XV

Ogni mattina la mamma preparava una ciotola colma di caffellatte bollente e zuccherato con un cucchiaio di miele. Più che una ciotola pareva un’insalatiera. Albino adorava la prima colazione e non riusciva a essere in forma, se prima non inzuppava nel caffellatte le due solite fette di pane bianco croccante, imburrate e stracolme di marmellata.

A volte la marmellata la sostituiva con una poderosa dose di zucchero ben distribuito sul burro. Le fette dovevano rimanere immerse nella bevanda il tempo giusto, né un secondo di più né uno di meno. Un’eccessiva immersione avrebbe reso il tutto un’immangiabile poltiglia, mentre un’immersione fugace non avrebbe dato la ricercata morbidezza al panino e un’adeguata temperatura agli altri ingredienti.

Per soddisfare l’esigenza del giovanotto, la mamma usciva presto e dal fornaio in via Vignola comprava il pane fresco. Da quando, nel 1916, era rimasta vedova, aveva un’esagerata attenzione per il suo unico figlio. Seppure l’avesse educato con una certa fermezza, verso sani principi e alla misericordia di Dio, gli concedeva qualche vizio e il pane fresco tutte le mattine lo era.

Il papà, una guardia di confine, morì in un brutto incidente sui Denti della Vecchia, durante l’inseguimento di un contrabbandiere. Da quel tragico avvenimento, la mamma si rimboccò le maniche e iniziò a lavorare dodici ore al giorno, così da crescere il figlio nel migliore dei modi. Tutte quelle attenzioni e quei riguardi non avevano per nulla scalfito il senso di responsabilità di Albino che, più di una volta, dimostrò disponibilità e senso del dovere nei confronti di chi lo circondava.

Assieme all’abbondante colazione, il giovanotto amava godersi appieno la novità comprata di recente e non senza qualche sacrificio: la radio. Adorava ascoltare il notiziario delle 6.30 trasmesso da Radio Monte Ceneri.

La faccenda era diventata un rito: caffellatte al momento giusto nella ciotolona, fette imburrate pronte sul piattino, radio accesa e così via.

Mentre la seconda fetta di pane se ne stava in ammollo in attesa del giusto assorbimento, la radio annunciò la notizia del giorno.

“Omicidio al Sassello. Arrestato il colpevole dell’efferato omicidio della giovane Eleonora Alfieri-Ferri. Ieri sera la polizia ha condotto nelle carceri cittadine il Bellasi Michele, un giardiniere che abita nella malfamata zona e che è ritenuto dagli inquirenti il responsabile del delitto avvenuto in un vicolo del quartiere. L’indagine, condotta dal delegato di polizia di Lugano Ezechiele Beretta, è stata coordinata dal comando di polizia cantonale...”

Nell’udire quella cronaca, Albino rimase basito. Immobile, fissava la fetta di pane, immersa nel caffellatte, squagliarsi adagio adagio e dileguarsi nel liquido trasformandolo in una pappa densa. Non riusciva credere a quello che gracchiava la radio. Il suo sguardo si fece dispiaciuto e gravoso. Anche la mamma s’interruppe dalle faccende e si rattristò vedendolo in quella condizione.

La sensazione di essere stato tradito e di avere subito un gigantesco torto lo serrò. Lo stomaco si rifiutò di fare il suo dovere, bloccandogli l’apparato digerente e, tra nausea e conati, sentiva una gran voglia di vomitare.

Dal primo momento in cui aveva incontrato il Beretta aveva avuto l’impressione, anzi la certezza, di trovarsi con una persona in gamba, sopra le righe e diverso dagli altri: insomma, un amico. Indifferente alla carriera, alla gerarchia, schivo al successo e per nulla arrivista. Per quell’uomo provava un affetto particolare ed era convinto che quei sentimenti fossero ricambiati. Essere escluso, non informato e lasciato in disparte, in una fase così cruciale dell’inchiesta, gli fece davvero male, demotivandolo su tutto. La delusione non era di certo legata al voler soddisfare le sue ambizioni. Gli rodeva però il mancato coinvolgimento nell’arresto e nell’interrogatorio e soprattutto di essere stato ignorato, come se non esistesse. In cuor suo credeva, tuttavia, di avere con il delegato un rapporto di amicizia che andava oltre le vie di servizio, oltre la prassi. A quanto pareva però non era così e questo lo rattristò più di tutto.

Tentò di consolarsi con il fatto che al Bellasi Michele c’era arrivato anche lui o per lo meno aveva indicato un punto interrogativo davanti al suo nome, intendendo che su quell’uomo si dovevano fare degli accertamenti. Il piccolo successo investigativo non fu per nulla consolatorio e il suo stato d’animo non cambiò.

«Cosa c’è, Albino?» chiese la mamma impensierita.

«Nulla. Cose di lavoro».

«Non stai bene?».

«Ti prego, mamma, va tutto bene. Mi sento solo un po’ stanco».

«Ti faccio uno zabaione con due uova?».

