XXIII
La domenica c’era la messa. Albino, quando non era di picchetto, andava con la mamma a quella delle 10.00 al Sacro Cuore di Gesù. Dopo la funzione, la signora Frapolli tornava a casa e il giovane si fermava a chiacchierare in piazza con amici e conoscenti. Il pomeriggio poltriva o gironzolava per il quartiere, a volte andava in centro. La mamma era in pensiero per la sua solitudine, sperava che al più presto incontrasse una brava ragazza e si sistemasse. Lui era piuttosto refrattario all’argomento e alle insistenze della madre, perché frequentasse qualche sala da ballo, s’irrigidiva. «Non mi diverto in quei posti e poi non so ballare» rispondeva laconico.
Quella domenica pomeriggio decise che non sarebbe andato a zonzo per le strade e per i campi come soleva fare. S’incamminò verso la foce del fiume Cassarate fino al cantiere nautico. In quel posto aveva alcuni amici e desiderava un piccolo favore. Il Domeniconi, amico dalle elementari, lavorava al porto da due anni e, senza troppe domande, gli procurò una vecchia barca a remi.
«Riportala prima delle sei» gridò ad Albino che già stava remando impacciato a parecchi metri dalla riva. «Ehi Frapolli, mi hai sentito?» fece il Domeniconi agitando le braccia. Il giovane gendarme rispose in modo affermativo, con un vigoroso cenno del capo e senza staccare le mani dai remi.
Si era prefigurato un ragionevole obiettivo, una giustificazione professionale per l’uscita in barca: una verifica in loco delle testimonianze e delle teorie indagate ieri. Vi era però anche un altro motivo, piuttosto etereo, vago, che non riusciva a focalizzare e, da quando aveva trovato il corpo di Eleonora, lo turbava parecchio.
A colpi vigorosi di remi raggiunse la parte di lago davanti a villa Assuan. Il parco era deserto. Cipressi, querce, tigli, platani e aceri custodivano i manufatti della residenza che, solenni, facevano capolino tra fronde rigogliose e rampicanti d’ogni genere mossi da una leggera Breva. Il vento animava anche due barche, ormeggiate al porticciolo, che ondeggianti fendevano una spuma bianca e cozzavano tra loro emettendo un rumore sordo. Un’atmosfera di solitudine e di abbandono avvolgeva la lussuosa dimora. Arnold Böcklin avrebbe potuto ricavarci una versione lacuale del suo dipinto Villa in riva al mare. Quel luogo sembrava disabitato da anni e, se non ci fosse stato il giorno prima, l’avrebbe definito sinistro. Con prudenza si avvicinò al pontile e ripensò alla testimonianza del Bellasi: «“Lei mi aspettava sulla riva...”». Estrasse il suo taccuino e disegnò quel momento. Con segni sicuri e precisi la sua matita morbida abbozzò la scena e poi, con pochi colpi di ripasso, la fece vivere.
Eleonora, seduta sulla riva, vestita di bianco, aveva tra le mani un libro e scrutava il lago, guardava una barca: la sua.
Si destò all’improvviso da quel laborioso disegnare e fissò lo schizzo quasi con vergogna. Stava provando un sentimento inopportuno per una ragazza morta e questo lo inquietò. L’inconscio gli aveva guidato la mano e la mente turbolenta l’aveva fatto entrare nella vita degli altri. Si era intromesso in una storia che gli era passata accanto e che non gli apparteneva.
Chiuse di colpo il taccuino, lo lasciò cadere sul fondo della barca, e agguantò i remi per allontanarsi al più presto dalla riva e da quel luogo.
