoria abbia avuto luogo anziché no».
Iles, sempre chino sulla ragazza, annuì diverse volte e sollevò lo sguardo verso il Capo. «Mi fa immenso piacere che lei dica questo, signore».
Lane disse: «Questa è la testimonianza del fatto che...».
Iles si alzò in piedi e disse: «Oh, beninteso, non vedo come tutto ciò possa compromettere la figura di Mansel Shale, signore. Se ti prendono a pistolettate una bella ragazza in salotto, non per questo la tua reputazione deve risentirne, voglio ben sperare. Qui non si tratta del pezzo di figliola con cui trascorrere la notte, signore. Correggimi se sbaglio, Manse, ma questa donna un tempo qui era di famiglia, e durante quel periodo è stata una magnifica facente funzioni di matrigna, per i tuoi figli».
«Allora lei la conosceva bene, signor Iles?» domandò Shale.
«Come dicevo, m’è capitato di imbattermi in lei. E m’è capitato di sentirne parlare, sempre nei termini più lusinghieri» disse Iles. «E lo stesso vale per il Capo».
Entrò Upton e riferì che non era stato trovato nessuno, né in casa né fuori. Harpur uscì insieme a lui, come a volerne corroborare in qualche modo le affermazioni, e una volta fuori ripulì da cima a fondo la Star con la cravatta e la infilò sotto un cespuglio di rododendro. Ritornò in salotto. Arrivarono i paramedici e con scarsa delicatezza misero Patricia Devonald su di una barella con le ruote.
«Immagino che questa serata fosse intesa come una bellissima rimpatriata tra voi due, Manse» disse Iles.
«Non veniva qui da mesi, e proprio la sera che si fa vedere, succede questa cosa orribile, orribile...» rispose Shale.
«Mi pare che anche questo episodio stia a simboleggiare il progressivo svuotamento ed esaurimento del sistema di regole che ci governa, non le pare, Capo?» disse Iles.
Lane non gradiva sentir pronunciare la parola esaurimento, e trasalì. Harpur vide che Iles se n’era accorto e immaginò che l’A.C.C. volesse formulare diversamente il proprio pensiero. Iles disse: «Sissignore, il progressivo esaurimento».