XVII
Primavera 1935
«Qual è il tuo scrittore preferito?» chiese la ragazza distogliendo gli occhi dal libro che stava leggendo.
Il giardiniere fissò con stupore la giovane che gli rivolgeva la parola. Era accosciato e con una zappetta sgretolava i grumi duri di terra dell’aiuola che circondava il gazebo. Farfugliando impacciato, rispose: «Non saprei...».
«Come ti chiami?».
«Michele».
«Non ti ho mai visto assieme ai giardinieri».
«In questa parte del parco è la prima volta che vengo. Di solito lavoro lungo la riva».
«Io mi chiamo Eleonora. Abito qui. E tu dove abiti?».
«Al Sassello».
«Non ci sono mai stata. Dicono sia un quartiere pericoloso».
«Non mi pare».
«Allora dimmi: Dostoevskij ti piace?».
«Non saprei. Io non leggo».
«Oh, scusami. Amo tanto i libri e a volte penso che la lettura sia la passione di tutti».
Eleonora si alzò dalla sedia e si avvicinò al balaustrino di legno tinteggiato di bianco. Il parapetto contornava il gazebo e si trovava a pochi centimetri dal giovane giardiniere intento a zappettare. Si appoggiò con gli avambracci sul corrimano e con voce sottile, delicata, iniziò a leggere.
«“Ascoltate, ascoltate!” la interruppi. “Scusate se vi dico nuovamente una cosa del genere... Ma ecco: io non posso non venire qui domani. Sono un sognatore; ho una vita reale talmente limitata che mi capitano momenti come questo, come adesso, tanto di rado che non posso non ripercorrere questi momenti nei miei sogni. Sognerò di voi l’intera notte, l’intera settimana, tutto l’anno. Verrò immancabilmente qui domani, proprio qui, in questo stesso punto, proprio a quest’ora, e sarò felice ricordando il giorno passato”».
Michele non distolse, nemmeno per un solo momento, lo sguardo dal viso di Eleonora e ne assimilò ogni impercettibile sfumatura.
«Ti piace?» chiese la ragazza rivolgendosi al giardiniere.
Il giovane cercò di riprendersi da una sorta d’intontimento in cui era stato assorbito mentre la ascoltava e la guardava. Un sentimento di affezione, di attrazione, si era innescato in lui. In vita sua non aveva mai provato una sensazione simile. Esibì un’impacciata indifferenza accudendo con frenesia e irrazionalità l’aiuola in cui stava lavorando. Inginocchiato fra le zolle, con le mani sporche e gli occhi bassi, guardava dappertutto senza vedere nulla. Sotterrava le erbacce anziché i bulbi, zappettava e poi dissotterrava, rastrellava e poi ancora sotterrava. La ragazza lo guardava divertita. Lo stato d’animo del giovane era passato dal tormentoso sofferente fino al dolce sublime. Un’esplosione d’energia incontrollabile pareva che gli stesse arroventando ogni ossicino, muscolo e centimetro quadrato del suo corpo, rimescolando tutto. Qualcosa di portentoso e d’irreale lo prese, lo avvinghiò e iniziò a trasportarlo dappertutto. I suoi piedi non erano più per terra, ma sulle nuvole, sul lago, nel cielo. Un impulso di piacevole follia, d’inimmaginabile fantasticheria gli spirava attorno. La forte trepidazione che ebbe gli impedì una qualunque padronanza dell’agire e del parlare.
Incantato da quella dolcezza, non seppe dire nulla. Fissò la ragazza con la bocca semiaperta e assunse un’espressione di meraviglia e d’istupidimento. Che cosa fosse sopraggiunto nel suo cuore non lo seppe definire, ma quella forza gli scombussolò l’animo.
Eleonora guardò Michele, ormai impacciatissimo in ogni postura. Gli sorrise con garbo e benevolenza. «Il libro s’intitola Le notti bianche. Se vuoi, quando l’ho finito, te lo presto così mi dirai cosa ne pensi».
Il ragazzo assentì muovendo la testa di pochi millimetri, come se quel gesto fosse l’unico rimasuglio dei segni comunicativi che aveva.
