XXV
Qualunque attività della vita, per riuscire, ha bisogno di coincidenze.
A volte è l’uomo stesso l’artefice di tali coincidenze. Animato dal desiderio di successo, si arrabatta, trama e s’impegna; sfoderando devozione, astuzia, intelligenza, passione e quant’altre facoltà della mente e dell’animo, così da far avverare i propri sogni.
A volte, invece, le coincidenze sono fortuite. Il caso, che accompagna trasversalmente vicissitudini e venture, può decretarne il successo o l’insuccesso. Per quanto possa essere grande la responsabilità, rilevante la competenza ed enorme l’ardore, di tanto in tanto la fortuna – anche solo un pizzico – può raddrizzare vicende che parevano perse.
Venerdì mattina, il giovane gendarme andò al Bar Lugano. Forza dell’abitudine, si sedette al solito tavolino. La sensazione che il Beretta sarebbe ricomparso, chissà da dove e chissà con quale nuova strategia, l’aveva tenuto sveglio tutta la notte. Ordinò un caffè lungo e, nell’attesa, prese un giornale lasciato sul tavolo dall’avventore precedente. Il quotidiano titolava, in più articoli, sui fatti internazionali di quel periodo, e in particolare sul conflitto italo-etiopico. Albino andò alla cronaca, cercava notizie sul caso, ma non ce n’erano di rilevanti. Pareva che tutto stesse perdendo d’interesse.
«Buongiorno, signor gendarme» salutò un signore ultrasettantenne, ben vestito e con bella maniera. «Mi chiamo Amilcare Frigeri. Posso sedermi dirimpetto a lei?».
«Prego» fece Albino indicando il posto con la mano e appoggiando il giornale sul tavolo.
«Mi scusi se l’ho importunata durante la sua pausa. L’ho vista intento nella lettura del quotidiano e a questo proposito mi sono permesso di avvicinarla».
«Nessun problema... L’ascolto».
«Dunque, le dicevo, mi chiamo Amilcare Frigeri, classe 1858 e maestro alle elementari fino al 1928, ora in pensione. Residente da settantasette anni a Lugano». Il maestro fece una breve risatina. «Da giovane abitavo al Sassello. Mio padre, buonanima, un umile pescatore, e mia madre, una santa, hanno curvato la loro schiena fino a spezzarla per crescere quattro figli e farne studiare uno da maestro. Sacrifici di altri tempi».
Albino si stava preoccupando. Intravedeva nella premessa del suo interlocutore, che si prospettava piuttosto noiosa, la classica lamentela sull’ordine pubblico: di quei tempi era una costante.
«Comunque, per non farla troppo lunga e annoiarla,» disse il Frigeri «nel 1895 mi sono trasferito in centro, dapprima per qualche anno in via alla Stazione poi, per dei problemi di deambulazione della mia Cesira – troppe scale – ho fatto l’ultimo San Martin della mia vita, almeno spero» altra risatina del maestro «e sono andato ad abitare in via Camuzio».
Il gendarme lo ascoltava paziente. A stento mimetizzava la sua indifferenza al racconto che, in un altro momento, avrebbe udito più che volentieri. Sperava che tale freddezza non trasparisse, ma aveva la testa nell’indagine e l’anomala assenza del Beretta, che a quanto pareva si era volatilizzato, lo preoccupava. Gli sembrava che il maestro lo distraesse da quei pensieri.
«Dalle mie finestre ho visto trasformarsi un pezzo di Lugano. Dapprima se ne sono andati, sotto inesorabili colpi di piccone, il settecentesco ospedale civico e il sontuoso cortile con i loggiati, poi l’adiacente chiesa di Santa Maria Incoronata e l’annesso oratorio di Santa Marta. Ci pensa? Due chiese costruite una vicina all’altra e rase al suolo, in quattro e quattr’otto, in barba alle fatiche di chi le aveva edificate. Tutto se ne va... qualche anno fa, anche il sano e robusto vecchio edificio delle poste, davanti casa, è diventato macerie».
Il Frigeri, rassegnato agli eventi narrati, aveva terminato la piccola asserzione urbanistica smorzando in gola le sue ultime parole. La voce carezzevole del maestro conquistò Albino che, affascinato dal racconto, perse l’indifferenza iniziale e interagì con slancio: «Pare vogliano demolire anche il quartiere Sassello».