Albino! Che cosa stai fantasticando, una voce lo ammoniva. Quale follia annebbia la tua mente? Eleonora è morta e non è più con noi. E anche se lo fosse, lei ha promesso il suo cuore a un’altra persona. Dimentica i fantasmi, le ombre, i sogni. Torna sulla terra. Non sei davanti a un dipinto, dove tutto è possibile e immaginabile. Dove con i colori puoi far nascere la vita e renderla immortale: immortalarla. Dove con la biacca puoi correggere gli errori e con il pennello stendere nuovi tratti, aggiustare le tinte e fermare il tempo. Quel tempo non ti appartiene, così come non è tua quella storia e i ricordi in essa contenuti. Lasciati trasportare dal lago, dalle correnti di torbida e vai alla deriva. Abbandonati all’onda e aspetta che la fortuna ti raggiunga, così che anche tu possa vivere la cercata felicità.
Poi si fermò. Riprese il senno.
Il giovane stava vivendo un tormento. Il livello di coinvolgimento aveva oltrepassato il limite di guardia concesso dal buon senso. Si stava immedesimando nei protagonisti di quella vicenda, assimilando il malessere e l’ingiustizia che essi avevano subito.
Attraverso una folle simbiosi, che superava persino l’evento della morte, faceva coesistere Eleonora con il presente, come fosse ancora viva. Con forza si staccò da quelle angosce e nella lucidità recuperata fu travolto da milioni di dubbi sulle scelte fatte e sulle occasioni perdute.
Tolse i remi dall’acqua e dallo scalmo e li appoggiò sul pagliolo. Si mise comodo sul banco centrale, allungò le gambe in avanti e a fatica cercò un appoggio per la nuca sul banco di poppa. Chiuse gli occhi e si lasciò ninnare dal lago e accarezzare dal sole, che sottecchi guardava la terra tra le nubi spinte dall’ultima Breva.
Non aveva mai assaporato il lago in quel modo. D’autunno come d’inverno, così d’estate e in primavera, gli era sempre parso consueto. Uguale e monotono. Una presenza che a malapena percepiva e neanche più notava, perché parte della trita quotidianità. Si accorgeva della sua esistenza solo quando quell’odore di pesce marcio usciva dall’acqua e aleggiava sulle rive. «Cambia il tempo» diceva la gente. O quando traboccava; sempre esondazioni di poco conto rispetto a quella che tutti ricordavano del 5 agosto 1896. O quando la Porlezzina, infuriata e senza preavviso, sollevava onde alte tre metri, e le donne attendevano trepidanti il rientro dei pescatori. Ora era lì, a dondolare, a farsi consolare e ritemprare da quel vecchio specchio d’acqua, così profondo da raggiungere il livello del mare e così contorto che memorizzarne il perimetro era una sfida.
Sorrise a occhi chiusi. Si accorse di amare quel lago irrequieto e oscuro come i misteri e certi pensieri.
Ma quell’ultima Breva, che dal ponte diga di Melide spingeva onde regolari verso Gandria, non si attenuò. Albino fu costretto a ravvivarsi dalla tregua che si era dato e a malincuore iniziò ad affrontare la spossatezza che l’aveva avvolto. Le nubi cumuliformi avevano coperto il sole e la temperatura d’autunno si fece sentire spingendo l’aria fredda fino alle ossa. Anche la vecchia barca, avuta in prestito dal Domeniconi, pareva soffrire per quell’improvvisa scomparsa del sole. Sembrava persino non più avvezza a reggere quelle poche onde, tant’è che si mise a dondolare emettendo un ostile e preoccupante cigolio. Il giovane agguantò i remi, li infilò con impeto negli scalmi e con un’energia da vogatore iniziò a remare verso terra.
I fantasmi che gli vagavano per la mente si erano infine identificati nella loro crudezza. Pensieroso, mentre con vigore e ritmo immergeva i remi nell’acqua e muoveva verso il porto, non seppe chiarirsi se quella scoperta fosse un sollievo oppure uno sconforto. Chissà? Quell’eccessiva e folle immedesimazione non aveva di certo giovato al suo equilibrio e all’obiettività dell’indagine. Se non fosse stato per le sensazioni personali e intime del suo coinvolgimento ne avrebbe parlato volentieri con il delegato, ma la sua timidezza per certi argomenti lo rendeva arrendevole.