Dalla villa la chiamarono. «Devo andare...».
Come il sognatore di Dostoevskij, Michele tornò ancora lì, nello stesso punto e nella stessa ora, il giorno dopo e poi ancora. La ragazza non c’era. Sarebbe tornato in quel luogo altre volte, per chissà quanto tempo, ma il suo impegno con i giardinieri stava per finire.
L’ultimo giorno di lavoro, al crepuscolo, la vide che gli faceva dei cenni da lontano. Sistemò i suoi miseri stracci e speranzoso le si avvicinò titubante.
«Ciao Michele» salutò la giovane. «Domani sarà sabato, ti andrebbe di accompagnarmi al mercato? Vorrei comprare un regalo originale a mia madre e non mi va di andarci da sola».
Il ragazzo, incredulo alle parole che aveva appena udito, si rese disponibile per qualunque ora.
Michele si presentò all’appuntamento vestito con quanto di meglio aveva potuto trovare nel suo umile e povero guardaroba: l’abito buono, ormai così sgualcito che pareva un abito da lavoro.
Eleonora arrivò con la Bugatti Royale nera e gialla del padre.
Quando il giovanotto la vide scendere, prima di avvicinarsi, si fermò per un attimo tra la gente a osservare quell’aggraziato portamento.
I lineamenti soffusi della giovane suscitavano una piacevole simpatia. Era impossibile non ammirarla. Portava una camicia bianca con le maniche corte, chiusa da quattro grandi bottoni di colore giallo oro, e una gonna tinta ruggine, stretta alla vita da una cintura della medesima tonalità. La sua grazia e il suo portamento non dipendevano dall’abbigliamento, ma dalla dolce armonia dell’insieme e dalle ineffabili movenze. Anche vestita di stracci non sarebbe passata inosservata.
Fu Eleonora a scorgerlo e a chiamarlo con un cenno della mano e un sorriso.
Il ragazzo si avvicinò. Profumava di mandarino e fragola, ma anche di gelsomino e di una calda fragranza d’ambra, simile a quella che don Amedeo usava come incenso.
Si salutarono e iniziarono a girare per le bancarelle di piazza Dante curiosando qua e là. Michele la seguiva quasi intimorito, finché la spensieratezza di Eleonora ebbe il sopravvento sul suo timoroso comportamento, coinvolgendolo in un piacevole girovagare.
Il mercato pulsava di energia e pullulava di gente indaffarata e volonterosa, orgogliosa di vendere i frutti della propria terra, del proprio lavoro e delle proprie fatiche. Lo strillare e il vociare di tutte quelle persone, rallegrava gli animi.
«Due mele candite» fece Michele rivolgendosi all’omone con il grembiule bianco che gesticolava con cordialità dietro il banco dei dolciumi.
L’omone guardò la ragazza, poi il piano con le mele, esitò, e infine ne scelse una: «La più bella è per lei, signorina».
«Grazie! È bellissima, in strada non le avevo mai mangiate». Divertita dalla novità, avvicinò il frutto alle labbra e, con un morso delicato, ne prese un pezzetto e iniziò a masticarlo piano.
Michele, non appena ricevette la sua, la addentò famelico. Con la bocca piena per il grosso boccone, tentò di colloquiare, ma le sue parole furono impastate e goffe. Quel buffo discorrere suscitò l’ilarità di entrambi.
«Devi masticare piano» disse la giovane sorridendo.
«Lo so, non ci riesco, ho sempre l’impressione che il mangiare sia una perdita di tempo».
«Non importa, va bene così. Andiamo alle bancarelle degli antiquari. Ho in mente il regalo per mia mamma».
Dall’antiquario, dopo innumerevoli indecisioni e ripensamenti, Eleonora comprò una scatolina cofanetto olandese di ceramica bianca dipinta a mano e con raffigurato un mulino a vento e altre decorazioni blu di Delft.
Passarono un’altra ora tra le bancarelle, finché comparve la Bugatti.
«Devo andare, ho passato un bel momento. Grazie per avermi accompagnata, sono stata bene».
