III

Il tarchiato faceva strada: dietro di lui il delegato di polizia Ezechiele Beretta, il giudice di pace Alcide Balmelli e il dottor Giocondo Riva.

Albino Frapolli aveva fatto sgomberare il vicolo e in strada non c’era più nessuno. Il pubblico era comunque dappertutto, alle finestre, sui ballatoi, sulle scale aggettanti, sui balconi e tutti in rispettoso silenzio.

Non appena vide il suo superiore, il gendarme accennò un saluto militare e indicò con la mano destra, puntando l’indice, il corpo a terra.

«Bene Frapolli. In gendarmeria mi darà i dettagli sul ritrovamento».

Il delegato Beretta si avvicinò al corpo e fece una prima analisi sommaria. I suoi studi di criminologia e l’esperienza nella polizia criminale scientifica di Zurigo gli avevano conferito una certa capacità nell’esaminare casi di morte violenta.

Il giudice di pace si consultò con il dottore, prese qualche annotazione e dopo essersi congedato se ne andò: il suo compito istituzionale era quello di constatare il decesso e di chiamare le pompe funebri.

Fu il turno del dottor Riva. Prima di avvicinarsi al cadavere, si guardò attorno severo e ostile, voleva intimorire gli abitanti del rione e farli rientrare nelle loro case, ma non ottenne soddisfazione.

«Questi selvaggi non hanno un minimo di decenza» bofonchiò a bassa voce e, prima di chinarsi, si tolse il soprabito e lo consegnò assieme alla bombetta al gendarme. «Tenga un attimo, non voglio sporcare il mio soprabito in questo sudicio posto».

Il Frapolli guardò sorpreso il delegato, il quale inarcò le sopracciglia e si strinse nelle spalle in segno di arrendevole rassegnazione.

Giocondo Riva sollevò di circa dieci centimetri la tovaglia quadrettata e puntò di nuovo gli occhi verso l’alto alla ricerca di un duello visivo. Avrebbe voluto fulminare con lo sguardo tutti quegli esseri che lo fissavano. Il dottore riteneva gli abitanti di quel rione la causa delle innumerevoli malsane vicende cittadine. Sentirsi sotto il loro giudizio lo infastidiva parecchio. Stizzito, riabbassò la tovaglia e rivolgendosi all’ufficiale capo disse: «Analizzerò il cadavere nel reparto di anatomia patologica dell’ospedale civico. I risultati nel mio studio». Riprese i suoi oggetti in malo modo e uscì dal vicolo con passo risoluto senza salutare nessuno.

La partenza del dottore fu accompagnata da innumerevoli versacci e versetti di biasimo, vociati da quell’improvvisato pubblico appollaiato sui ballatoi e alle finestre. Il gendarme tentò di zittire quella gente, ma invano. Il silenzio ritornò solo alle parole del delegato. «Va bene, ora basta. Abbiamo bisogno di un po’ di concentrazione».

Composti e quieti ritornarono tutti al loro stato di silenziosi osservatori.

«Prima che arrivino quelli delle pompe funebri» fece il Beretta «voglio fotografare ogni particolare ed eseguire alcuni accertamenti». Estrasse dalla tasca la sua Leica I, la tolse dall’astuccio di cuoio marrone e scattò alcune foto d’insieme e un particolare della ferita sulla nuca, inquadrando anche lo scalino.

Albino Frapolli, placata l’adrenalina di quella folle giornata, si sentiva appagato da quanto gli stava capitando: la sua prima inchiesta fianco a fianco con un ufficiale di polizia.

Ezechiele Beretta ripose la sua macchina fotografica nella tasca del soprabito, s’infilò un paio di guanti e accosciato iniziò a toccare con professionalità il corpo. Senza spostare la tovaglia di un solo centimetro, controllò i giunti della mascella, dei gomiti e delle ginocchia. Estrasse di tasca un gesso bianco e contornò il corpo con una linea continua che seguiva gli innumerevoli rilievi del selciato. Albino osservava ogni mossa.

