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Mansel Shale ricevette un invito da un paio di grossisti chiamati Keith Vine e Stan Stanfield, che volevano trascorrere una serata in sua compagnia presso il club di Panico Ralph Ember, il Monty. Vine diceva d’esser rimasto colpito dall’intervista alla TV. Disse di portare anche Alfie Ivis, se Shale voleva. Shale prese un’altra volta la bicicletta per andare a discutere la cosa con Alfie. Ivis disse: «Noi ci dobbiamo andare, Manse. Francamente, è proprio questo il genere di sviluppi ai quali puntavo, con l’aiuto della BBC».
Quant’era furbo. «Ma questi sono nullità» ribatté Shale.
«Con rispetto parlando, Manse, non sono piccoli fino a questo punto. Di recente ho fatto le mie brave ricerche». Ai ragazzi di Alfie era ricominciata la scuola, e la moglie era uscita. I figlioli di Shale sarebbero stati di ritorno dal Galles tra breve. «E in ogni caso, Manse, non è la grandezza di questa gente, la cosa che ci interessa. A noi interessa far vedere che tra i grossisti c’è unità, con te alla testa di tutti. A quel punto sarà ancora più irrealistico, da parte della polizia, rifiutare un bel concordato preventivo».
«Questo Vine al telefono ha detto che il mattatore sarò io» ribatté Shale. «Ma come accidenti parla, ’sto ragazzino, Alfie. Intendo dire, ma mi conviene mettermi in società con una fighetta che parla così?».
«Tu sei sempre stato straordinariamente attento al modo in cui si esprime la gente, Manse. Ma forse dobbiamo fare buon viso, davanti alle loro semplicionerie. Credimi, questo sarà un passo avanti molto importante. Ha detto che Stanfield era d’accordo, sul fatto che tu sei la massima, indiscussa autorità?».
«Concordano entrambi. Ne hanno parlato».
«E questo è significativo, Manse, data l’arroganza e la supponenza di Stanfield, uno che operava in Francia. Ora tutt’assieme capiscono di avere bisogno di te».
«E io ho bisogno di loro, Alf?».
«Certo che no, Manse. Non nello stesso senso in cui loro hanno bisogno di te. Tu hai bisogno di loro giusto per dare l’idea di una pacifica confederazione di fornitori». Alfie era tutto contento, col faccione che gli si animava nei punti più insoliti. «È particolarmente utile pure il fatto che la riunione abbia luogo al Monty. Ralph Ember è un altro che sta cercando di trasformarsi in grossista, sento dire. Forse ha già cominciato. Però, ovviamente, ti avrà visto alla TV, così sicuro e a tuo agio. E ci vedrà conferire con Vine e Stanfield nel proprio locale. Potrà dedurre che cosa sta succedendo, e desidererà una certa vicinanza alla tua persona, Manse. Senza la quale, questa gente oramai non può sopravvivere. Sono terrorizzati dall’idea di restare fuori dal nostro patto con la polizia».
«Non c’è ancora nessun patto».
«Loro sospettano che ci sia già. È questo quello che conta, Manse. E questa convinzione diffusa ci aiuterà ad arrivarci per davvero, all’alleanza che cerchiamo. Harpur ed Iles hanno le loro spie, al Monty, su questo non ho dubbi, perciò verranno a sapere del meeting pure loro. Non ci potrà fermare nessuno». Alfie diede un colpetto sul bracciolo della poltrona in pelle vecchia e sudicia sulla quale stava seduto. «L’apparenza finirà col creare la realtà».
Shale questo genere di frasi imbecilli non le poteva sopportare, ma stavolta pensò di spararne una lui, di rimando: «È pericoloso, Alf. È come prendere i chiari di luna e farli diventare politica aziendale».
«Un rischio passeggero c’è, lo ammetto. Ma si annullerà da solo. Mansel Shale non è uno che si tira indietro di fronte al rischio, altrimenti non saremmo qui a parlare, dico bene?».
