XIV

Il fattaccio del primo ottobre aveva esorcizzato Albino. L’inquietudine di appena qualche giorno addietro nell’entrare in Sassello si era dileguata. Girovagando con il delegato, tra osterie e vicoli, si era acclimatato a tal punto che se non fosse stato per la mamma, irremovibile dal quartiere di Molino Nuovo, sarebbe andato volentieri ad abitare lì.

Per svolgere l’incarico ricevuto, aveva deciso una semplice strategia: rifare il medesimo percorso del giorno del ritrovamento del corpo. In tasca aveva il taccuino nero e tra le pagine la fotografia di Eleonora.

Il cavedio del fattaccio – deserto – aveva un’altra prospettiva. Gli pareva più grande rispetto all’ultima volta che c’era stato. La sagoma bianca disegnata attorno al cadavere era quasi scomparsa.

Il giovane gendarme aveva così impresso quel tragico evento, che i segni sbiaditi della silhouette fecero riaffiorare in lui innumerevoli incertezze. Si sentiva insicuro e impreparato a simili eventi. Focalizzò la sagoma bianca con fermezza, ma l’immaginazione, come spesso gli capitava, lo travolse oltrepassando la realtà. Gli parve di vedere materializzarsi Eleonora all’interno del contorno di gesso, sorridere e vaporosa alzarsi da quella scomoda posizione. La ragazza, con il medesimo vestito della fotografia, sembrava smarrita. Diafana avanzava verso di lui, con passo lento, sospeso, come se la gravità la ignorasse. Impacciato, si diede contegno aggiustandosi la divisa e sistemandosi le cinghie di cuoio che reggevano manganello, pistola e giberna. Sereno allungò il braccio verso di lei per prenderle la mano e condurla chissà dove.

«Buongiorno. Buongiorno. Cerca qualcuno?» fece una signora con insistenza, mentre allibita osservava il gendarme e quelle inusuali moine. «Ehi, dico a lei. Cerca qualcuno?».

Dalla finestra del secondo piano dell’edificio meno scalcinato che contornava il vicolo, arrivò nelle orecchie del giovane un rumore in lontananza, smorzato, quasi afono. Il rumore si fece più chiaro e divenne voce fastidiosa tanto da rendere evanescente la dolce visione che aveva dinanzi. Il gendarme si rese conto che stava sognando a occhi aperti. Stava fantasticando un immaginario lieto fine che purtroppo non era avvenuto. Impacciato alzò la testa e contraccambiò il saluto.

«Buongiorno. Signora... Fioratti, giusto?».

La signora fece un impercettibile segno di assenso.

«Sono il gendarme Albino Frapolli e sto facendo delle indagini sul crimine successo ieri l’altro in questo posto».

«Non è successo qui».

«Che cosa intende, signora?».

«Non è successo qui, non è successo qui» ripeté la donna.

Il giovane si rammentò dell’assurdo modo d’interrogare gli abitanti del Sassello che aveva visto fare al Beretta: dalla strada alle finestre. Fece mente locale e decise, per cercare di avere qualche nuova notizia, di approfittare dell’apparente loquacità della sua interlocutrice con una semplice asserzione: «Il corpo era in questo vicolo».

«Mezz’ora prima di tutta quella confusione non c’era nessun corpo. Non è successo qui. Questo è un quartiere rispettabile».

Se la signora afferma il vero, pensò il Frapolli, il corpo è comparso, con tutta probabilità e con un certo margine d’errore, tra le 10.45 e le 11.30. O è stata uccisa in quell’intervallo, oppure, sempre in quell’intervallo di tempo, qualcuno ha deposto il cadavere nel vicolo.

«Mi scusi, signora, si ricorda l’ultima volta che quel giorno ha guardato nel vicolo?».

«Suonavano le 11.00. Ho sentito dei rumori e credevo fosse il Carlin già di ritorno dal mercato. Ho guardato nel cortile, ma non ho visto nessuno. Sono scesa in bottega e quando sono rientrata c’era tutta quella confusione».

Albino, eccitato, annotò le nuove informazioni sul taccuino. È successo tutto in pochissimo tempo, pensò. Alle 11.00 il cadavere non era nel vicolo. Il Fioratti dice di averlo trovato mezz’ora prima dell’ora sesta, cioè verso le 11.30. L’omicidio è avvenuto fra i due orari. Forse un raptus. Chi può essere così folle da mettersi a trafugare cadaveri a quell’ora? È stata uccisa lì. Ne sono certo.

«Mi scusi di nuovo, signora, com’erano i rumori che ha sentito?».

«Rumori».

«Ha udito delle grida o dei lamenti?».

«Solo rumori».

Il Frapolli si congedò dalla sua interlocutrice e iniziò a guardarsi attorno con un’attenzione diversa. Nel cortiletto al piano terreno, oltre a qualche finestra, vi erano quattro porte, due di cucine anguste che parevano disabitate e due di locali non abitabili: un deposito e un magazzino malandato. Fece uno schizzo dell’area e con perizia segnò le porte, indicando i locali in cui conducevano. Li numerò e annotò sul bordo la sequenza da uno a quattro, lasciando uno spazio per i nomi dei proprietari.