«Da una prima analisi sommaria sembrerebbe che la giovane abbia battuto la testa su questo scalino» fece il Beretta, mentre scorreva la mano dietro la nuca della ragazza. Pochi istanti dopo, guardandosi la punta delle dita, aggiunse pensieroso: «Però c’è poco sangue qui attorno».

«Forse è morta per un’emorragia interna» disse il Frapolli.

«Possibile!».

Il delegato si alzò e stavolta fu lui a rivolgersi all’inverosimile pubblico, attento al susseguirsi degli eventi, come gli studenti al teatro anatomico di Padova.

«Qualcuno di voi conosce questa ragazza?».

Nessuna risposta, ma solo cenni di diniego.

«Chi ha trovato il corpo?».

Gli sguardi di tutti si diressero verso una finestra, dove un uomo e una donna, appiccicati, cercavano spazio nello stretto vano. La donna rientrò. L’uomo si affacciò meglio, guardò i poliziotti e con voce solenne si presentò: «Il qui presente Fioratti Carlo, detto Carlin, di professione moletta, ha trovato il sottostante ignudo cadavere nel suddetto vicolo in Sassello». Certo di avere l’attenzione dei presenti, il testimone si gongolò e impettito continuò la sua testimonianza che narrava da banditore. «Onde tutelare il pubblico decoro, il qui presente Fioratti, usando una tovaglia a scacchi trovata in loco e dai colori confederati, si adoperò di nascondere le citate nudità espresse dal cadavere femminile. Con ancora nei padiglioni auricolari il rintocco della mezz’ora prima della sesta, il sottoscritto Fioratti vide giungere, in codesto anfratto del Sassello in Lugano, il Carrozzi Aristide, detto “Risciott”. Assieme allertarono gli illustri cittadini qui presenti e le forze dell’ordine pubblico costituito».

«Ha visto, Frapolli? Abbiamo già il verbale fatto» fece sottile il delegato. «Va bene, grazie Fioratti. Oltre all’arrotino, c’è qualcun altro che ci può comunicare delle informazioni utili?».

Silenzio. Nessuno apriva bocca.

«Possibile che non la conosciate? È morta qui nel vostro quartiere, davanti alle vostre case, sotto i vostri balconi».

Una donna, con un grembiule della stessa stoffa della tovaglia che ricopriva la ragazza, si fece spazio tra gli osservatori calcati su un ballatoio. «Non l’avevamo mai vista prima d’ora. Magari è una nuova arrivata all’Osteria del Pà Cech».

Accompagnati dal tarchiato, che pareva avesse assunto il ruolo di Caronte, comparvero, con in testa dei sinistri cilindri, due necrofori. I becchini si guardarono attorno, studiarono la situazione e senza aprir bocca, con gesti accorti e professionalità, posero il corpo in una cassa, la chiusero con un coperchio di legno d’abete e uscirono dal vicolo. Il loro passo lento fu accompagnato da fiati sospesi e sguardi mesti.

Il delegato si tolse i guanti e li rimise in tasca, riprese la sua Leica e fotografò la sagoma bianca. Diede un’ultima occhiata alla scena, annotò delle osservazioni sul suo taccuino dalla copertina nera e, dopo aver salutato sventolando una mano in aria, lasciò il vicolo. Albino lo seguì.

«Vieni Frapolli, facciamo un giro e poi andremo a berci un bicchiere di vino qui vicino». Il suo superiore era passato al tu e il gendarme se ne compiacque.

«Mi scusi, ma io non posso bere vino in servizio, è proibito dal regolamento».

«Berrai una gazzosa o dell’acqua minerale».

«Non ispezioniamo la scena del crimine?» chiese il Frapolli.

«Troppo compromessa. Se vi erano prove di sicuro son state distrutte dalla confusione che presumo ti abbia accolto. Torneremo sul posto quando appureremo la nostra teoria. Rilassati, Frapolli, per prima cosa dobbiamo scoprire l’identità della vittima».

Usciti dal cortiletto, svoltarono a destra e s’incamminarono verso vicolo Nassa. Giunti in via Nassa la percorsero per un po’, quasi fino alla chiesa di San Carlo, poi rientrarono nel quartiere attraverso vicolo Sassello.