E così Shale acconsentì a quell’incontro. Quella sera stessa sarebbe ritornato a casa di Alfie in bicicletta, poi sarebbero andati al Monty con la macchina di Alf. Shale adesso era tornato a pensare che Alf di quando in quando un po’ di talento per gli affari riuscisse a tirarlo fuori, e forse era meglio lasciargli gestire la faccenda. Un bel cambiamento rispetto a quello che Shale aveva pensato subito dopo l’intervista in TV. Allora quell’idea gli era sembrata un tremendo errore, tale da compromettere tanti anni felici di basso, bassissimo profilo. Era colpa di Alfie, su questo non ci pioveva, e Shale aveva ricominciato ad aver dubbi sul suo consigliere non appena finita la trasmissione, col sapore di marcio ancora in bocca. Alfie pigliava un bel po’ di quattrini dall’azienda, e perché mai uno dovrebbe pagarsi le calamità? E poi, Shale seguitava a domandarsi che genere di vincolo segreto ci fosse tra Alfie e W. P. Jantice.
Ma a quel punto Shale aveva ricevuto l’entusiastica telefonata del suo nuovo ammiratore, il giovane e chiassoso Keith Vine, e aveva rimesso tutto in discussione. Forse l’idea della TV non era stata tanto cattiva, in fin dei conti. Shale teneva il telefono staccato quasi tutto il tempo, ogni tanto però doveva ricollegarlo per poter fare delle chiamate. Vine aveva telefonato proprio mentre Shale stava per staccare la spina un’altra volta.
«Per farti le congratulazioni, Manse» aveva detto con quella voce da uomo di successo, gradevolmente rumorosa.
«Sul serio?».
«Voglio dire, sopravvivere alle brutalità successe a casa tua l’altra sera. E poi la trasmissione. Magistrale. Stan e io, abbiamo detto tutti e due la stessa cosa. Questa tua lodevole preoccupazione per l’ordine».
Il discorso di Vine e Stanfield era che speravano di poter ingrandire la loro azienda, perciò di punto in bianco Vine cercava l’amicizia. La trasmissione evidentemente gli aveva fatto intravvedere che la Mansel Shale Inc. era organizzata per benino, aveva una grande intesa coi poliziotti, di quelle che andavano tanto di moda. Era proprio vero quello che aveva detto Alfie: Vine tutto d’un tratto aveva paura che la sua organizzazione restasse fuori dai giochi, senza protezione, come una qualsiasi pattuglia d’invasori da Londra o da Manchester. Shale si rese conto che forse la scommessa di Ivis non era stata chissà quale folle azzardo, dopotutto.
Al telefono, Vine aveva detto: «Ci è sembrata una performance importante, la tua, Manse. La bambinetta che ti intervistava non sapeva che pesci pigliare. Hai dato una dignità straordinaria al mondo dell’impresa».
«Grazie, Keith».
«Guarda, Manse, tanto Stan Stanfield che io pensiamo che sarebbe utile un meeting fra la nostra e la vostra azienda».
«Che cosa avresti in mente, Keith?». Be’, era ovvio che cos’aveva in mente questo qui, però a uno come Keith Vine bisognava fargli vedere che gli appuntamenti al buio non erano graditi.
E a questo punto c’era stato quel pezzetto divertente: «Chiaramente il mattatore sarai tu, Manse. Tu sei il battistrada, il pioniere. Lo dice Stan, lo dico io».
Shale disse: «Ti richiamo».
E così adesso erano al Monty. Shale questo club non lo poteva sopportare. Ai vecchi tempi era un posto di classe, dicevano. Vabbè, vuol dire che ora era in ribasso, come tutto il resto, e andava ribassando sempre di più. In qualsiasi momento dell’anno si facesse la conta, il venti per cento dei tesserati era esentato dal pagamento delle quote perché stava in galera, e un altro po’ stavano legati al letto di qualche ospedale. Ma questo Ralph Ember, il proprietario, si comportava come se fosse ancora un posto come Boodle’s o White’s a Londra, lì dove stavano il potere e la distinzione. In teoria dovevi andare in estasi per il mogano e l’ottone che ricordavano quei tempi andati, e pure per Panico Ralph Ember dietro il bancone, che parlava come se si fosse al castello di Sandringham dei miei stivali.
Vine disse: «A Stan e me piace immaginare che si possa un attimino leggere nel futuro imprenditoriale».
«Mi piacerebbe esserne capace» replicò Shale.