Il Frigeri annuì mesto.
«Mi rendo conto che con queste nostalgie le sto facendo perdere del prezioso tempo. La mia Cesira mi dice sempre che sono un gran chiacchierone: sarà un retaggio del mestiere». Nelle sue parole traspariva un filo di dolore. «Ora, per venire al concreto e al motivo per cui l’ho importunata di buon’ora, la prego anzitutto di prendere queste informazioni che sto per darle come delle supposizioni da verificare, e non dicerie».
D’improvviso il giovane gendarme si destò, quell’uomo abitava vicino alla chiesa di San Rocco, dove i due delinquenti avevano dovuto avvicinare l’uomo del sagrato. La questione lo stava incuriosendo parecchio, anche perché ai giornalisti era stato taciuto il luogo dell’incontro. Estrasse il suo taccuino.
«La notizia, a proposito della giovane ragazza trovata morta al Sassello, apparsa la settimana scorsa sui quotidiani, mi sconvolse. Ho tormentato la mia Cesira sul da farsi, e per alcuni giorni mi sono scervellato in dubbi amletici sui doveri e sull’indifferenza, sull’impicciarsi o sul crogiolarsi». Il Frapolli colse negli occhi opachi del suo interlocutore un’insofferenza che lo metteva a disagio. Non lo interruppe. «Alla fine ho scelto di farmi avanti. Di fare il mio dovere di buon cittadino. Il nostro colloquio, in questo luogo pubblico, in un certo qual modo sminuisce la mia deposizione, fintanto che lei verificherà l’utilità e la fondatezza di quanto le sto per riferire».
Vi è un testimone oculare, pensava Albino, e a quanto pare un buon cittadino, non come il pregiudicato Gaina. Accidenti al Beretta. Non c’è in un momento cruciale. E poi questa deposizione al bar. In teoria dovremmo andare in gendarmeria... A questo punto non so bene cosa fare.
«Di recente poi, un’altra notizia» riprese il maestro «a proposito di un inserviente degli Alfieri-Ferri che avrebbe assoldato due loschi individui per occultare il corpo della giovane Eleonora. Lessi, poi, che il medesimo è stato rilasciato per insufficienza di prove».
Albino ascoltava in silenzio, facendo di tanto in tanto dei rapidi segni sul taccuino nero. Il maestro, in quegli istanti, buttava lo sguardo sui fogli del giovane gendarme, come per accertarsi che il tutto fosse annotato con diligenza.
«Guardare dalla finestra non è un gran passatempo, sarebbe meglio leggere; faccio anche quello, ma mi addormento fra le pagine. Come le dicevo, oltre alle prospettive che le ho elencato poc’anzi, dalla finestra del tinello, che sta sull’angolo tra via Canova e via Camuzio, ho uno scorcio su piazza Maghetti. La facciata barocca della chiesa di San Rocco e l’ingresso dell’orfanotrofio sono le parti di un quadro che mi appare in tutti i locali. Per non far sembrare il mio innocuo passatempo uno scellerato vizio, all’imbrunire spengo il lume e come al cinematografo osservo».
Il Frigeri si concentrò. Nonostante la sua loquacità, traspariva dalla sua voce un certo timore nel narrare il seguito del racconto, quasi riluttanza, come se stesse per intraprendere un’azione calunniosa.
«La sera prima del ritrovamento del corpo della giovane Alfieri-Ferri, verso le 21.00, vidi sul sagrato di San Rocco due individui atipici per quel luogo. Di solito a quell’ora davanti alla chiesa non c’è nessuno: l’ultima funzione termina alle 20.00. La luce era debole e, sebbene la mia vista sia ancora buona, non saprei darne una descrizione, sennonché uno appariva più alto dell’altro».
«Quale curiosità le hanno innescato quei due individui? In fondo si trattava di signori in mezzo a una piazza e tutto sommato non in ora tarda» chiese il Frapolli, cercando di sfoderare una certa astuzia così da verificare la veridicità della deposizione.
«Per l’appunto la loro estraneità al luogo. Movenze e atteggiamenti non da gente timorata di Dio, che si muove con altre posture. Sono divenuto nel tempo un attento osservatore».