«No grazie, sono a posto. Ora vado al lavoro. Faccio due passi, prendo un po’ d’aria e in un attimo mi rimetto in sesto».

La mamma aveva capito benissimo che non aveva problemi di stanchezza. Tenera e piena d’amore lo accompagnò alla porta.

In gendarmeria vi era un certo fermento. I colleghi che incontrava gli lanciavano dei cenni positivi. A quanto pareva il successo dell’indagine, con conseguente arresto dell’assassino della giovane luganese, aveva generato il buonumore tra i gendarmi.

Ricevette anche qualche pacca sulle spalle, ma non ne gioiva e mimetizzò in tutti i modi il suo nero stato d’animo.

«Frapolli!» gridò il sergente maggiore Bariffi. «Complimenti anche a te, sei stato in prima linea e sono certo che un contributo lo avrai dato. Ora però attieniti ai turni indicati sulla lavagna».

Albino badò di malavoglia agli avvicendamenti, scritti con gesso bianco e rosso. Una briciola di contentezza gli ammorbidì di qualche tono la cupa immagine che dalla buonora si portava appresso. Bella notizia, pensò. Pattugliare il centro era il turno che preferiva.

In piazza Dante guardò d’istinto verso il Bar Lugano. Cercava il delegato fra gli avventori di prima mattina. Chissà. Non sapeva se avrebbe avuto voglia d’incontrarlo oppure no. Era tormentato. Avrebbe voluto avere qualche spiegazione a proposito di quel comportamento che giudicava scorretto, ma nello stesso tempo non voleva sapere altro. L’idea di aver perso un amico lo addolorava parecchio.

Camminando tra le vie del centro, contrariamente al suo solito, salutava a fatica i rari passanti. Distratto e pensieroso stava riflettendo sul fatto di abbandonare tutto, di cambiare mestiere. Pensava a Brera. Davanti all’ipocrisia si sentiva impotente, disarmato. Considerava la simulazione dei buoni sentimenti uno degli atti più abbietti che potesse escogitare l’essere umano per aggraziarsi i suoi simili. Gli pareva che tutto rovinasse con fragore.

«Frapolli. Ehi, Frapolli».

Albino si girò verso la voce. Un collega faceva dei segni con la mano e quando gli sguardi s’incontrarono, l’uomo accelerò il passo.

«Devi rientrare in gendarmeria».

Il giovane s’irrigidì.

«Che cos’è successo?».

«Non lo so. Il Bariffi mi ha detto di cercarti e sostituirti. Sai com’è. Lui non dà tante spiegazioni. Comunque devi rientrare subito».

«Va bene. Grazie».

Si salutarono.

La mente di Albino cominciò a macchinare strani pensieri. Speriamo che non sia successo qualcosa alla mamma. Forse al comando vogliono il verbale di ieri e sono arrabbiati perché non l’ho ancora fatto. Magari mi ritengono inadeguato per pattugliare il centro. Accelerò il passo.

«Frapolli!» tuonò il Bariffi non appena il giovane varcò la soglia della gendarmeria. «Devi andare subito al penitenziario. Il delegato ti aspetta».

«Di che si tratta, signor sergente maggiore?».

«Si tratta che devi andare dove ti viene ordinato senza fare domande» rispose il Bariffi con quel suo ineguagliabile tono autoritario.

«Agli ordini. Parto!».

Accidenti a lui, pensò il gendarme, non c’è verso che dia una risposta gentile.

Il delegato lo attendeva nella saletta degli interrogatori. Era la medesima dove avevano interrogato il Magliana e stavolta vi erano parecchie sedie.

«Ciao Frapolli. Fammi un veloce riassunto del tuo pomeriggio di ieri».

Albino salutò il suo superiore con distacco. Era freddo. Lo fissava come se stesse guardando il suo aguzzino e, centellinando le parole, iniziò a raccontare le sue novità. Usava anche il taccuino, scorrendone le pagine con titubanza.

«Be’? Che cos’hai? Sembri tu il colpevole».

Albino guardò il suo capo negli occhi, poi abbassò lo sguardo. Il dispiacere era tanto che trattene a stento le lacrime.

«Accidenti Frapolli, cosa ti è successo?».

«Nulla, tutto a posto».

«Come sarebbe? Non ti avevo mai visto così abbacchiato».

Alle insistenze, il giovane gendarme mugugnò il suo stato d’animo raccontando la sua percezione dei fatti recenti.

«Mamma mia, come sei drammatico. Capisco però il tuo risentimento. Comunque ne so quanto te. Non ho l’abitudine di ascoltare la radio, preferisco leggere i giornali e di tutta questa faccenda sono stato informato solo stamattina».

«Alla radio hanno fatto il suo nome» disse Albino, che alla fine si stava riprendendo da tutte quelle elucubrazioni ossessive.

«Alla radio raccontano quello che qualcuno racconta loro. Ti ripeto che non so niente di quest’arresto, ma fra poco scopriremo di che si tratta. Dovrebbero arrivare a momenti gli agenti del comando cantonale. Sono loro che hanno predisposto l’arresto del Bellasi».