«Manse, tu sei il futuro» disse Stan Stanfield. «Di qui il meeting. E grazie per esser venuto stasera, in un momento simile».
I quattro stavano seduti intorno a un tavolo sotto una fotografia in cornice della famosa gita a Parigi del Monty, durante la quale si diceva che una puttana fosse stata sequestrata per trentasei ore e due papponi venuti a cercarla respinti con perdite.
«Ah, il ventunesimo secolo. Ritengo che tutti noi si abbia a carico un certo numero di persone amate, e si debba immaginare come dar loro una certa sicurezza, in quest’epoca a venire» affermò Vine.
«Noi dobbiamo essere flessibili» replicò Alfie Ivis. «Siamo in un’era di rapidi cambiamenti sociali e commerciali».
Stanfield si alzò in piedi e staccò la foto dal muro, alla ricerca di una cimice. Sembrò soddisfatto e fece un sorriso amichevole in direzione di Ember, che dietro il bancone faceva finta di non osservarli.
«Nella misura in cui i poliziotti capiscono di dover essere flessibili anche loro» disse Vine.
«Questo è essenziale...» disse Alfie.
Keith Vine disse: «Si capisce che non verremo a chiederti i dettagli del funzionamento di questo concordato che stai genialmente mettendo in piedi, Mansel».
«No, per favore non chiederli, Keith» disse Alfred. «È tutto confidenziale».
«Cioè, per esempio, a che livello gerarchico funziona... se siamo al vertice o possibilmente un attimino più in basso...» fece Vine. «Non avrebbe grande importanza, in ogni caso. Lo sappiamo tutti chi è che comanda davvero, in polizia, da queste parti».
Questo ragazzino stava facendo delle domande dicendo che non intendeva farle. Doveva immaginare che Shale fosse un novellino, proprio com’era lui stesso, e che cazzo. Vine era sui venticinque anni, grande e grosso, capelli chiari tagliati a spazzola, sembrava uno di quelli che alle partite di calcio strappano via i seggiolini per utilizzarli come armi improprie. «Il vero potere spesse volte sta tranquillo, in disparte, non si mette in mostra» replicò Shale.
Stanfield disse: «Noi saremmo disposti a considerare l’ipotesi di mettere la nostra organizzazione sotto il tuo governatorato, Manse».
«Per questo dicevo il futuro...» disse Vine. «Cooperare per una nobile causa».
«Questa è certamente una proposta che noi vaglieremo con spirito costruttivo» replicò Alfie, «anche se ovviamente non è cosa che si possa risolvere su due piedi, qui al Monty».
«Certo che no» disse Vine, con una gran risata. Lui e Stanfield stavano bevendo armagnac Kressmann, bottiglia elegante con l’etichetta nera, proprio il genere di cosa la cui importanza Panico era solito spiegare ai clienti. Shale e Alfie avevano preso gin e menta. Quello stronzo di Ember s’era messo un sorrisino affettato, mentre glieli preparava. Questo tizio se l’era guadagnato il proprio nomignolo, Panico, per via delle tante operazioni che aveva mandato in malora, dalle rapine in banca alle società immobiliari ai furgoni blindati. Però sembrava che la facesse sempre franca, e la facesse franca con una bella fetta del bottino. C’era gente che era morta o che stava facendo vent’anni di galera o che stava sulla sedia a rotelle per via degli attacchi di panico di Panico. Ma lui nessun problema: aveva il club, aveva le figliole presso scuole come si deve, aveva le donne.
Stanfield disse: «È stata incredibile, la rapidità con cui si sono calmate le acque dopo che la ragazzina è finita sparata. Qui deve trattarsi di averci davvero del peso, Manse. Congratulazioni».
«Il signor Shale prova una tristezza incessante riguardo alla morte della bambina» replicò Alfie Ivis.
Stanfield disse: «Quando Keith dice che non pretendiamo di essere messi a parte dei dettagli di questo concordato così personale che potresti aver messo in piedi, Manse, è ovvio però che qualcosina dei fondamentali la sappiamo: sappiamo che c’è un messaggero d’amore, per esempio. E questa figura un po’ ci preoccupa. Sembra una cosa un po’ avventata».
«Un po’ estrema» disse Vine. «Ci rendiamo conto che dev’esserci un ufficiale di collegamento, ma allo stesso tempo...».