«Come mai si ricorda di quell’episodio?» chiese il gendarme.
«Associai la mia osservazione di quella sera al fatto di cronaca che lessi il giorno dopo, coinvolgendo la mia Cesira sull’insicurezza delle vie notturne, dovuta appunto a taluni personaggi – mi scusi – che possono girare indisturbati, senza che vi sia un puntuale intervento delle forze dell’ordine».
Il Frapolli annotava, poco convinto, quanto udiva e nel frattempo rifletteva su quell’articolo orchestrato dal suo capo, immaginandosi una fila di testimoni pronti a giurare d’aver visto due uomini con fare losco da qualche parte in città. Il fatto però che il luogo fosse il medesimo di quello indicato dal Gaina gli fece prestare un’attenzione diversa. Cercava un parallelismo, un riscontro con quanto sapeva già.
«Questi due signori» riprese il Frigeri «si guardavano tutt’attorno come se aspettassero qualcuno. Si giravano di continuo scrutando ogni anfratto della piazza. Tant’è che ebbi l’impressione che mi avessero notato».
«L’hanno vista?».
«No. Non credo. Comunque mi compressi nella poltrona, tanto da fare un tutt’uno con la fodera».
Un altro breve appunto sul taccuino e una pausa con gli occhi addosso al maestro in attesa di una rispondenza che potesse ritenere plausibile.
«Uno dei due vide con tutta probabilità quel qualcuno che aspettavano e destò l’altro. Entrambi si diressero verso una figura, un’ombra ai miei occhi, che si trovava vicino all’ingresso dell’orfanotrofio. M’incuriosii e la mia attenzione si accentuò».
Anche l’attenzione di Albino cambiò. La testimonianza pareva più consistente di quello che aveva appena ipotizzato. Forse c’era qualcosa di utile per l’inchiesta in quel fortuito incontro al bar.
«Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai ai vetri. In penombra cercai di migliorare la mia visuale spiaccicando il naso sui vetri, ma nulla». La flessione della voce del maestro mutò da sommessa a insinuante, enfatizzando l’intrigo. «La luce era troppo misera. Il velo della notte m’impedì di capire cosa stesse succedendo in quell’anfratto. Trascorsero pochi minuti e i due tizi di prima si allontanarono dalla piazza dirigendosi verso via Maghetti. Sempre più lontano dal mio sguardo».
«E il terzo uomo? Che cosa fece?» chiese Albino conquistato da quanto udiva.
Il Frigeri si accigliò, come se la soluzione dell’intera faccenda dipendesse dalla sua destrezza e competenza. Con le sopracciglia inclinate a sessanta gradi e le pupille dilatate, tenebroso, abbassò la schiena e accostò la testa a quella del suo interlocutore, cercando l’avvicinamento per una confidenza indicibile.
«È venuto verso di me».
Vi fu un lungo silenzio. La prudenza con cui il maestro raccontava quell’episodio fece capire al giovane gendarme che aveva riconosciuto il terzo uomo.
«Qualche istante dopo i due tizi, l’uomo uscì dall’angolo e s’incamminò nella direzione opposta. Attraversò piazza Maghetti e s’infilò per via Canova, passando davanti alla finestra del mio tinello».
Mancava solo il nome. Il Frigeri, in condizione di disagio, faticava a pronunciarlo e si addentrò in una miriade di premesse atte ad accertarsi che tutto fosse verificato nei minimi particolari. Rifuggiva l’idea di essere inteso come un delatore.
«Era il figlio di Matilde Snorghi, la sorella del noto luminare luganese, l’avvocato Laghi. Conosco bene la madre perché fu mia allieva. Il figlio lo conosco solo di vista, credo che si chiami Sebastiano».
Albino sobbalzò sulla sedia e non riuscì a nascondere la sorpresa. Ecco chi era il signore del sagrato: Sebastiano Snorghi, il fidanzato di Alessandra.
Erano sulla pista giusta e quest’altro tassello lo confermava. Doveva trovare al più presto il suo capo e aggiornarlo sui nuovi sviluppi. Chiuse il taccuino e si raccomandò con il maestro: «Non parli con nessuno del nostro colloquio. Dobbiamo attendere il delegato Beretta e una sua decisione in merito. Mi raccomando». Il Frigeri mosse di poco la testa in segno di assenso.