Eleonora se ne andò all’improvviso e Michele rimase attonito e basito come il principe di Cenerentola la sera del ballo.
Quel pomeriggio l’avrebbe voluto senza tempo, infinito. Le poche ore trascorse con Eleonora se n’erano andate fulminee. Si diresse verso il Sassello per la via più lunga che conduceva a casa. Amava camminare sotto i portici di via Pessina e fantasticare su un futuro che mai si compiva. Lo aveva fatto tante volte, nei momenti di difficoltà e sconforto: quando cercava lavoro, quando sua mamma era morente e ogni qualvolta la dura esistenza lo metteva alla prova. Anche quella volta vaneggiò sul futuro, un futuro colmo di felicità con la bella Eleonora. Forse stava chiedendo molto; troppo ai Fati, perché questi erano ostili e gli negavano sempre ogni cosa. Un giardiniere povero e disoccupato del Sassello, come poteva suscitare interesse in una giovane della ricca borghesia luganese? Ancora un’altra fantasia, un altro sogno da aggiungere agli innumerevoli che già riempivano il suo cassetto colmo di occasioni perse e momenti mancati.
Stavolta il giovane però volle prendere la sorte per le corna, la volle sfidare. Il trambusto che si sentiva dentro, che gli aveva scombinato le viscere, la mente e l’animo, lo rendeva combattivo, risoluto e non si sarebbe arreso facilmente.
Quello stesso giorno si fece una camminata di almeno un’ora fino al sentiero che conduceva a Gandria e che costeggiava il lago. In una piccola insenatura, nascosta da un ontano e da un masso roccioso, vi era una vecchia barca ad arcioni. Era il natante di Ubaldo Giambonini – pescatore – morto da alcuni anni. Sapeva dov’era perché aveva aiutato le due sorelle Giambonini in faccende di giardinaggio, con tanto di rassetto della riva e pulizia dell’imbarcazione. Le due vecchiette non avevano ancora avuto il coraggio di venderla e, rimandando di anno in anno, la lasciavano dondolare nell’attesa che il lago se la prendesse. Michele decise che non ci sarebbe stato nulla di male se avesse condotto quella vecchia barca a fare un ultimo giro sulle acque del lago di Lugano.
In Villa Assuan si entrava solo in due modi, o attraverso il portale principale, sorvegliato dal personale, o via lago. Il giovane pensò che dall’acqua sarebbe stato più facile incontrare la ragazza, data la sua abitudine di andare al gazebo a leggere. L’avrebbe salutata da lontano e a un suo cenno avrebbe ormeggiato.
La sorte stavolta non fu avversa e andò come si era immaginato. Attraccò nelle vicinanze del porticciolo, lontano da occhi indiscreti, e incontrò la giovane.
Eleonora fu felice di tanta intraprendenza, tanto d’indurlo a proseguire quei folli incontri, che nei giorni divennero frequenti. In quelle serate si conobbero e si raccontarono. Le preoccupazioni di Eleonora divennero quelle di Michele e viceversa, così le ansie e i timori, ma anche le gioie e le passioni. La spensieratezza si sovrappose a qualunque tristezza e la voglia di felicità ebbe sempre la meglio.
Quando i genitori non erano in villa, i due giovani uscivano sul lago, e la vecchia barca ad arcioni divenne il mezzo ideale per stare qualche ora assieme lontano da tutti. Prudenti, lasciavano l’insenatura lungo la riva del parco di Villa Assuan e facevano dei lunghi giri, fino alla foce del Cassarate o fino ai primi pontili di Gandria.
Circondati dai monti che erompono dal lago e cullati dalle acque del Ceresio, trascorsero dei momenti felici. Finché una sera, con la complicità delle stelle e un primo bacio, si promisero il futuro.
Passarono altri momenti vicino al porticciolo di Villa Assuan, fantasticando sul domani e godendosi il presente.
Quel luogo però non era così appartato come si erano immaginati. Vi era un punto del parco, nascosto fra le siepi, da dove si scorgeva l’insenatura in tutta la sua interezza. Da lì qualcuno li stava spiando.