Alfie disse: «Dubito che il signor Shale e io si riesca a capire di che cosa state...».
«Si tratta di W. P. Jantice, chiaramente» rispose Vine.
«Chi?» domandò Ivis.
«Oh, suvvia, Alf» disse Stanfield. «Noi non diciamo che il suo sia stato un atto totalmente gratuito. Ad uno nella posizione di Jantice lo stress non deve mancare».
«Una ragazzina. Che disgrazia» disse Vine.
«Ma non crediamo certo che si sia trattato di ordini da parte tua, Mansel» disse Stanfield. «Non è questo il modo in cui Mansel Shale si comporterebbe nei confronti di una bambina». Era più vecchio di Vine, con un faccione grosso quasi come quello di Alfie. E dei baffoni chiari, un po’ sfilacciati, più come i peli sotto le ascelle che altro. Come aveva accennato Alfie, Stanfield aveva operato un pochino in Francia, così si narrava, e piaceva alle donne: qualcuno diceva che piacesse persino alla ragazza di Jack Lamb e alla studentessa di Harpur.
Vine disse: «Jantice è uno che può uscire dagli schemi, laddove per come la vedo io, quello che tutti noi vogliamo è ristabilire un qualcosa di prevedibile e di ordinato».
Stanfield era solito raccontare d’essere il discendente di un certo famoso pittore del secolo scorso, tale Clarkson Stanfield. Ovviamente, di fronte al tocco artistico le donne si bagnavano. «Staremmo meglio senza W. P. Jantice» disse.
Ember si avvicinò al tavolo reggendo un vassoio sul quale stavano altri due generosi gin e menta, la bottiglia del Kressmann e tre bicchieri di brandy vuoti. Prese una seggiola e si mise seduto insieme a loro. Piazzò il rifornimento di gin e menta davanti a Shale ed Ivis, poi riempì i tre bicchieri di armagnac, ne prese uno per sé e passò gli altri a Vine e Stanfield.
«Compliments de la maison, messieurs» disse, facendo una specie d’inchino da seduto a Stanfield, per via del fatto che quello lì era stato all’estero. «Questo è il genere di tableau che mi piace» disse. «Un gradito ritorno all’epoca gloriosa di questo club, quando un gruppo di imprenditori poteva mettersi qui seduto a discutere un affare, o magari soltanto a farsi una bella chiacchierata».
«Qui si tratta in parte di affari e in parte di quella che immagino tu chiameresti filosofia, Ralph» replicò Ivis. «Noi cerchiamo le strade che ci portano verso la stabilità. Noi dobbiamo afferrare la logica che sta dietro all’apparente caos dei nostri tempi. E di conseguenza adattarci e, cosa non meno importante, persuadere gli altri ad adattarsi a questa logica».
Ember annuì. Una cicatrice che si ritrovava lungo la mascella sotto quelle luci faceva l’effetto come del maiale sul banco del macellaio. Panico non aveva mai detto come se l’era procurata, ma lasciava che la gente pensasse a qualche nobile combattimento del suo nobile passato. Certuni dicevano che se l’era fatta inciampando sui suoi stessi piedi mentre scappava da un’impiegata di banca a cui era saltata la mosca al naso durante una rapina.
«Stabilità...» disse Panico «... questa è merce rara al giorno d’oggi».
Ivis disse: «Se siamo in grado di unirci e condividere un percorso con altri interessi forti, noi...».
«Con la polizia?» chiese Ember.
«Uniti, potremo azzerare tutto ciò che è casuale, accidentale, come i fatti di Sphere Street» disse Ivis.
«Ma è stato un caso, quello lì?» ribatté Ember.
«Il buon senso e lo spirito di equità invocano un coordinamento di questo genere» disse Ivis.
«Be’, a me suona veramente bene» fece Ember.
«Però il mattatore sono io...» fece Shale.
S’era fatto tardi. Tornarono in macchina al faro, a recuperare la bici di Shale: sarebbe tornato a casa attraverso il sentiero. Persino a quest’ora della notte poteva esserci qualche bastardo dei media davanti al cancello della canonica. «Questo Jantice sta diventando un peso, Alf» disse Shale, ma Alfie non rispose.