XIX
Pranzarono da Pà Cech, ognuno con i propri pensieri.
Nel primo pomeriggio andarono nella bottega di Nino Ferrari, mastro ferraio.
«Ciao Nino. Prendi gli attrezzi che ho bisogno di un lavoretto» disse il delegato. Il fabbro lo guardò borbottando: «Aspetta un attimo che finisco». Si allontanò dalla forgia con un ferro rovente e lo appoggiò sull’incudine. Con maestria assestò dei precisi colpi all’asta incandescente, piegandola a suo piacimento e generando un nugolo di scintille, e la buttò in un recipiente pieno d’acqua per la tempra. Il sibilo dell’acqua bollente fece scostare di scatto i due poliziotti. Nino spianò il carbone della forgia, posò l’attizzatore e con intraprendenza iniziò a porre vari attrezzi in una cassetta da trasporto di legno di abete. Sapeva già cosa intendeva il poliziotto per lavoretto e non chiese chiarimenti.
«È meglio che prendi anche una lampada».
«Va bene». Da uno scaffale afferrò una lampada di ferro tutta arrugginita, svitò il coperchio, riempì la parte inferiore di carburo e quella superiore d’acqua.
Il delegato non dava tante spiegazioni, appena Nino finì di preparare la cassetta, uscì dall’officina. Albino e il fabbro lo seguirono. Con passo spedito si diressero verso via Nassa. Giunti all’incrocio con vicolo del Lido si fermarono.
«I meandri e gli intrecci che vedi in superficie qui al Sassello, li ritrovi anche sotto terra» disse il delegato al gendarme, gesticolando in orizzontale. Nino, concorde alla spiegazione che sentiva, esplicitò la sua approvazione con vigorosi segni del capo. «Ogni edificio» continuò il Beretta «è collegato anche al livello delle cantine. Una sorta di catacomba che si ramifica in tutte le direzioni. Alcuni locali sono chiusi, magari da portoni o tramezze di mattoni, altri sono aperti. In teoria ti potresti muovere, da un punto all’altro del quartiere, senza mai uscire in superficie».
Albino, manifestando ignoranza, chiese altre delucidazioni.
«È una caratteristica dei nuclei medievali. Forse perché una volta costruivano su fondamenta esistenti o forse perché i proprietari erano parenti e condividevano le cantine. Fatto sta che lì sotto è tutto collegato» fece il Beretta indicando con l’indice la parte bassa delle case. Le spiegazioni stavano avvenendo davanti a un edificio, che aveva la facciata principale su via Nassa e il fronte opposto sul vicolo dove era stato trovato il corpo di Eleonora. Entrarono sotto il portico, attraversarono un viottolo e si ritrovarono in un cortile interno, uno dei molti che formava il tessuto del quartiere.
Il cavedio di forma allungata, stretto e alto, incuteva un senso di disagio, intimoriva. Trovarsi in fondo a un pozzo poteva essere qualcosa di simile. Da una finestra buia una signora, dai capelli bianchi e raggruppati dietro la nuca, li osservava. Il delegato, incurante di essere visto mentre stava perpetrando un’infrazione, la salutò con indifferenza agitando la mano. Fece lo stesso con una bambina dai capelli biondi e riccioluti che, con il naso spiaccicato sul vetro di una finestra, li guardava facendo delle smorfie divertite. Anche Albino la salutò con un buffo saluto militare, la bambina staccò il naso dal vetro e gli fece il verso.
Discesero una ripida scala, costruita con trovanti di pietra appena abbozzati e arrotondati dal tempo, e si ritrovarono in un angusto anfratto sotto il livello della strada. Una porta di castagno, logorata dalle intemperie ma ancora solida, bloccava la via.
Nino si fece avanti, armeggiò nella sua cassetta, estrasse un mazzo di chiavi arrugginite di forme e dimensioni impensabili, fece un paio di tentativi e la porta si aprì.
Il fabbro accese la lampada a carburo e la affidò al gendarme. Dinanzi a loro comparve una cantina voltata, polverosa e stracolma di legna accatastata, fascine e innumerevoli cianfrusaglie. Il dondolare della lampada animò ombre sinistre che si avvolsero sugli archi delle volte per poi sgattaiolare lungo le pareti e ricomparire di nuovo a un altro dondolio. Un odore di tannino misto a segatura riempiva l’aria.
«Da quella parte» disse il delegato, indicando una porta sopraelevata da diversi gradini. Si muovevano con circospezione e attenti a dove mettevano i piedi. Superarono anche quell’ingresso.
Il secondo spazio pareva più ordinato. Vi era una porta, dirimpetto alla precedente, e una scala piuttosto ripida.
«La porta ci condurrà in un’altra cantina» il Beretta sembrava avesse in chiaro gli spostamenti. «Attraverso la scala, con molta probabilità, raggiungeremo il piano terreno».
Il gendarme e il fabbro furono concordi.
«Puoi prendere lo schizzo del vicolo che mi hai mostrato l’altro giorno nella saletta del penitenziario?».
Albino passò la lampada al Ferrari e iniziò a scartabellare il suo taccuino alla ricerca del disegno planimetrico. «Eccolo, non è proprio in scala, ma ho cercato di mantenere le proporzioni».
