IV

Albino era uno spilungone, con la faccia quadrata, orecchie un po’ pronunciate, occhi orientali e avvicinati al naso. Quando sorrideva, il labbro superiore diveniva impreciso, mostrando sulla sinistra un incarnato pallido. I suoi capelli erano castani, sempre corti e tagliati a spazzola: aveva poco più di vent’anni.

Il Beretta era di statura e corporatura media, faccia ovale, segnata da qualche ruga e da una cicatrice sopra l’arco sopracciliare destro. Occhi rotondi e smussati da un inizio di palpebre cadenti. I suoi capelli erano neri, lucidi e pettinati all’indietro tanto da mostrare sulla fronte i segni di un’imminente calvizie: aveva poco più di cinquant’anni.

I due avanzavano con passo deciso tra i vicoli del rione. Il giovane gendarme si guardava intorno con timore e prudenza, come da piccolo nel tunnel dell’orrore alla Fiera delle Meraviglie. I suoi sentimenti erano accentuati e allertati da tutti quei sentiti dire malefici, paragonabili al cerchio dei lussuriosi e alla bolgia dei ladri dell’inferno dantesco. Non riusciva a cogliere e a comprovare quelle dicerie, e il Sassello gli sembrava consueto come il resto della città.

Le vie del borgo erano piene di vita. Per strada i bambini correvano, giocavano e vociavano allegri. Dai balconi e dalle finestre sporgevano lenzuola, tovaglie e panni appesi. Qualche anziano guardava dai loggiati gli affaccendati abitanti nella laboriosa quotidianità. Le attività erano in strada, davanti alle botteghe e ai negozi. C’era il Manzolini ramaio, il Ferrari esperto mastro ferraio e il Bertogliati lattoniere intento a piegar canali per le grondaie. Dalla Bettola del Michée usciva il profumo del quarto paiolo di polenta cotta sul fuoco che, assieme a quello della luganiga e del merluzzo, vagava a mezz’aria ad altezza naso, raggiungendo calle e viuzze, e mettendo in subbuglio le pance ancora vuote.

Un uomo con una porta poggiata sulla testa si stava dirigendo verso la bottega del Bernaschina, falegname. Alcune donne, uscite dal forno del Cerutti, si erano portate assieme al pane e alla sporta la fragranza della farina calda. E tutti si muovevano, chiacchieravano e discutevano di cose semplici, di ogni giorno. Ciarlavano tra loro con una parlata particolare, singolare, e nell’andirivieni salutavano con simpatia e cordialità.

Il giovane gendarme si sentiva una specie di vittima della propaganda anti Sassello. Non aveva l’impressione che quel posto fosse pieno di tagliaborse. Ce n’erano, ma come dappertutto.

Anche le abitazioni ad Albino non sembravano così fatiscenti. Sì, era vero, non erano belle e tinte come quelle del centro, ma non erano per nulla diverse da quelle di altri nuclei che conosceva bene. Sonvico, Carona e Gandria avevano lo stesso aspetto. L’atmosfera che permeava dal rione, fatta di scalette, balconcini, vicoli stretti, calle, passaggi e sottopassaggi dava una sensazione particolare, antica, atavica: un gran senso di sicurezza, di protezione, di casa.

«È bello qui» disse Albino con tutta quell’ingenuità da ragazzotto cresciuto da poco che gli usciva di getto, spontanea, quando non doveva entrare nella parte del severo tutore della legge.

«Direi di sì» fece il delegato. «Io ci vengo quando ho necessità di stare per conto mio, a riflettere, o a fine giornata per rilassarmi. Vado al Cantinone, dal Bisbin o dal Pà Cech, mi bevo un buon bicchiere di vino del Piemonte o un vermut. Adoro questo posto». L’uomo parlava con afflizione, si vedeva che conosceva ogni angolo e ogni sasso dell’acciottolato, e rifletterci sopra lo rattristava. Il giovane gendarme comprese lo stato d’animo del suo superiore e intuì il motivo di quel rammarico. Da anni non si parlava d’altro e anche lui era tra i favorevoli alla demolizione, ma da quel giorno gli pareva un atto sconsiderato e scellerato. Attese qualche istante e crucciato disse: «Ma perché vogliono demolire il Sassello?».

Vi fu una lunga pausa.

«Non lo vogliono solo demolire, lo vogliono radere al suolo, spazzarlo via, cancellarlo da ogni memoria».

Il delegato si era infervorato, quell’argomento a quanto pareva gli stava a cuore. Albino si pentì quasi subito della domanda, ma ormai era tardi.

«I motivi che hanno propinato a tutti sono quelli dell’igiene, della salute e dell’ordine pubblico. Figuriamoci! Tra i politici a caccia di voti, i municipali in cerca di soldi per i dissestati conti pubblici e gli operatori turistici alla ricerca di pubblicità per i loro prodotti, i veri motivi si sprecano. Non potevano certo dire che la vera ragione di quello che vogliono fare è il denaro. Ma purtroppo è così. L’avidità è una brutta bestia e gli esseri umani non la sanno addomesticare. Aggiungi poi la mancanza d’amore per il passato, l’indifferenza per le proprie radici...». Smorzò le sue ultime parole. Si rese conto che, preso dall’impeto, si stava sfogando in maniera eccessiva e inadeguata davanti a un sottoposto che conosceva da poco, così terminò il discorso filosofeggiando sull’esistenza. «Questa è la vita, caro Frapolli. Pochi comandano e molti obbediscono. Com’è che diceva Stendhal: “Il pastore cerca sempre di convincere il gregge che l’interesse delle pecore e il proprio siano gli stessi”».

Quell’uomo lo stava incuriosendo, l’ammirazione che aveva per il Beretta, in comune con molti colleghi, si stava consolidando. Conoscerlo di persona, averci a che fare e sentirlo ragionare con così tanta franchezza, confermava e avvalorava i buoni giudizi sentiti su di lui.

Il delegato rallentò, si fermò e guardò il gendarme. «Eccoci arrivati».

«Mi sembra il luogo da dove siamo partiti» fece il Frapolli.

«Direi di sì, in questi casi è buona cosa fare il giro del quartiere. Dobbiamo anzitutto segnalare che le forze dell’ordine ci sono e stanno indagando. Inoltre ci potrebbe essere la possibilità che qualcuno che ha visto qualcosa si faccia avanti».

«In effetti... non ci avevo pensato» disse il gendarme.

«Speriamo che il buon Francesco abbia qualcosa da mangiare, sono passate le 14.00 e ho una fame tremenda. E tu Frapolli?».

«Non me lo chieda, ho la pancia vuota e la gola secca come un pozzo nel deserto».

«Bene!». E così dicendo salì qualche gradino e aprì la porta dell’osteria del Pà Cech, al numero uno di via Sassello.