Le ipotesi parevano innumerevoli. Eleonora poteva essere stata assassinata in uno qualunque di quei locali e poi abbandonata nel cortile. Oppure uccisa nel cortile, dopo che era uscita da una cucina o da una cantina. Quest’ultima ipotesi pareva la più inverosimile. Non riusciva a immaginarsi un delinquente che a quell’ora, dopo aver compiuto un delitto così raccapricciante, si mettesse a spogliare il cadavere con il rischio di essere visto. Si rese conto che doveva scoprire che cosa ci facesse la ragazza al Sassello.

Uscì dal cortile, girò a destra e dopo pochi passi si ritrovò davanti alla bottega dell’arrotino Fioratti.

Il locale era piccolo, o almeno così sembrava. Le innumerevoli scaffalature attaccate alle pareti, strabordanti di lame e coltelli, emanavano un qual certo timore, ridefinendo l’usuale rapporto che di norma si ha con i muri che delimitano lo spazio. La bottega era illuminata da un’ampia finestra che si affacciava sulla via. All’interno, un odore di grafite, di polvere di carbone e limatura di ferro, amalgamati in un’unica essenza, saturavano l’aria. Il Carlin Fioratti non distolse lo sguardo dalla sua mola pirotecnica, che spruzzava scintille luminose in ogni dove, nello stesso modo di un piccolo fuoco d’artificio. Pareva immune agli spruzzi incandescenti e con maestria molava una lama d’acciaio, accompagnando il metallo, con le dita nude, da una parte all’altra della pietra rotante.

Il gendarme attese con pazienza che l’uomo finisse il suo lavoro e presentandosi lo salutò.

«Che cosa può fare il qui presente Fioratti per la legge costituita?».

«Avrei bisogno che m’indicasse chi sono i proprietari o gli inquilini del cortile dove è successo il delitto. Un suo aiuto mi farebbe risparmiare parecchio tempo al catasto».

«Ai suoi ordini, eccellentissimo tutore dell’ordine».

L’arrotino posò il coltello sul banco, fermò la mola e con uno straccio, che da anni non vedeva del sapone di Marsiglia, si diede una sommaria pulita alle mani. Uscirono dalla bottega e s’incamminarono verso il vicolo dietro l’angolo.

Il Fioratti iniziò a dare spiegazioni: pareva una guida turistica. «Il locale adibito a luogo di libagioni a levante è degli Schmid. Quello dirimpetto dei Bellasi, ma ormai appartiene all’erede Michele, perciocché la genitrice di lui è passata a miglior vita l’anno Domini precedente». L’arrotino non stava fermo. Maneggiava e sbracciava arricchendo la sua fiorita spiegazione con gesti plateali, da tragicomico. «Il deposito di cianfrusaglie e affini è del qui presente Fioratti Carlo, detto Carlin e della di lui moglie Erminia. Mentre l’altro vano, che si trova nella direzione in cui il sole lascia questa valle di lacrime, appartiene all’illustrissimo signor Carrozzi Aristide, detto Risciott, già noto segnalatore di fattacci alle forze dell’ordine costituito».

Il Frapolli completò la sequenza numerica che aveva preparato in precedenza indicando: 1. Cucina Schmid; 2. Deposito Fioratti Carlo ed Erminia; 3. Deposito Carrozzi Aristide; 4. Cucina Bellasi (Michele).

«Di cosa si occupano gli Schmid e il Bellasi?».

«I primi sono tartufari, dicono esperti. Il secondo è un umile taglia siepi e pota rose».

«Cercatori di tartufi e giardiniere» sintetizzò il Frapolli.

«È quel che dissi» fece il Fioratti.

Appagato dalle notizie raccolte nel primo pomeriggio, il giovane gendarme s’incamminò per le vie del borgo. Fermava chiunque incontrasse e, mostrando la fotografia di Eleonora, chiedeva informazioni. Cercò anche di capire chi fossero gli Schmid e il Bellasi. Si fece una cultura sul tartufo nero liscio e su quello ordinario, scoprendo che il miglior periodo per la raccolta è tra il primo settembre e il trentuno gennaio, e in quel periodo gli Schmid erano spesso assenti dal Sassello.

Scoprì inoltre che il giovane Michele Bellasi aveva lavorato come aiuto giardiniere nel parco della villa al lago di Friedrich Leopold di Prussia. Quando il principe vendette la proprietà, il Bellasi rimase senza un’attività fissa. Da allora lavoricchiava qua e là e se la sbrigava come poteva.

Eleonora non la conosceva nessuno. Nemmeno una persona, delle numerose incontrate, l’avevano vista al Sassello, e neppure in Verla o in altre contrade.

A fine pomeriggio, mentre si dirigeva in centrale, riassunse a mente gli appunti della sua prima giornata investigativa autonoma. Aveva stabilito il lasso di tempo in cui, con tutta probabilità, era comparso il cadavere. Eleonora sembrava che non abitasse in città: una perfetta sconosciuta. Forse non aveva chiesto alle persone giuste e come avrebbe detto il Beretta: “I giovani amano la compagnia dei giovani”. E lui di diciassettenni non ne aveva incontrati. Da ultimo, il Bellasi Michele. Le informazioni su di lui erano povere e per il momento era l’unico residente del cortiletto su cui aleggiava ancora un certo mistero.

L’indomani avrebbe fatto rapporto al suo capo.