«Posso?» chiese il delegato, prima di accingersi a pasticciare il disegno del gendarme. Al cenno di assenso del giovane, si guardò attorno come se cercasse dei riferimenti puntuali e completò, con righe sghembe e imprecise, l’isolato.
«La mia ipotesi è la seguente: da via Nassa, per raggiungere il luogo del ritrovamento del cadavere, c’è un dislivello di almeno un piano. Prima di arrivare qua siamo scesi di un paio di metri per raggiungere le cantine e poi siamo risaliti superando diversi scalini. Ragionando sulla distanza percorsa e i riferimenti indicati nello schizzo, credo che la scala ci condurrà nella cucina degli Schmid».
«Gli Schmid non ci sono in questo periodo, sono a tartufi» disse Nino. Anche Albino si mostrò consapevole delle loro abitudini.
«Andiamo allora, verifichiamo se la mia teoria è corretta e vediamo cosa succede».
La porta in cima alle scale non era chiusa a chiave. Entrarono, come ipotizzato, nella cucina. Un grande tavolo circondato da sei sedie impagliate, una credenza di noce che avrebbe meritato altre cucine, un lavello di ceramica ingiallita e una stufa economica arredavano il sobrio vano.
Tutto era ordinato e nulla appariva fuori posto, se non alcuni stracci appesi allo stendibiancheria agganciato al tubo della stufa. La luce entrava fioca attraverso i vetri, opachi dall’usura, della porta che dava sul cortile e di una finestrella sopra il lavello.
Il Ferrari si avvicinò all’anta, aveva la chiave inserita e non richiedeva il suo intervento.
«Fermo!» gridò il Beretta. «Non aprire».
Il delegato si muoveva con prudenza, si avvicinò alla porta e iniziò a sbirciare dal vetro, prima dritto e poi in diagonale in tutte le direzioni. Attese qualche istante e fece la stessa cosa attraverso la finestrella.
«Va bene, ora potete uscire».
Albino e il fabbro si ritrovarono con i piedi sopra i resti della sagoma di gesso che segnava il corpo di Eleonora. Il giovane gendarme ebbe un contraccolpo: non se lo aspettava. Comparve anche il suo capo.
Non passò neanche un minuto che la signora Fioratti si affacciò alla finestra: si salutarono.
«Andiamocene, ora le cose mi sono chiare» disse il delegato.
Rifecero il percorso inverso, badando di lasciare tutto come avevano trovato. Giunti in via Nassa, il Beretta estrasse il borsellino, si sentiva in dovere di pagare il disturbo al Ferrari.
«Lascia stare, capo,» fece il fabbro «mi offrirai un bicchiere la prossima volta che ci vediamo da Pà Cech».
Si congedarono contraccambiandosi una pacca sulle spalle e il Ferrari rientrò nel borgo. Con la mente che rimuginava sul caso, il Beretta lo osservò scomparire tra i vicoli, poi puntò il suo sguardo sul Frapolli.
«Andiamo a berci una birra al Bar Lugano. Siamo alla fine della giornata e per oggi non sei più in servizio. Voglio argomentare la mia teoria».
Albino annuì.
Via Pessina era sempre animata e piena di vita durante il giorno. I commercianti approfittavano del viavai per offrire i loro prodotti agli innumerevoli passanti. In quella strada era sempre giorno di mercato.
«Che cosa te ne pare? È abbastanza facile muoversi sotto il Sassello» constatò il delegato, che tra i portici cercava il tragitto meno trafficato.
«Lei crede che abbiano trasportato il corpo attraverso le cantine?» domandò Albino schivando anche lui i vari passanti.
«Penso di sì, da quello che abbiamo appena appurato, è una cosa fattibile e anche in pieno giorno. Avrebbero potuto portarlo con un carretto fino in via Nassa, magari avvolto in una fascina o all’interno di una barella per il trasporto dell’uva oppure racchiuso in una cassapanca o altro ancora».
«In effetti. Nella prima cantina c’erano della legna e delle fascine accatastate. Nessuno avrebbe badato a qualcuno che le trasportava o ci trafficava».
«È quello che pensavo. Una volta nei sotterranei – come abbiamo fatto noi – avrebbero potuto raggiungere, senza problemi e intoppi, la cucina degli Schmid. A quanto pare nel quartiere tutti sanno delle loro assenze per tartufi».
«L’unica difficoltà l’avranno avuta nel rimuovere il corpo dal carrello mimetizzato chissà come» disse il Frapolli.
«Non credo. Con il mercato in attività avranno potuto agire indisturbati. Arrivati in cucina, sarebbe bastato un piccolo controllo, attraverso i vetri come ho fatto io, per verificare la presenza di occhi indiscreti. E in un attimo avrebbero potuto depositare il cadavere sul selciato».
«E aprire le porte?».
«Quello è il meno. Le persone che hanno fatto un atto così inumano, non hanno di certo problemi a scassinare qualche serratura: si tratta di delinquenti».
Attraversarono piazza Dante ed entrarono nel bar. Davanti ai boccali di birra fecero le ultime considerazioni e pianificarono l’indomani. Sarebbero andati, nonostante fosse sabato, a interrogare gli Alfieri-Ferri.